VESPA: sessant'anni di gioventù

Storia e curiosità della due-ruote che ha messo in moto l'Italia. E non solo.

VESPA: sessant'anni di giovent√π

da Attualità

del 29 aprile 2006

Pontedera, provincia di Pisa. Chiamatelo come volete questo Comune Il paese delle due-ruote che nell’immediato dopoguerra hanno “rimesso in moto” l’Italia. Il simbolo del miracolo economico. Il luogo dove la sfida continua ed è ricca di novità. La culla di un mito. A me piace di più “nido delle vespe”. Già, perché è lì, nello stabilimento Piaggio, che sessant’anni fa nasce la Vespa, la due-ruote più famosa e più prodotta del mondo. Lo scooter con una sorpresa dietro l’altra, neanche fosse il cappello di un prestigiatore. A cominciare dal fatto che a Pontedera il “patron” Rinaldo Piaggio ci arriva quasi per caso, e che all’inizio sulla Vespa sono in tanti non puntare neanche una lira.

La Piaggio nasce Genova nel 1884 per costruire arredamenti navali e dopo, anche carrozze ferroviarie, tram, motori e autocarri. Poi, aggiunge idrovolanti e aeroplani. Per questo, compera pure un piccolo stabilimento a Pontedera. I suoi motori e velivoli sono così validi che per decenni è uno dei maggiori costruttori d’Europa. Purtroppo, durante la seconda guerra mondiale, i bombardamenti alleati distruggono quasi del tutto le fabbriche.

In quelle condizioni, uno dei figli di Rinaldo, Enrico, decide la totale riconversione industriale. Con un pizzico di follia - come altro definirla in quel momento? - punta sulla mobilità individuale di un Paese che uscito dalla guerra, deve (e desidera) muoversi, e a basso costo. Fa realizzare il prototipo di un “scooter” che si ispira alle motociclette per paracadutisti. Si chiama MP5 (dalle iniziali di Moto Piaggio), è simpaticamente battezzato “Paperino”, ma… non piace ad Enrico. Che, a questo punto, si rivolge nientemeno che ad un suo progettista aeronautico: Corradino D'Ascanio (1891-1981).

Per la serie “le sorprese sono appena iniziate”, D’Ascanio non ama le moto o meglio, le moto dell’epoca: scomode, che si guidano quasi in bilico, con gomme difficili da sostituire in caso di (frequenti) forature, con la trasmissione che sembra fatta apposta per sporcare i pantaloni. Così, realizza l’MP 6: scocca portante, cambio sul manubrio, sedile vero, motore sulla ruota posteriore coperto da una lamiera sagomata che ripara il vestito e il motore stesso. Come non bastasse, questo è un semplice monocilindrico a due tempi di 98 cc, con potenza di 3,2 (sì, tre virgola due) cavalli. Un mezzo al limite dell’incredibile, che è brevettato il 23 aprile 1946 come “motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica”.

Enrico Piaggio osserva il prototipo: la parte centrale ampia per accogliere le gambe del guidatore, la “vita” stretta, la carrozzeria arrotondata sul motore. «Sembra una vespa!», esclama. E Vespa fu. Certo, per qualcuno il nome sarebbe nato non da questa battuta, ma come acronimo di Piaggio Veicoli Europei società per azioni. E qualcun altro ha attribuito a D’Ascanio la frase che, rifacendosi alla favola di Hans Christian Andersen, «il brutto anatroccolo Paperino rinasce cigno, anzi Vespa». Fatto sta che per il semiologo Omar Calabrese, quel nome non soltanto «riesce ad identificare ancora oggi la tradizione, come la pizza o la pasta, ma anche l’invenzione e la modernità tipiche dell’Italia».

È spontaneo pensare che con la decisione di produrre in serie duemila esemplari, abbia inizio il trionfo. Invece no: ci sono tanti scettici. Quando Enrico Piaggio propone al conte Parodi, produttore della famosa Moto Guzzi, di inserire la neonata Vespa nella sua rete commerciale, riceve un netto rifiuto. Alla fine, altra sorpresa: per le vendite ci si appoggia a una casa automobilistica, la Lancia. Ironia della sorte: a fine dicembre 2004, lo storico Gruppo Aprilia-Moto Guzzi è acquisito dal Gruppo Piaggio.

Bisogna attendere l’autunno del 1947 perché la produzione della Vespa decolli. L’anno dopo è presentato un nuovo modello, con motore di 125 cc. È l’inizio del “miracolo”. Pochi dati: 2.484 esemplari nel ’46, 10.535 l’anno seguente, 19.822 nel ’48, 60 mila nel ’50 (quando inizia anche l’attività della licenziataria tedesca Hoffmann-Werke) e 171.200 nel ’53. Nello stesso anno, sono oltre diecimila le stazioni di servizio Vespa in tutto il mondo, America e Asia comprese. Il mensile americano Reader’s Digest le dedica un ampio servizio. Il quotidiano The Times la definisce “un prodotto interamente italiano come non se ne vedevano da secoli dopo la biga romana”.

Esagerazioni? Tutt’altro. Sono anni ancora difficili per l’economia e la politica scalda gli animi: è del ’49 la scelta di aderire alla Nato contro il “blocco sovietico” e Trieste torna all’Italia soltanto nel ’54. Eppure i Vespa Club riuniscono migliaia e migliaia di appassionati di ogni gruppo sociale e partito. Compatti anche nel distinguersi dai fans di un’altra “squadra” italiana: la Innocenti “Lambretta”. Come tutti i prodotti di successo, infatti, la Vespa è imitata ovunque. Il 9 giugno 1957, per esempio, il quotidiano russo Izvestija annuncia l’inizio della produzione della “Viatka” 150 cc: un vero clone.

In casa Piaggio, intanto, nascono versioni per le più diverse esigenze. La Vespa “Siluro” del ’51, per esempio, con il motore di 124,5 cc e potenza di 17,2 cv, conquista il record del chilometro lanciato: 171,1 km/h. Oppure i modelli “side-car”, dove il carrozzino laterale ospita in maniera confortevole un adulto o, più spesso, una donna e un bambino (siamo ancora in piena ricostruzione e la “mitica” Fiat 500 sarà presentata nel ’57). O ancora, negli anni ’56-59, i modelli per l’esercito francese.

Accanto a questi, ecco pezzi unici, passati alla storia. Nel 1962, per esempio, due studenti madrileni decidono di fare un giro attraverso l’Europa. A Cadaquez vanno a trovare l’artista Salvador Dalì che, non smentendosi, decora la loro Vespa 150 S e la “firma” con i nomi suo e della compagna Gala (ora il mezzo è conservato nel Museo Piaggio). Unica è anche la Vespa-Alpha del ’67, realizzata sulla base della versione 180 Super Sport: nel film di spionaggio Dick Smart, Agente 2007, corre su strada, si alza in volo come un elicottero, naviga e s’immerge come un sommergibile.

Un’altra volta la fortuna arriva nientemeno che da una legge potenzialmente sfavorevole. Nel 1960, l’allora nuovo Codice della Strada rende obbligatoria la targa per le due-ruote con motore di cilindrata superiore ai 50 cc. Come risposta a questo vincolo e alla prevedibile diminuzione delle vendite, nel ’63 D’Ascanio realizza uno scooter (l’ultimo da lui firmato) di soli 49 cc: si guida senza targa, senza patente e già da 14 anni. Un successo. Ideale per gli spostamenti in città, la Vespa 50 diventa il regalo di promozione di tanti studenti. Prodotta in oltre tre milioni e mezzo di esemplari, è ancora sulla cresta dell’onda: la versione ET 4-50, presentata alla fine del 2000, è il primo vespino con motore a quattro tempi e percorre oltre 500 km con un pieno di benzina.

Il mito è amplificato da azzeccate campagne pubblicitarie. Lo slogan “Chi Vespa mangia le mele” ha segnato un’epoca del nostro costume. Né si contano le réclame di altri prodotti dove la Vespa compare come sinonimo di libertà, di vita all’aria aperta, di rapporti sociali più facili. In modo analogo, dal film Vacanze romane con Audrey Hepburn e Gregory Peck, del ’53, sono decine le pellicole dove la Vespa è “compagna di viaggio” di attori e attrici come Gary Cooper, John Wayne, Ursula Andress o Raquel Welch. Per non parlare di Antonio Banderas, Owen Wilson o Nicole Kidman. Non basta. Nel 1996, per il mezzo secolo di vita, le Poste italiane le dedicano un francobollo. E dall’autunno del 2004, una Vespa è esposta al Moma di New York.

Il vero record, comunque, continua a essere lei, la Vespa. Dalla prima 98 cc di sessant’anni fa, all’ultima, la GTS 250 i.e. presentata nel maggio 2005, sono 140 le versioni e varianti prodotte. Per un totale di oltre 16 milioni di esemplari, prodotti in tredici Paesi e venduti in 114. Compresi Stati Uniti, India, Australia e Cina. Perché alla base c’è la sua capacità di essere sempre attuale, nel succedersi delle generazioni e nelle diversità politiche e sociali. Insomma, un simbolo del made in Italy, un’icona di giovinezza e di libertà, la cui storia è ben lontana dal terminare.

 

 

Fonte: rivista Dimensioni Nuove, aprile 2006

Lorenzo Boschetto

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