Vivere le proprie domande

Contributo tratto da: “Living The Questions: The Spirituality of the Religion Teacher”.Nel nostro mondo tecnocratico e commerciale, in cui si continua ad affermare che per ogni dolore umano ‚Äì sofferenza e morte incluse ‚Äì ci sia un libro, una pillola, o un'assicurazione, l'intera esistenza diventa facilmente artificiale. Allora la morte si avverte come un fastidio, come una inutile aggressione o una violenza autodistruttiva.Quando si crea una grande tabù attorno alle grandi domande della vita, si diventa servi della morte.

Vivere le proprie domande

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Gli insegnanti possono essere tali solo quando ci sono studenti che vogliono essere studenti. Senza una domanda di partenza una risposta viene avvertita come una manipolazione; senza che ci sia una fatica in atto l’aiuto viene considerato come un’interferenza, così pure senza la voglia di imparare la disponibilità ad insegnare è facilmente avvertita come un’oppressione. Perciò il nostro primo compito non è quello di passare informazioni, consigli e perfino indicazioni, ma quello di permettere agli altri di entrare in contatto con le loro fatiche, pene, dubbi, incertezze, insomma di cogliere la loro vita come una ricerca.

Compito assai difficile dal momento che va contro la tendenza principale della formazione che intende invece offrire conoscenze per capire, competenze per controllare e potere per conquistare. Nel cammino religioso si incontra invece un Dio che non può essere capito, si scoprono realtà che non possono essere controllate e ci si rende conto che la nostra speranza consiste non nel senso di potenza ma nella confessione della debolezza. Fino a quando la religione è percepita dallo studente e trattata dal professore come uno dei tanti campi di insegnamento – con competizioni, gradi e remunerazioni – ci si può aspettare soltanto ostilità e risentimento. Le domande fondamentali della fede – Chi sono? Da dove vengo e dove vado? – non sono domande che hanno una risposta ma domande che aprono a nuove domande che conducono nel più profondo dell’indicibile mistero dell’esistenza.

Ciò che va dimostrato è la validità di queste domande. Ciò di cui c’è bisogno è che si dica:”Sì, sì. Veramente queste sono le domande. Non esitare a sollevarle. Non abbiate paura di entrarvi dentro”. Insegnare religione, perciò, è prima di tutto l’affermazione di una ricerca fondamentale di senso. Insegnare significa creare lo spazio in cui la validità delle domande non dipende dalla disponibilità delle risposte ma dalla loro capacità di aprirci a nuove prospettive e orizzonti. Insegnare significa far sì che tutte le esperienze quotidiane della vita come la solitudine, la paura, l’ansia, l’insicurezza, il dubbio, l’ignoranza, il bisogno di affetto, di sostegno e di comprensione, come pure il lungo grido con cui si chiede amore, possano essere riconosciute come parte essenziale della ricerca di senso.

Questa ricerca proprio perché non porta a risposte già fatte ma a nuove domande, è estremamente dolorosa e qualche volta perfino tormentosa. Ma quando si ignora, e perfino si nega questo dolore nei nostri studenti, non si fa altro che privarli della loro umanità. Il dolore della ricerca umana  è un dolore che fa crescere. Quando evitiamo che il dolore entri nella coscienza non facciamo altro che soffocare le forze dello sviluppo umano. Nel nostro mondo tecnocratico e commerciale, in cui si continua ad affermare che per ogni dolore umano – sofferenza e morte incluse – ci sia un libro, una pillola, o un’assicurazione, l’intera esistenza diventa facilmente artificiale. Allora la morte si avverte come un fastidio, come una inutile aggressione o una violenza autodistruttiva.

Quando si crea una grande tabù attorno alle grandi domande della vita, si diventa servi della morte.

Se c’è un libro nella Bibbia in cui si mostra quanto sia deleterio negare lo stato di ricerca dell’umanità, questo è il libro di Giobbe. Nel bel mezzo della sua miserevole condizione, Giobbe grida verso Dio e dice: “Perisca il giorno in cui nacqui  e la notte in cui si disse:”è stato concepito un uomo!”..E perché non sono morto fin dal senso di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e perché due mammelle per allattarmi? Perché dare la lue a un infelice?”

E che cosa dicono i suoi amici Elifaz, Bilbad e Zofar? Costoro non possono sopportare le domande di Giobbe e per questo lo contraddicono: “Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole della tua bocca?”. E passando sopra il lamento di Giobbe questi amici cominciano a difendere Dio e se stessi. Ma Giobbe dice:” Ne ho udite già molte di simili cose! Siete tutti consolatori molesti. Non avran termine le parole campate in aria?… Anch‘io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto vi affogherei con parole  e scuoterei il mio capo su di voi”. Giobbe non riceve nessun aiuto dai suoi amici. Negando infatti le sue dolorose domande, essi non fanno altro che rendere la sua disperazione ancora più profonda.

Così, essere un maestro significa, prima di tutto, non negare ma anzi far venire in piena luce la ricerca di ciascuno, significa far sì che le domande più dolorose vengano fuori. Ciò significa che dobbiamo continuamente rifuggire dalla tentazione di farci troppo facilmente difensori di Dio, della Chiesa, della tradizione o di ciò che ci sentiamo in dovere di difendere. L’esperienza dimostra che tutto ciò che sa di ampollosa apologetica non fa che alimentare negli studenti soltanto ostilità e rabbia, e, alla fine, una crescente distanza da chi o da cosa noi cerchiamo di difendere. Tutti gli insegnanti di religione corrono continuamente il pericolo di diventare come quelli amici di Giobbe, i quali cercano ansiosamente di evitare la sofferenza e che, nervosamente, cercano di colmare il vuoto e la distanza creati dalle domande a cui non si può trovare una risposta già confezionata.

“Living The Questions: The Spirituality of the Religion Teacher”, Union Seminary Querterly Review, Autunno 1976

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