Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia... Giudico che quella del senso della vita è la più urgente delle domande».
del 14 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
          Tanti cristiani fanno difficoltà a capire il nesso sussistente tra i dogmi – che paiono tanto astratti e cervellotici – e la loro vita, la loro spiritualità. Mancando di strumenti per venire a capo di questa scissione, non pochi rinunciano a pensarci, dedicandosi con tanta buona fede alle buone opere e lasciando la «fede buona» rilegata nell’astratto di un «credo» fatto di parole difficili e dissuete. Da qui nascono divorzi illegittimi denunciati da luminari come ad esempio H.U. von Balthasar (che mette in luce il doloroso divorzio tra teologia e santità) e V. Lossky (che parla del divorzio tra dogma e mistica)… per menzionare solo due nomi di spicco.
          Vladimir Lossky, teologo russo della diaspora francese del XX secolo, rinfresca le nostre idee riguardo alla vera natura dei dogmi. Egli osserva che in fondo ogni teologia – quale riflessione sul dato dogmatico – è mistica perché manifesta e mette in contatto vivo con il Mistero divino e con i dati della Rivelazione. Il dogma – in altri termini – è la linfa vitale che fa sì che la spiritualità non sia (mi sia permessa l’espressione) aria fritta, ma che abbia un fondamento nella Realtà. Scrive Lossky: «Il dogma che esprime una verità rivelata e ci appare come un mistero insondabile, deve essere da noi vissuto in un processo, nel corso del quale occorrerà che noi, anziché assimilare il mistero al nostro modo d’intendere, attendiamo ad un mutamento profondo, ad una trasformazione interiore del nostro spirito, al fine di divenire adatti all’esperienza mistica». La teologia non è possibile senza la mistica e la mistica è infondata senza la teologia.
          È proprio il nesso tra dogma e spiritualità, ovvero, tra teologia e spiritualità vissuta, ciò che rende alquanto prezioso il libro «Vivere il mondo» del grande teologo Gisbert Greshake. Pubblicato nella collana «Giornale di teologia» dell’Editrice Queriniana, il libro del teologo tedesco – come spiega anche il sottotitolo – cerca di trattare con semplicità, ma non di meno con spessore e profondità «Questioni fondamentali della spiritualità cristiana».
          L’autore riporta la spiritualità al suo alveo originario. Essa non si riduce ad alcuni pensierini guida che conducono un’esistenza con un tono meno indecente del freddo materialismo pragmatico; la spiritualità, nella sua essenza, è una vita «nello Spirito». Essa è opera dello Spirito Santo che genera nell’uomo la vera e propria spiritualitas. In questa linea, l’autore ripercorre otto piste dove la vita spirituale fiorisce o si trova confrontata e sfidata. Elencheremo queste piste dedicandoci in seguito a uno sguardo un po’ più approfondito su una di esse.
          Il primo capitolo si apre con una riflessione teologico-spirituale sulla domanda del senso. La risposta a tale domanda apre inevitabilmente la breccia verso una riflessione sul dato biblico dell’uomo immagine di Dio chiamato a rispondere a una chiamata di Dio (cap. 2). La domanda di senso, che non si pone in astratto, è attraversata e inverata nel quotidiano, nel ritmo della ferialità e della festa (capp. 3-4). I ritmi del quotidiano diventano essi stessi una domanda su come trovare Dio concretamente nella propria vita e nel mondo (cap. 5) senza eludere la domanda inevitabile della morte “sicura” e della speranza (capp. 6-7). Il capitolo finale si pone la domanda che qualifica ogni vero rapporto religioso, la domanda su ciò che Greshake definisce come «il centro intimo» della vita cristiana: la preghiera rivolta al Dio unitrino (cap. 8).
          Dopo questa brevissima panoramica sul contenuto del libro e per avere un tocco più ravvicinato del tenore del libro, guardiamo con maggiore attenzione la domanda che innesca questo processo vitale e riflessivo: la domanda di senso.
Il senso o il suicidio
          Albert Camus, nel suo Il mito di Sisifo radicalizza la domanda principale della filosofia in questi termini: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia… Giudico dunque che quella del senso della vita è la più urgente delle domande». Camus si pone agli antipodi della lettura freudiana che vede nella domanda del senso un sintomo di nevrosi e di malattia, come si distanzia nettamente dall’edonismo dominante che accantona le domande essenziali e le annacqua nella pseudo-filosofia del carpe diem, have fun. Quest’ultimo modo di vedere giunge rapidamente al suo scacco quando la vita non procura più il divertimento desiderato e si trova davanti allo specchio crudele che le rivela senza maschere il suo vuoto. Testimoni di questo cortocirciuto sono i «gaudenti scontenti» che attestano che il divertimento spensierato non è una prospettiva sufficiente che acquieta la sete di senso che alberga nel cuore umano.
          Con termini simili a quelli di Camus, ma con sfumature diverse, il rabbino Abraham Joshua Heschel, deportato su un carro bestiame dai nazisti in Polonia formula così la questione: «Esiste un solo problema reale e serio, quello del martirio. Si tratta della questione: c’è qualcosa di talmente valido che valga la pena di vivere per esso, qualcosa di abbastanza grande per cui valga la pena morire? Possiamo vivere la verità soltanto se abbiamo anche la forza di morire per essa».
          L’uomo non può eludere la domanda di senso e pretendere di continuare a vivere una vita umana. È che la domanda strettamente umana del senso si apre alla domanda religiosa, alla domanda su Dio. Spesso, però, la risposta religiosa - «Dio è il senso ultimo» – si presenta come «una specie di risposta killer» che seppellisce le domande penultime con l’imponenza indiscreta della domanda ultima. Greshake si mostra sensibile alle domande e alle obiezioni di chi non vuole fare di Dio la risposta di senso per partito preso, ma con convinzione. E si pone le varie domande che fanno da corredo alla domanda di Dio-senso: a che serve il tempo della mia vita trascorso qui, per che cosa vivo propriamente qui e oggi? L’autore è infatti convito che: «Anche se Dio è il senso assoluto dell’essere umano e la comunione con lui è l’ultima finalità dell’esistenza umana, rimane da domandarsi: perché allora la “deviazione” attraverso la temporalità, la storicità, la mondanità dell’esistenza umana? Detto con molta semplicità e religiosità: perché Dio non ci ha creati direttamente in paradiso, nella pienezza assoluta di senso?».
La Trinità e il senso della vita
          Con destrezza e senso per l’umano e il sacro, l’autore si muove tra le coordinate della risposta mettendo in scena la teologia trinitaria (a proposito di ricongiungimento tra teologia e spiritualità) l’ecclesiologia, il matrimonio, la grazia, il peccato... Così Greshake osserva che parlare di Dio per i cristiani non può prescindere dalla realtà del Dio rivelato da Gesù Cristo: il Dio unitrino. Pertanto, dire che Dio è l’adempimento assoluto del senso della vita è Dio significa, nella prospettiva cristiana, parlare della communio come dimensione realizzatrice del senso; significa anche dire che l’uomo – fatto a immagine e somiglianza di Dio – realizza il senso della propria vita se si lascia modellare secondo l’immagine comunionale della Trinità.
          La vita intratrinitaria non è soltanto «una specie di teatro pedagogico» affinché possiamo sapere cosa fare della nostra vita. La Trinità – nell’economia della salvezza – invita l’uomo a entrare a fare parte di questa comunità-comunione dove la pienezza di senso è la relazione e l’unità.
          Così si capisce anche che la vita dell’uomo su questa terra è lo spazio necessario per la libertà dell’uomo affinché si apra liberamente a partecipare dell’amore-vita della Trinità. Questo spazio di libertà è garante del fatto che la nostra partecipazione alla vita di Dio non sarà da marionette smidollate, ma piuttosto da figli e persone che hanno potuto collaborare liberamente «cioè in virtù della loro propria essenza originaria, alla attuazione di tale vita e sono diventati così ancora una volta più simili al Dio che è, per sua essenza, comunione».
          La libertà dell’amore che emana dalla Trinità fa sì che l’uomo non sia soltanto il medicante che riceve il dono dal Dio-donatore, ma il partner responsabilizzato a cui Dio «dà da fare» affinché la sua risposta sia una risposta personale, libera e concreta d’amore.
          La considerazione del teologo continua ad allargarsi per includere i vari elementi che entrano in gioco in questo processo di coordinazione tra il libero dono della Trinità e la libera risposta dell’uomo imago Trinitatis.
          In conclusione, il libro di Greshake si presenta come una lettura dotta e nutriente delle questioni che ogni persona e ogni cristiano si pone implicitamente. Il teologo – ormai quasi ottantenne – mette tra le nostre mani il connubio tra saggezza vitale e cultura teologica per permetterci di vedere uno stile affascinante e convincente di «vivere nel mondo».
Robert Cheaib
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