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VIII. Tu sei in carcere

e io sono in carcere. Lo so, Signore, tu sei in carcere per amar mio, e solo perché io rimango nel carcere mio tu resti nel tuo. Tutti e due si appartengono, tutti e due sono la stessa identica prigione. Se ti riuscisse di liberarmi dal mio carcere, saresti anche tu libero; i muri divisori tra noi verrebbero abbattuti, noi godremmo della stessa libertà.


VIII. Tu sei in carcere

da L'autore

del 29 gennaio 2009

e io sono in carcere. Lo so, Signore, tu sei in carcere per amar mio, e solo perché io rimango nel carcere mio tu resti nel tuo. Tutti e due si appartengono, tutti e due sono la stessa identica prigione. Se ti riuscisse di liberarmi dal mio carcere, saresti anche tu libero; i muri divisori tra noi verrebbero abbattuti, noi godremmo della stessa libertà. Anch’io potrei forse liberarti, liberando me stesso, ed anche allora saremmo liberi entrambi. Ma è proprio questo. È questo che tu non puoi, e che io stesso non posso.

lo so del tuo mistero: vuoi aver parte al mio destino. Ma io sono profondamente sepolto in me e non posso far saltare le porte di questo inferno. Pensavi che sarebbe andata meglio in due e ti sei offerto di aiutarmi. Ti sei seppellito nella mia caverna. Ma poiché la mia solitudine è solitaria, lo divenne anche la tua.

Ed ora aspettiamo l’un l’altro divisi da un muro. Lo so bene, la colpa è mia e non tua. Tu hai fatto tutto quanto era possibile. Hai sofferto, espiato al mio posto, pagato tutto in anticipo fino all’ultima goccia. C’è però una cosa che tu non puoi, e proprio questa è quella che io non posso. Dovrei..., ma non posso. Dovrei volere, ma non voglio. Vorrei volere, ma non voglio volere. Come stanno allora le cose, in quale rapporto? lo non lo capisco.

Si tratta che tu hai lavato ed espiato il peccato, l’hai estinto, non solo coperto. Ed esso non esiste più d’ora in poi agli occhi di Dio. Ma il peccato è appunto questo: che io non voglio ciò che Dio vuole. E non vedo in qual modo si possa infrangere questa resistenza in me. Non vedo in che modo si possa infrangere la parete nella

mia prigione.

Comprendi, Signore, quello che penso? Non è facile spiegartelo. Perché io stesso non so bene come vanno le cose, non riesco a connettere. Quando vi rifletto, è tutto come un groviglio inestricabile, e la mia anima vi è come imprigionata; forse è come il montone che si è smarrito tra le spine. Voglio cercare di raccontartelo.

A tutta prima tutto è semplice. Vedo che non posso ciò che vorrei. So anche bene ciò che dovrei. Tu me l’hai spesso detto, il prete me l’ha detto, me lo sono detto io stesso. In questo senso non manca nulla. Ciò che manca è il volere, il poter volere. C’è una volontà in me che vuole; e c’è un’altra volontà in me (la stessa!) che non vuole. «Ciò che faccio non lo capisco, perché non faccio ciò che voglio, il bene, ma faccio ciò che aborro, il male. La volontà del bene c’è in me, ma non il fare. Secondo l’uomo interiore ho sì gioia della legge di Dio, ma mantengo nelle mie membra un’altra legge che contrasta con la legge del mio spirito e mi tiene prigioniero sotto la legge del peccato che comanda nelle mie membra. Uomo infelice! Chi mi libererà da questo corpo mortifero?» Così io sono lacerato nella mia più intima volontà, e proprio là dove io voglio non voglio. E perciò io grido a te dal profondo del carcere del mio non volere: fa che io voglia!

Ma è legittimo pregare così? Tu puoi certo dare tutto, ogni facilitazione, ogni grazia. Ma volere e compiere il passo decisivo, lo devo fare io stesso. Sto disteso sul letto delle mie delizie, e queste mi danno nausea, vorrei distogliermene e staccarmi. E altro non mi manca che la decisione, l’atto che realmente fa la cosa. Posso dire all’amico che mi sta accanto e mi vuol aiutare: Dammi la decisione? Mi potrà mostrare delle motivazioni, porgere alimenti che mi rafforzano, allungarmi la mano, ma il punto indivisibile della libertà, questo scoppio di scintilla del volere reale, come potrebbe fornirmelo? Da nessuno se non da me questo fatto può venir generato. Ora io non voglio. Perché amo il mio piacere, questa amarezza mi è dolce, non mi posso risolvere a rinunciarvi. E se esteriormente mi costringessi e mi gettassi esteriormente nelle catene, la mia anima non si sarebbe con tutto questo distolta veramente. Solo per mancanza di occasione immediata potrebbe non peccare più per un tratto.

Spesso mi apparirà sconveniente investirti di continuo con preghiere che non sono fatte sul serio. Mentre una delle mie mani congiunte piange (Salvami dalla miseria), l’altra geme: Risparmiami e lasciami ancora il mio male amato. Una preghiera dopo l’altra sale davanti a te, e nessuna è piena e chiara. Mentre parlo, parla in me anche un’altra voce, come un’eco diabolica: Venga il tuo regno, venga il mio regno. Sia fatta la tua volontà, sia fatta la mia. Dammi il mio pane quotidiano, lasciami il mio pane quotidiano. Fossi un santo, la mia voce diventerebbe forse muta, ed io potrei amarti con tutto il cuore ed obbedire alla tua legge con perfetta volontà. Ma io sono uno che è fatto di metà e metà, e come è mezza la mia volontà, così anche la mia preghiera; perciò temo assai che non la potrai esaudire e che ti distoglierai da me, come uno che mi sputa fuori.

Ed ora vengo al peggio, e il groviglio diventa davvero inestricabile. Se non posso a un tratto fare il tutto, dovrei poterlo fare a poco a poco. Tu vorresti vedermi camminare, rafforzarmi piano piano, guarire. I piccoli passi che mi sono proposto potrebbero, in luogo della metamorfosi improvvisa, portare passo dopo passo verso la meta. Ma non è così. Mi sembra che si verifichi il contrario. Quando nella mia gioventù il mio corpo si evolveva, pensavo anche a un progresso nello spirito. C’era sopra di me come un sogno di paradiso, realtà passata o di un tempo futuro non saprei. Una fantasia ondeggiava davanti a me, che mi attraeva e scongiurava. In che modo dovessi raggiungerla non lo sapevo, non era importante, perché credevo che tutte le mie strade, anche le più confuse, andavano in quella direzione, e la meta si poteva vederla raggiunta in un giorno lontano. Era come un miraggio nel deserto. Un po’alla volta il corso della vita cominciò a irrigidirsi, arrivai a calpestare la terra sullo stesso posto, la bella immagine alta sopra di me impallidì e si confuse. Si trasformò in una stella o in un ideale, la cui irraggiungibilità formava una parte della sua bellezza. Come una città sommersa, visibile sotto la barca in certi giorni senza vento, ma fango e alghe vi si depositano sopra come un velo, e presto si riesce solo a distinguere qualche buio blocco informe. Tutto vigoreggiava come un cespuglio di rosaspina. Cominciai a interpretare l’ideale come un’astuzia della vita, che rende sopportabile all’inguaribilmente mediocre la sua disperazione. Da quel momento la disperazione affondò, inconfessabile, dentro il mio cuore. Compresi che non avrei mai raggiunto niente. Pesai me stesso e mi trovai troppo leggero. Calcolai quanto profonde il peccato aveva poste in me le sue radici e vidi con esattezza che non mi sarebbe mai riuscito di strapparle. Ci sarebbe stato bisogno di una generosità congenita dell’anima, una nobiltà e forza d’impeto che non possedevo. Non c’era pensiero, non c’era azione in me che non fosse coperta dalla crosta della mia meschinità, del mio spirito mercantile. Niente era per me così incontestabile quanto la mia essenziale limitatezza, che mi costringeva a porre dappertutto limiti intorno a me.

Con questi limiti io urtai contro di te, che sei l’incondizionato, e allora tutto divenne terribile. Sentii la tua infinità, seppi che tu non potevi non spronarmi a una dedizione intera, al salto nella tua luce meravigliosa. Ma di contro stava, con insuperabile evidenza, la inadeguatezza della mia natura. Quanto più la tua grazia tentava di levarmi via il peso, di reggermi con le sue braccia sulle onde, tanto più pesante e rigido io mi riducevo. Seppi che non ti sarebbe mai riuscito. Certo tu potevi perdonarmi via via i miei peccati, portarmi e mantenermi per un breve momento al livello solare della purezza. Ma la mia forza di gravità tendeva incessantemente di nuovo verso il basso. Così la prigione crebbe tutt’intorno a me: di fuori mi davo le arie di una incosciente serenità e di una rassegnazione da persona navigata; ma di dentro, nello strato profondo della mia disperazione, formicolava una specie di pigra agitazione schiva di luce: occasioni trascurate, grazie rifiutate, ineliminabile melanconia. Odore di decomposizione. Si giunse al punto che il solo baluginìo di un nuovo richiamo che veniva da te subito risvegliava il no rotondo del mio non volere. Altro non volevo che continuare ad andare avanti lungo la mia strada criminosa e vergognosa. E quando tu

tentavi di far brillare da fuori la porta della mia prigione, io vi opponevo da dentro i piedi nella mia lucida disperazione. La maschera crebbe identificata alla mia faccia. Ero un cristiano, credevo tutto, praticavo, ma non ero più redimibile. Oppure soltanto nel senso miserabile che m’aspettavo in un lontano aldilà il fuoco che consuma il carcere già definitivo quaggiù, liberando le membra irrigidite dalla corazza. Trovavo che era un danno per me il fatto di averti incontrato.

Ero avvolto nella menzogna. Quando mi dicevo: io posso, io voglio, sapevo già, edotto da cento esperienze: non va, non va. L’argilla non arriva alla statue che pensavi di plasmare usando di me. Ma quando mi dicevo: non posso, non voglio, questo era peccato, perché ti rendevo bugiardo. Due criteri tenevo nella mano, tutt’e due giusti e adatti, ma si contraddicevano. E spesso ho pensato che ai pagani va meglio che ai cristiani, perché essi possono almeno realizzarsi ingenuamente e senza conflitti, invece i cristiani, a prescindere dai pochi eletti che tu ti trascini a forza nel tuo mondo, rimangono crocifissi metà e metà e non sono né terrestri né celesti.

E alla fine ho creduto di capire: non può essere diversamente, poiché tutte le creature sono finite, hanno una misura e un limite, e se questa finitezza incontra l’amore infinito e le sue esigenze, diventa da sé una prigione.

C’è un’angoscia nell’essere finito: quella di essere fatto saltare da Dio; perciò esso si chiude se Dio si avvicina. È un pio errore sognare che noi tendiamo verso l’infinito e verso la liberazione dai nostri limiti: l’esperienza lo confuta. Piuttosto che assumere da Dio la misura dell’infinito, noi gli imponiamo la misura della nostra finitezza. Passo dopo passo noi difendiamo con la forza delle armi il nostro territorio. Innalziamo la nostra offerta di pace: fino a questo punto sono disposto ad andare, sono pronto a concederti spazio; accontentati di tanto, non superare i miei confini. Mi faresti a pezzi, faresti tornare indietro la freccia dell’orologio. Completa in te, dagli arsenali della tua infinità, quello che mi manca. Fino a qui; e non adescarmi più in là! Sappi che la misura secondo cui io mi oriento è questo preciso «gradino delle perfezioni», che io mi sono squadrato secondo le tue proibizioni chiaramente segnate, accresciute da un preciso numero di spontanee opere di amore. A questo mi attengo e sono fermamente deciso a non ascoltare il grido indistinto e informe che volesse impormi un oltre verso l’indeterminato. Essendo appunto soltanto un membro della tua chiesa, è giusto che tu pretenda solo una parte e non magari il tutto. Per costruire su di te, dai molti frammenti degli uomini, la totalità del regno di Dio! Ogni realizzazione umana è collocata appunto nella misura.

Infine hai creato me stesso in un carcere: in questo mio io. In esso io vivo, mi muovo e sono. E io amo questo io, perché nessuno «odia la propria carne». Questo spazio è a me affidato e familiare, il mio pensiero lo illumina, i miei sensi lo popolano con i contenuti del mondo, la mia volontà lo amplifica. Nella sua monade si specchia irrepetibilmente il tutto, l’universo. lo conosco il mondo, e perfino te, solo entro questo spazio interiore, tutto devo misurare secondo le sue leggi. Come l’occhio vede solo colori e l’orecchio sente solo suoni, posso conoscere tutte le cose solo nel loro rapporto a me. Perfino l’amore è una legge di questo io; la sua fecondità, la sua inclinazione creativa verso l’altro, la trascendenza in esso fondata. Anche se sembra arrotolarsi nostalgicamente contro la sua gabbia, questo pure appartiene alla sua vita e rende l’esistenza più ricca e più degna di amore. Questo sé, o Dio, è il dono più alto, è l’unico dono che ho ricevuto dalla tua mano. E tu vuoi porlo di nuovo in questione, me lo vuoi addirittura sottrarre.

Qui saprò difendermi. No, io non desidero a partire da me. Che cosa mi serve un’estasi, una «fusione» con la natura o con una persona umana che amo, se io quest’estasi non la sento più? Come posso donarti il mio amore, offrirti il mio io nell’amore, se questo io non ce l’ho più, se vengo disappropriato di me stesso: il che è quanto tu nel segreto punti ad esigere da me. Lasciami il mio io, allora lo potrai avere!

Questo mio carcere amato, non desidero nessuna libertà! Questa prigione dei miei dolori con tutte le sue deficienze, tutto il suo peso, me ne sono conquistato l’amore facendole lungamente la corte; prendimi, se la natura lo pretende, il mio corpo (me lo restituisci pur sempre in bellezza), solo non rapirmi la mia anima! Tu non puoi esigere questa cosa impossibile: che io mi svesta di me stesso, diventi uno straniero a me stesso, per fuggire a mezzanotte dalla mia finestra come un ladro: nella morte sicura! Non vibrare, Padre, il tuo coltello sopra di me! «Non vorremmo venire svestiti; bensì supervestiti; affinché il mortale arrivi alla vita». Se mi spezzi in due i gusci, come a una conchiglia, io vado a fondo!

FIGLIO MIO, tra la mezzanotte e il fresco del mattino, quando mi trascinarono poi al secondo interrogatorio, ho sostato nella tua prigione. Solo, straziato, svergognato stavo seduto in catene legato a un blocco di pietra: pensavo a te e al giorno in arrivo. Ho gustato il tuo carcere, niente mi è stato risparmiato del suo dolceamaro odore decompositivo. Tutte le prigioni di tutti gli esseri, che si inalberano nella disperazione contro la libertà di Dio, le ho attraversate fino all’ultima cella.

Giù, giù nel più profondo di te, nella tenebrosa vergogna della tua impotenza e della tua negazione, ho scelto la mia abitazione. Come una piccola radice spacca le pietre più dure, così piano piano ho spezzato la parete della tua prigione. Ancora ti opponi con la forza della disperazione contro il mio amore, ma già il tuo braccio incomincia a paralizzarsi; tu cedi passo passo alla mia pressione. Non ti rivelerò il mistero in forza del quale ho vinto la tua disperazione. Il bambino, esaurito dalle sue lacrime irose, alla fine si addormenta. Al mattino ha dimenticato la sua ribellione e il suo inconsolabile affanno.

Una grande magia si nasconde in questa memoria che si scioglie: una pagina nuova è stata voltata, un nuovo capitolo comincia. Se tu puoi o non puoi, non è questa la domanda che per il momento vien fatta. Si domanda solo se io ho potuto. Quando tu tutto solo ti arrovellavi chiuso in te stesso sul tuo fallimento, eri in te stranamente disunito, in te eri frantumato. La tua unità - in un abbraccio malinconico tra piacere e pentimento - era pura apparenza. Piano piano, senza che tu te ne avvedessi, ti ho fatto cadere in pezzi e ti ho donato così l’unità. Adesso non pensi più al progresso, ed è un bene. Saresti pur sempre progredito su te stesso. Realmente avanti, il tuo passo non sarebbe mai arrivato. Adesso lascia il rovello, lascia che i morti seppelliscano il morto, distogli il tuo sguardo dalla miseria delle tue catene e volgilo verso la mia miseria, uno sguardo lungo e persistente. Vedrai ciò che non volevi credere. Il tuo carcere è diventato il mio carcere, e la mia libertà è diventata la tua libertà. Non chiedere come questo è successo, ma rallegrati e ringrazia. Neanche un cadavere marcisce in eterno; esso si dissolve, acqua e vermi si trascinano via la sua essenza e quando gli anni sono passati, c’è al suo posto della terra sana e feconda. Finito sei tu, questo è vero; perciò anche la tua resistenza è finita, ed io verrò finalmente a capo di te. I rigidi gusci cadono a terra come le foglie che proteggono i fiori, l’armatura si rompe, una farfalla esce arrampicando. Cieca e inconsapevole essa aderisce a uno spigolo, mentre il sangue le allarga il tessuto delle sue ali. Quando sente che esse sono diventate dure e brillanti, essa lascia come da sé, senza doversi decidere, il suo ramo e inizia il volo.

E ciò che tu hai detto del tuo io è follia. Non saresti una mia creatura se non fossi stato creato aperto. Ogni amore preme per uscire da se stesso nello spazio smisurato di una libertà, cerca l’avventura e dimentica allora se stesso. Non dico che tu puoi liberarti da te, perché sono venuto per questo. E neppure che la libertà dell’amore era racchiusa in te, perché sono stato io a dartela. Il Padre ti ha attirato a me. Tu sei libero. Un angelo ti ha urtato nel fianco, i fermagli sono caduti dai tuoi arti, la porta è saltata da sé, tutt’è due siete volati attraverso il dormiveglia fin nell’aperto. Ti immagini ancora che si tratti di un sogno. Levati il sonno dagli occhi. Tu sei libero di andare dove ti piace.

Ma ecco, altri tuoi fratelli languiscono in carcere. Vuoi godere della tua libertà mentre loro soffrono? Oppure vuoi aiutarmi a liberarli dalle catene? Dividere insieme con me la loro prigione?

 

Hans Urs Von Balthasar

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