Un giorno il Signore disse: - Chi vuoi venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua.- Pochi gli sono andati dietro. Vicino c'era soltanto il gruppo degli apostoli.
del 01 gennaio 2002
Verso la pasqua
 
Ieri sera ho seguito la processione della croce. Se lasciassi andare il cuore, finirei per dimenticarmi della realtà che permane dietro la lusinghiera apparenza.
È duro strapparsi un'illusione, di cui si ha bisogno per vivere.
 
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Un giorno il Signore disse: - Chi vuoi venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua.- Pochi gli sono andati dietro. Vicino c'era soltanto il gruppo degli apostoli.
- Volete andarvene anche voi?
- Dove mai andare? Tu solo hai parole di vita eterna.
Quando però, da parola minacciata, la croce diventa quella di Gesù: quando il Maestro è catturato, condannato, caricato, crocifisso, allora anche il minuscolo gruppo dei rimasti si disperde ed egli rimane solo lungo la via del Calvario: rimane solo proprio colui che saliva per tutti, con la croce di tutti.
 
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La nostra processione, davanti e negli intermezzi, non aveva che delle croci, stranamente illuminate dai riflessi rossastri e ondeggianti delle torce a vento: croci di legno che si portano con poca fatica: strade che si camminano una volta l'anno con facilità tradizionale.
Chi ne capisce il significato? Chi ne misura il valore? Chi vi aderisce con l'anima intera?
- Se uno vuol venire... prenda la sua croce.
Ci è parso di averla tutti ieri sera sulle spalle una croce, la nostra croce. Ci siamo sentiti come lui dei condannati: abbiamo chinato anche noi testa spalle cuore: una volta tanto ci siamo messi tutti dietro a Cristo. Anche i pochi spettatori si son trovati, senza volerlo, nella processione della sofferenza comune. Ci potevano stare anche loro. Chi non ha una croce da portare?
Il riconoscimento di un destino comune è già qualche cosa. La dichiarazione di una comune disgrazia; il buttar via, una volta tanto, la maschera del nostro falso benestare per prendere la faccia dell'uomo del dolore - vir sciens dolorum - è un avviamento salutare: è il venerdì santo del Figlio dell'Uomo.
Ma non è tutto il venerdì santo. Il venerdì santo, con le croci davanti e la Spina nel mezzo della processione, è un'altra cosa, qualche cosa di più: lo sforzo di seguire Gesù, di fare come lui, per amore, la rinuncia dei nostri diritti, per sopravanzare, nell'eroismo della carità, i nostri doveri.
 
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I diritti del Cristo come Figliuol di Dio? Una parola di san Paolo dà le vertigini della rinuncia: exinanivit semetipsum, formam servi accipiens... et factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis.
Dei suoi diritti di Figlio dell'Uomo egli fece getto come nessuno mai, né prima né dopo.
Rinuncia a scolparsi, lui, l'Innocente.
Rinuncia a difendersi, lui, l'Onnipotente.
Rinuncia alla rivalsa, lui, il Terribile.
 
Rinuncia alla vita, lui, il Vivente.
Il cialtrone, il paltoniere, la lancia spezzata dei capi, gli scherani assoldati, la ciurmaglia di ogni popolo e di ogni razza possono sfogarsi sull'Uomo, che non ha più alcun diritto di umanità.
Rinuncia ad essere compatito, lui, il Pietoso. Quando Pilato crede d'impietosire il popolo mostrando gli l'Uomo della pietà, si sente rispondere: crocifiggilo! crocifiggilo!
Rinuncia a morire in pace, lui, il Pacifico.
Senza guanciale, senza una goccia d'acqua, con gente che sotto lo sbeffeggiano.
 
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E i doveri?
Egli è andato oltre ogni dovere, con una carità senza limiti.
Dire la verità quando costa la vita, è di là del dovere. Scegliere di essere poveri alla maniera di Gesù, è di là del dovere.
Fare del bene a chi fa del male, è di là del dovere. Amare chi ci odia, è di là del dovere.
Dar la vita a chi ci fa morire è di là del dovere, di là dell'uomo. È l'Amore fatto uomo, di cui nessuno potrà misurare «la larghezza, la profondità, la sublimità».
 
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Il Crocifisso che ho seguito è tutto questo e di più. Non lo so dire il di più.
Chi può comprendere l'Amore crocifisso per amore di chi non merita amore?
Ieri sera l'ho seguito senza vedere, senza conoscere, senza volere.
I discepoli, che videro, fuggirono. lo non sono fuggito perché non so più dove scappare. Tutto è peggio, più disperante del Calvario. Chi scappa non ha che il sentiero di Giuda: «s'allontanò e andò ad impiccarsi». Non sono scappato perché Gesù è spina dentro il mio cuore, dentro il cuore del mondo, dentro il cuore di ognuno. lo non riuscirò a strapparmela più, più. Sono malato di lui. Tutti, tutti siamo malati di lui: anche chi non lo vuole, anche chi lo bestemmia.
 
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Mentre procedevo, la mia fantasia camminava dietro la croce che si moltiplicava davanti ai miei occhi.
Quante croci! - Troppe croci -, disse un mio vicino. Troppe croci, perché abbiamo diviso il Cristo: perché abbiamo dimenticato ch'egli è Uno e che Uno deve ritornare se vogliamo guarire.
C'è il Cristo dei poveri, il Cristo dei ricchi: il Cristo dei padroni, il Cristo dei servi: il Cristo degli oppressi: il Cristo dei tiranni: il Cristo degli umiliati, il Cristo degli offensori: il Cristo italiano, francese, inglese, tedesco, americano, croato.. .
Tante croci, ma un unico Crocifisso, un'unica sofferenza, quella che Cristo accoglie ed eleva «affinché siano tutti uno in lui come egli è uno nel Padre».
Ieri sera, nel ricordo del dramma diciannove volte secolare, son saliti da ogni paese, dietro il simbolo dell'umana redenzione, i canti processionali. - Vexilla regis prodeunt, Fulget crucis misterium... - Penso a un'umanità che nella sera di un venerdì santo non lontano s'avvii da ogni dove verso i misteriosi incontri delle proprie croci.
Da qualunque legno egli penda, da qualunque spalla sia portato, il Cristo, che vi è sopra crocifisso è lo stesso.
 
Che in lui si riconoscano e si abbraccino le membra disperse di questo unico corpo straziato: allora sarà la pasqua.
Tante croci, ma un solo Cristo, un comune denominatore, che a differenza dell'altro, il nostro egoismo, ci può rendere capaci di superare il diritto e il dovere ricordandoci che in ogni uomo che soffre siam tutti noi che soffriamo. Non c'è bisogno che ci scambiamo la croce. Ognuno finirebbe per caricarsi la propria, non perché più lieve, ma perché tutte le croci si equivalgono nel Crocifisso di ogni croce.
La solidarietà del soffrire è poca cosa, se non la guardo attraverso il misterioso fulgore della croce, se, nel Cristo crocifisso, non so baciare, ieri sera e sempre, tutta la sofferenza umana.
La notte che sa
- Oh notte veramente beata che sola meritò di conoscere il tempo e l'ora in cui Cristo risuscitò dagli inferi.
 
(dalla Liturgia)
 
Per i discepoli, la notte del sabato, fu la notte più spenta, anche se il plenilunio continuava. Quella del venerdì, subito dopo la sepoltura, aveva ancora qualche cosa del Maestro. I loro occhi, ancora bagnati di «pianto amaro», riuscivano a scorgere dietro la pietra grossa del Sepolcro, imprestato all'ultimo momento da Giuseppe d'Arimatea, un volto e una speranza.
- Speravamo... Ma adesso è già il terzo giorno che queste cose sono accadute.
Dopo la giornata del sabato, eguale e interminabile come le giornate che seguono le sepolture, la notte fu veramente la fine per de' cuori che avevano osato collocare una speranza immortale sovra un uomo mortale. Chi non sa vincere la morte è un pover'uomo come noi.
Sulla strada della pasqua non un passo, non un cuore. Il sepolcro senza gloria aveva tutto inghiottito.
Solo un gruppo di donne sospiravano «verso l'alba del primo giorno della settimana per andare al sepolcro ad imbalsamare Gesù»: omaggio pietoso ad una fede perduta, che la tomba aveva composto per la religione dei ricordi. Nessuna di esse avrebbe portato con gli aromi, sia pur ben celato, l'alleluia.
Se si chiedevano chi le avrebbe aiutate a rimuovere la pietra, non era certo con l'intenzione di «far strada alla vita», ma per un'ultima devozione alla morte.
Di qua, nessuno chiamava il Cristo, neanche la Maddalena, che pure non poteva aver dimenticato certe parole del Signore sulla tomba di Lazzaro.
Tutti avevano bisogno di vita e nessuno chiamava il Vivente: tutti avevano bisogno ch'egli vincesse la morte e nessuno osava immaginarlo trionfante.
L'alleluia è nato unicamente dall'infinita carità del Signore, che dal sepolcro non guardò se di qua c'erano cuori consapevoli del suo ritorno e vigilanti.
L'uomo non sapeva, ma la notte sapeva; «aveva meritato di sapere il tempo e l'ora in cui il Cristo sarebbe risorto».
 
Nel mistero, affermato dalla liturgia, l'accento inconfondibile della pi√π alta poesia.
Che può aver fatto questa notte di marzo avanzato o dei primi d'aprile per meritare di accompagnare il Risorgente?
«Mentre tutte le cose tacevano e la notte era al colmo del suo andare, dalle sedi regali discese la sua Parola onnipotente».
In Betlem, prima dei pastori, accanto alla Vergine e a Giuseppe, vigilarono i silenzi della notte, colmi di stelle e di preghiere pronunciate col cuore genuflesso da tutte le creature.
 
Nella notte la creazione si purifica da ogni contagio e ritrova quelle limpide confidenze tra cielo e terra, che l'uomo troppo spesso impedisce con la sua presenza piena d'orgoglio e di frastuono.
Quando è notte, la terra può ascoltare e seguire tutti i movimenti misteriosi del suo grembo perennemente fecondo: il seme che rompe l'involucro, il germe che spunta, la linfa che sale, le acque che scorrono nelle sue viscere, dopo aver dolcemente baciato ogni granello di sabbia.
Quanta fedeltà nella terra! quanto cuore nella notte! Per questa fedeltà e per questo cuore, la notte «ha
meritato» di conoscere l'ora della rigerminazione del corpo del Salvatore, affidato alla terra con la stessa umiliazione con cui un giorno era stato affidato al seno della Purissima.
La divina avventura del Risorto non poteva avere a testimonio che i puri adoranti silenzi della notte, l'ineffabile sinfonia delle creature che riposano nella gran pace delle chiarità lunari, gli occhi delle stelle che vedono gli angeli trasvolare di cielo in cielo e scendere sulla terra a guardia di un sepolcro vuoto.
«È la notte di cui sta scritto: la notte sarà illuminata come il giorno». Ed è la santità di questa notte che sa «la quale fuga i delitti, lava le colpe, ridona l'innocenza ai colpevoli e la letizia ai mesti. Fuga gli odi, ripristina la concordia e sottomette gli imperi» .
Il mistero della pasqua si ripete. La notte sa ed è col suo cuore adorante sulla strada del Cristo che torna vincitore della morte.
Ma l'uomo dov'è col suo povero cuore?
Chi di noi crede veramente a colui che risorgendo, suggella «l'eccesso inestimabile di quella divina carità che per redimere il servo consegna alla croce il figlio»?
Quanti, tra i molti che affolleranno domani le chiese per i riti pasquali «sentiranno» il Risorto negli avvenimenti che si preparano?
Chi vuole «la pasqua» come un impegno di servire la giustizia e la pace del Cristo?
Come le donne ci metteremo in cammino all'alba per recarci alle nostre chiese, le braccia ingombre d'aromi per imbalsamare ancora una volta il Signore, giacché non riusciamo a sottrarci all'ingiunzione di certi segreti richiami.
Così, purtroppo, è la nostra pasqua: un omaggio di pietà, come se il Cristo, in questo momento, avesse bisogno della nostra piccola pietà.
I morti hanno bisogno di pietà: il Vivente di audacia. «Non vi spaventate - parlano gli angioli -. Voi cercate
Gesù. Non è qui. Ecco il luogo dove l'avevan posto».
Il passato, le civiltà, le colture, le nostre stesse basiliche, le nostre stesse più care tradizioni possono essere i luoghi, ove l'avevano posto gli uomini di un tempo.
«Andate a dire ai discepoli e a Pietro, ch' egli vi precede... ».
Dove? Dappertutto. In Galilea e sul monte: nel cenacolo e lungo la strada di Emmaus: sul mare e nei deserti, ovunque l'uomo pianta la sua tenda, spezza il suo pane, costruisce le sue città, piangendo e cantando, sospirando e imprecando.
- Egli vi precede.
Ecco la consegna di questa pasqua.
Se alzandoci dalla tavola eucaristica avremo l'animo disposto a seguirlo ovunque, «ovunque lo vedremo, com'egli ha detto».
 
 
 
Aria di pasqua
Da una decina di anni i nostri gruppi di universitari e di laureati invitano alla pasqua i loro compagni; e l'iniziativa che documenta la vitalità della chiesa e lo spirito d'apostolato del nostro tempo, oltre che fruttuosa, è già ricca d'una sua «esperienza» .
 
Parecchi lontani, de' pi√π travagliati e meglio disposti, hanno questa impressione.
«Si chiede la pasqua e come pasqua ci offrite il sacramento. Sta bene il precetto: ma noi vogliamo vedere e sentire cosa veramente significhi il mistero pasquale e quale sia il rapporto tra il sacramento e la pasqua, che ci presentate come la ripresa totale della vita secondo il Risorto».
L'impressione che è poi una richiesta, non è fuor di posto. Questi lontani intuiscono che c'è «qualche cosa» di non ben capito e di non bene espresso neanche da noi; che la comunione pasquale è inserita in «qualche cosa» di «nuovo», di «numinoso», ignoto a noi stessi o almeno che noi stessi siamo incapaci di esprimere.
Se ci limitiamo a rispondere che la comunione impegna, essi sono tentati di guardare alle nostre comunioni, che impegnano così poco.
Rifacciamoci piuttosto al pensiero della chiesa, la quale ha sempre dato alla pasqua un significato «centrico».
Il precetto della comunione è innestato nella pasqua; ma la comunione non è tutta la pasqua.
Questo raccorciamento della pasqua prova la nostra incapacità di abbracciare il mistero pasquale nella sua meravigliosa ampiezza. Chi stacca un particolare dall'insieme può credere di vedere e non vede: chi ferma un episodio o un «momento» nella continuità di una vita può credere di capire, ma non capisce. A lungo andare, il particolare stesso perde ogni significato e si conserva come si conservano i cimeli o i ricordi.
Per questo penso che una riflessione sulla nostra esperienza della pasqua ai lontani richieda innanzi tutto una giusta visione del mistero pasquale.
Chi capisce la pasqua capisce anche la comunione pasquale.
 
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Quando siamo di fronte a una verità di fede con disposizione interiore insufficiente, se uno vuol rimanerle in qualche modo vicino senza obbligarsi a uno sforzo di adeguazione interiore, la commemora per mezzo del rito o la intellettualizza con la ragione.
Il rito, come può accrescere nell'anima la conoscenza e la vita della verità, può rimanere un semplice aiuto della memoria. E così, quando viene la pasqua, si «commemora» la pasqua, se ne fa la memoria, ricordando i fatti della storia di Cristo.
Come se il Signore avesse detto: - Ricordate quello che ho fatto -, invece di: - Fate questo e avrete la «mia memoria».
Si vive di memorie quando non si vive più. Quando la nostra fede è incapace di continuare la vita di Cristo, si fa la storia della sua vita. Cristo cessa di essere la «nostra vita» per rimanere unicamente nella storia, non nella storia che si fa ogni giorno, ma nella storia che un giorno fu.
E allora, per ben ricordare, si raccontano gli episodi di quello che accadde una volta a Gerusalemme, nell'ultima pasqua terrena del Signore: ma il racconto non prende il cuore di nessuno, non interessa veramente nessuno. Se la passione che fu non è la passione che continua, ossia la «novità», non interessa nessuno.
Chi invece ha dimestichezza con la ragione e le sue architetture, di fronte a una verità che per divenire nostra ci richiede un lavoro di elevazione morale e spirituale, è nella tentazione di intellettualizzarla; cioè, vi lavora sopra col suo intelletto interamente staccato da ogni altra sua facoltà e ne fa il suo «capolavoro», oggetto di contemplazione e di compiacimento sterile.
 
Si ha l'illusione di possedere, mentre non si possiede che un fantasma o un'astrattezza di nessun aiuto giornaliero, ostacolo più che strada per afferrare la verità ed esserne afferrati.
Quando la pasqua o gli altri misteri sono unicamente avvertiti dalla memoria o dall'intelletto astratto, il parlarne o lo scriverne diventa così spedito e tranquillo, che ci si meraviglia come gli altri, «i lontani», non capiscano. E quasi ce la prendiamo con la loro durezza, accusando li di indisposizioni che forse non hanno, perché, mentre noi sentiamo soltanto l'astratto del mistero, essi, più istintivi e assetati, vogliono sentirne il concreto.
Quindi, per i lontani come per i vicini, la pasqua va ritrovata; è sempre da ritrovare.
 
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Per orientarci in tale ricerca, serviamoci delle espressioni usate per indicare la pasqua.
Si dice: fare la pasqua, il mistero pasquale, la novità. «Faccio la pasqua co' i miei discepoli».
La pasqua è un'azione non circoscritta al fatto sacramentale: un'azione che ripete, nel limite dell'uomo, i misteri pasquali. Infatti, la liturgia non fa che parlare di misteri pasquali.
Qual significato dà alla pasqua la parola «mistero»?
Comunemente per mistero s'intende una verità rivelata che la nostra mente finita non può né potrà esaurire. Ma in religione la verità non è né può essere un concetto: è sempre un fatto, qualcosa non solo di reale, ma di vivente, perché la verità è Dio, il Vivente.
Ora, nel mistero della pasqua, non è soltanto la resurrezione, cioè il fatto della resurrezione che non capisco; è soprattutto il Mistero di Vita nascosto (absconditus) nella resurrezione, che né io né tutti gli uomini potremo «esaurire».
Per questo, il mistero pasquale non si ripete, come non si ripete la primavera.
Si ripetono le descrizioni della primavera, come si ripetono le «descrizioni concettuali» del mistero pasquale, come si ripete la memoria rituale della pasqua. La pasqua è la primavera, la «novità», secondo l'inarrivabile e fecondissima parola della liturgia.
La primavera è sempre la primavera: ma nessuno di coloro che pur l'hanno vista tante volte, dice: - Mi annoia: sempre la stessa.
Sono sempre le stesse cose; eppure non sono le stesse cose: è sempre la primavera, ma non è la stessa primavera. È la manifestazione della stessa forza, ma non è la stessa manifestazione. C'è perennità e novità.
Così la pasqua. È la vita perenne del Cristo nel suo momento più travolgente, ma una vita che ha manifestazioni nuove, che è «novità» ad ogni pasqua in ognuno di noi e nell'insieme del corpo mistico.
La pasqua di quest'anno, la pasqua della chiesa come la mia pasqua, non può essere la stessa dell'anno 1915.
 
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Allora, fare la pasqua, è come fare la primavera. Non si assiste allo spettacolo della primavera o se mi pare
di assistere alla sua meraviglia, m'accorgo che sono anch'io nella primavera, che io stesso sono la primavera e che la rinascita della natura è un poco la mia stessa rinascita e che il mio comprendere e godere la primavera è regolato dalla mia partecipazione.
A vent'anni la primavera ha vibrazioni diverse che a sessanta, a ottanta; ma è sempre primavera. Nessuno è fuori della primavera. Vi partecipiamo in maniera diversa, ma vi partecipiamo tutti perché è un fenomeno generale.
 
Anche la pasqua è per tutti, dev'essere per tutti, non la contemplazione ma il «sentimento», non importa se espresso negativamente con la sofferenza che dà la privazione o l'affievolimento della vita del Risorto.
La primavera tocca tutte le creature, ha un'atmosfera sua, - qualche cosa d'indefinito e di quasi palpabile - che influisce su tutte le creature.
Bisogna creare un'atmosfera pasquale se vogliamo che tutti sentano la pasqua.
I riti, le campane, l'alleluia, le prediche, i ritiri ecc. non bastano a creare tale atmosfera. Essi costituiscono il decoro o lo sfondo della pasqua, la sua poesia, rimasta legata alla memoria di una Vita che pare non si ripeta più nella cristianità, almeno nelle proporzioni di una volta.
Pare che la cristianità - penso a questa pasqua di guerra - non abbia più una sua pasqua o che la nostra maniera di fare la pasqua non basti più a creare l'aria della pasqua.
Forse per questo motivo i lontani si muovono a fatica anche in questa pasqua, che, meglio d'ogni altra, ci richiama la prima pasqua.
 
 
 
Invito a pasqua
 
«Ora il primo giorno degli azzimi, i discepoli vennero a Gesù e gli dissero; - Dove vuoi che ti facciamo i preparativi per mangiare la pasqua? - Ed egli rispose: - Andate in città dal tale, e ditegli: il Maestro dice: il mio tempo è vicino, farò la pasqua da te coi miei discepoli. - E i discepoli fecero come Gesù aveva loro ordinato e prepararono la pasqua». (Matteo 26,17.19)
Anche i discepoli non sanno dove il Maestro voglia mangiare la pasqua: ne conoscono soltanto il grandissimo desiderio: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua» (Luca 22,15). Di più non sanno, né oserebbero chiedere se non fosse necessario sapere qualche cosa di preciso per adempiere il loro dovere di «ministri», dato che tocca a loro preparare per lui e per gli ospiti.
Gli ospiti di Gesù. Dopo la parabola del festino siamo sconcertati. Quelli che dovevano venire, gli invitati, non ci sono: l'ordine è di uscir fuori, lungo le strade, sulle piazze, nei trivi e negli angiporti: invitare, prendere, portare quanti si incontrano. Amplificazione drammatica del «venite a me voi tutti che siete stanchi e affranti», commento e compimento del profeta: «chi ha sete venga alle fonti e voi che siete a mani vuote bevete con più gioia».
Stavolta però non è questione di sapere chi può venire. Lo sappiamo bene che ci possono venire tutti, che ci vengono anche quelli che paiono non muoversi o quasi fuggirlo, ma per questa pasqua bisogna trovare anche l'anima, cui il Cristo possa rivolgersi.
Son due momenti diversi.
 
Nel primo, il Signore ospita nel suo cuore tutte le stanchezze, le quali vi confluiscono quasi d'istinto poiché ogni anima sospira verso il porto.
È la pasqua di tanti che non possono ancora comunicare sacramentalmente col corpo e col sangue di lui.
Chi fa la verità comunica con la luce: chi spinge lo sguardo oltre la siepe del proprio egoismo e vi sospira dietro col cuore, anche se il volere non asseconda interamente l'anelito, quegli è sulla strada della pasqua.
 
Nel secondo, il Signore vuole l'anima che gli offra ospitalità, gli spalanchi la porta, gli faccia posto, gli dia un pugno di farina per il fermento della redenzione, gli porga il pizzico di fango, buono per far vedere il cieco nato.
«Gli uccelli dell'aria hanno il nido, le volpi una tana: il Figliuol dell'Uomo non sa dove posare il capo».
Signore, uno almeno l'hai trovato e lo troverai ancora.
Simone il lebbroso ha la casa non il cuore dell'ospite, ma viene la peccatrice. Poi, trovi Zaccheo, il buon ladrone...
La pasqua vera è così.
 
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Andate in città dal tale... Un ignoto. Misteri della grazia.
Chi di noi è chiamato ad ospitare Gesù nella pasqua vicina?
- Forse io, Signore?
Ma così parlava anche Giuda.
- Ecco, sto alla porta e picchio: se uno mi apre.
Se uno... ha una sete sconfinata e s'accontenta di una goccia. O beata discrezione del mio Signore! Tu rispetti anche la mia stoltezza che osa sprangarti l'uscio in faccia. Tu conforti il mio predicare a vuoto per le strade del mondo.
Son dei discepoli, gente che impara, che va a scuola da lui, che non ha finito d'imparare, che non finirà mai, che fraintende spesso: gente che fa la pasqua senza capire, che poi scappa, rinnega, tradisce.
Gente di campagna, rozza, maldestra: gente che non sa parlare, che non si raccomanda per niente: gente che ha la sagoma del vostro servo o del vostro sguattero: gente che a non darle ascolto par di guadagnarci.
- Non ascoltiamoli, dunque.
Badate: son degli inviati e con questa commendatizia: «Chi ascolta voi, ascolta me: chi disprezza voi, disprezza me».
Vengono, ma non dicono cose loro: ripetono ciò che hanno udito: son dei ripetitori, alla maniera dei fanciulli.
«Il Maestro dice». Non c'è miglior ripetitore d'un fanciullo o di chi gli assomiglia.
«Egli disse - voi direte - noi gli abbiamo detto...».
Il vangelo è di questo stile: un messaggio non manipolato, un sapore e un profumo sicut odor agri pieni.
Questa nostra rustichezza è una garanzia, come l'aroma del pane casalingo e del vino del nostro brolo.
Se v'impennate di fronte ad essa, se le opponete il vostro orgoglio di gente che sa, di gente che conta, di gente che comanda, la verità rimane sigillata. Se avete schifiltà, è segno che non bruciate di sete.
Tutte le manifestazioni dell'Emmanuele sono umiliazioni. Viene tra gli uomini e ci sta come chi serve.
Vuole rimanere comunione perenne e si fa pane! Vuole rimanere Verità fino alla fine dei secoli e si mette sulla bocca di pochi rustici di Galilea. Noi sacerdoti siamo l'informe parabola di Cristo-verità,. lo «scandalo» che continua. «E beato colui che non si scandalizzerà in me».
Perché? Non lo so. So ch'egli ha voluto così; perché la verità è verità nonostante la parola in cui s'incarna: perché nessuno deve fermarsi al vaso: perché l'uomo non conta: perché il vangelo è «virtù dall' alto per ogni credente». Più che l'intelligenza, la fede.
Allora, anch'io, l'ultimo dei messi et tamquam abortivus, mi cheto nella mia miseria. Non sforzo la mia natura: sto davanti a chiunque come davanti alla mia chiesa domenicale, senza coprire né insufficienze né peccati.
Questo mi consola che voi non dovete credere in me. lo passo: non sono che una voce... La pasqua è Gesù.
 
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- Ditegli: - il Maestro dice.
Ecco la nostra forza. Il discepolo ripete. Non un ripetitore meccanico, ma un'anima che ripete come può, ora con passione e slancio, ora con stanchezza e quasi trascinato.
Parla perché ha il dovere di parlare, perché è mandato per parlare.
Clama ne cesses. Guai se non parla! Parlerebbero le pietre. E a chi tenta di chiudergli la bocca, risponde: «Meglio obbedire a Dio che agli uomini». La Parola non è legata.
Non è comodo portare un messaggio divino ad uomini che inseguono un miraggio di benessere corporale. Il messaggio pasquale non è «simpatico». Non viene da un maestro fabbricato da noi, diplomato nelle nostre scuole.
Cristo non è un maestro: Cristo è il Maestro.
- «Io sono la Verità... Sono venuto a rendere testimonianza alla verità».
Pilato ride: quid est veritas?
- A noi non importa la verità.
Non lo dite, perché neppur voi riuscite a vivere di solo pane. Del pane ce n'è: dicono che ve ne sia fin troppo. Ma perché c'è poca verità - diminutae sunt veritates - ecco che il pane è come se non ci fosse.
Abbiamo moltiplicato il pane e non moltiplicato la gioia. Abbiamo troppi maestri di menzogna e troppi idoli, nel nome dei quali giuriamo sicut in verbo magistri. «Essi hanno occhi e non vedono: orecchi e non intendono: piedi e non camminano... E tali ci siam fatti ancor noi che confidiamo in essi...».
Ma tu, Signore, avrai pietà di noi e ci farai «vedere» la tua Parola.
 
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E ditegli...
Sentiamo, almeno. «E sperimentate ogni cosa e ciò che è buono tenete». È massima di grande sapienza.
- Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino.
Quale tempo? «Stai forse per restituire nella sua grandezza il regno d'Israele?».
È vicino il tempo di morire crocifisso. «Voi sapete che fra due giorni è la pasqua e il Figliuolo dell'Uomo sarà consegnato per essere crocifisso».
La prova è il tempo della chiesa.
Molti credono che sia venuta l'ora d'una affermazione pacifica del regno di Cristo. La tregua d'uno stupido anticlericalismo, il rispetto, in parte dovuto a motivi contingenti, sarebbero i segni dell' «ora di Dio» vista dagli uomini.
C'è veramente nel nostro mondo un segno di Dio; ma è tutt'ora un'insegna di passione, il travaglio di un'umanità che attende una civiltà più umana, poiché quella di oggi non può essere l'ultima tappa dell'esilio.
La pasqua è Cristo ripreso nelle mani e nel cuore di qualcuno, che audacemente lo offra al mondo, quale è, Vita dei secoli a venire.
«Ma ora chi ha una borsa la prenda: parimenti chi ha una sacca: e chi non ha spada, venda il mantello e ne comperi una» (Luca 22,36).
 
- Il Maestro dice: il mio tempo è vicino.
Ecco una parola che può essere segnata sull'anima come una vocazione pasquale. Chi ne è degno? Nessuno. Degno è colui che va e fa come il Maestro dice.
 
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- Farò la pasqua da te coi miei discepoli.
Spetta al Signore segnare i confini e le condizioni della sua pasqua. Noi siamo troppo inclini ai compromessi e ai raccorciamenti.
È la pasqua se con Cristo vengono tutti i suoi. Se uno solo resta fuori, anche l'ultimo, anche il nemico, Egli non entra a far pasqua con noi.
Non è l'ostia, ma l'umanità, che è nell'ostia - l'agonia, la passione, la crocifissione del Cristo continua nei fratelli - che ci tiene lontani dalla pasqua.
Teniamolo pure lontano: diciamo gli pure che non c'è posto. La pasqua Egli la fa lo stesso. Scende sulle piazze, nelle strade, negli ospedali, nelle prigioni, sui campi di battaglia, ovunque è fame, dolore, martirio. Nessuno può impedirgli di soffrire con chi soffre.
Se noi vogliamo, possiamo negargli la nostra pasqua: ma la sua pasqua fu e sarà sempre, perché egli è l'Immolato di ogni ora e il fermento necessario per ogni migliore domani.
 
don Primo Mazzolari
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