L'incontro interpersonale è come una rivelazione. Questo il tragitto: prima si vede il volto, poi si percepisce lo sguardo. Infine si ode la voce...
del 25 agosto 2007
Prima arrivarono lettere, un traffico di parole per dirsi e cercarsi. Poi arrivò la voce, al telefono, con un tono esitante dietro cui si percepiva una sorta di commozione mista a timidezza. Infine, all’incontro, arrivarono gli occhi, uno sguardo sospeso tra il chiedere e l’offrire attenzione, e insieme un sorriso mite, dolcissimo, anche un po’ impaurito, che irradiava delicatamente dal volto, come il sorgere lento di un’alba chiara nei mattini d’inverno. Fu così che nacque, tanto tempo fa, un’amicizia di cui continuo a godere il calore discreto, e all’ombra della quale trovo riparo e refrigerio nelle angustie.
Poi ho intercettato Aelredo di Rievaulx, e ho trovato in questo monaco del XII secolo, che mi è caro come un amico, alcune affermazioni che suonano una musica identica. Parlando di Ivo di Wardon, suo interlocutore nel primo libro dell’Amicizia spirituale, scrive: «Il ricordo del carissimo Ivo, anzi, l’abbraccio costante del suo affetto mi è sempre così presente che, anche se ora ci è stato strappato, avendo dovuto pagare alla natura il suo tributo, nel mio cuore lui non è mai morto. Lì è sempre con me, lì mi vedo splendere davanti l’intensità spirituale del suo volto, lì mi sorride la dolcezza dei suoi occhi, lì le sue parole piene di gioia mi danno un tale gusto che mi sembra o di essere passato con lui in paradiso, o che lui stia ancora conversando con me su questa terra» (2,5). È il cuore a fare da «raccoglitore», soprattutto quando la persona amata è fisicamente assente, ma è il volto a fare da «ostensorio» (non si dice forse di uno che è «raggiante» o «radioso»?), da luogo di rivelazione di tutto quanto sarebbe altrimenti invisibile. E la rivelazione passa dagli occhi e dalla voce, e intendo con «voce» quella musica che è percepita come «tono» prima ancora di essere l’accompagnamento a un «testo». Ci sono messaggi che giungono direttamente e rapidamente dagli occhi e dal tono con cui sono rivestite le parole ancora prima e ancora più del senso preciso che possono avere le parole stesse.
 
 
Il volto come epifania
 
Sul volto come «epifania» si potrebbe scrivere molto. C’è, per esempio, nel Vangelo un ricorrere del verbo «fissare» che ci dice quale forza enorme abbia lo sguardo: è una dichiarazione d’amore (Mc 10,21), l’intuizione che riconosce un’identità nascosta (Gv 1,36), un’energia capace di cambiare una persona (Gv 1,42). E che dire della voce, che fa scattare da sola il riconoscimento dell’amato (Gv 20,16)? E quanto al volto, esso può riempirsi di sole fino a irradiare la luce stessa di Dio (Mt 17,2), o vestirsi di un sudore di sangue nell’ora dell’angoscia (Lc 22,44).
Mi sovviene però, a questo punto, che un filone portante di queste riflessioni tocca corde che potremmo definire pedagogiche. Lo si è fatto discorrendo dei verbi che incarnano le principali dinamiche della relazione, ma anche esaminando la valenza relazionale, in positivo e in negativo, di parola, silenzio e tatto. Ma del volto, degli occhi, della voce, che cosa si può dire se non descrivere la loro forza rivelativa? C’è forse una pedagogia del volto, dello sguardo, della voce? Credo di sì.
Non ha detto Gesù, per esempio, che un guardare ingordo e aggressivo va evitato (Mt 5,27)? O che sfigurare il volto per ostentare qualcosa che deve rimanere discreto è una forma di ipocrisia (Mt 6,16)? Basta questo per ricordarci che, se resta vero che il volto rivela un sentimento del cuore, e dunque è il cuore che va primariamente curato, è però altrettanto chiaro che il comportamento esterno non è per questo né secondario né indifferente. Come dire che un controllo su volto, sguardo e voce permette di filtrare i sentimenti che erompono dal di dentro, potendo enfatizzarne la bontà o, se è il caso, esorcizzarne la carica distruttiva.
 
 
Dall’esteriorità all’interiorità
 
Può darsi che oggi simile distinzione tra esterno e interno risulti meno convincente, ma credo sia salutare raccogliere la sapienza della tradizione cristiana che, a partire dalla Scrittura, ha sempre sottolineato come il «composto» umano abbia una parte interna e una esterna, il che porta a una situazione di potenziale conflitto, e dunque a una dicotomia che va continuamente «composta», che è quanto dire riconciliata in armonia. Se infatti è vero che noi qualifichiamo rapidamente come ipocrita un comportamento che non è in sintonia con la parte interiore di noi, non è men vero che là dove il sentimento che vogliamo esprimere non trova un modo corretto di estrinsecarsi l’equivoco è dietro l’angolo, con prevedibili guasti nel rapporto tra le persone. Ancora una volta giova ricordare che i fondamentalismi non portano da nessuna parte, e dire che «conta solo il sentimento del cuore» è tanto illusorio quanto suona irritante, per i puristi, sentirsi dire che alla fine «conta solo ciò che appare». Da un cistercense della prima ora, da cui ci aspetteremmo di vedere l’accento tutto spostato sull’interiorità, capita invece di sentirci dire che «non deve stupire, né è senza ragione, che la virtù interiore che si presenta in un esteriore gradevole piaccia di più, come la verità quando è proposta con un discorso ben fatto. La virtù invece che si presenta in un portamento eccessivamente austero, come la verità proposta con un discorso duro e rozzo, viene accolta dall’animo con un certo disagio, e perfino con un senso di costrizione» (Aelredo di Rievaulx, Specchio della carità 3,46). La sintesi sognata potrebbe essere quella che i testimoni contemporanei attribuivano a san Domenico: «Possedeva un solidissimo equilibrio dello spirito, che era turbato solo dalla compassione e dalla misericordia; e poiché un cuore gioioso rende ilare il viso, la sua placida compostezza interiore si rendeva manifesta irradiando nella benignità e nella serenità del volto».
 
 
Ordine e compostezza dell’uomo
 
Non sorprenda che, ancora una volta, si parli di «compostezza»: Composizione dell’uomo esteriore e interiore è il titolo dell’opera di un francescano del Duecento, Davide d’Augusta, che ebbe un successo grandissimo nel medioevo e oltre, e da cui traggo alcune regole di comportamento che riguardano esattamente volto, occhi e voce. «Tutti i tuoi gesti e il tuo modo di fare, il tuo linguaggio, il volto, la mente e il modo di camminare siano colorati di verecondia, così che non appaia in te niente di eccessivo o che risulti sfrontato e presuntuoso. […] Come il timore di Dio porta ordine e compostezza nell’uomo interiore e lo guida alla bontà, così la verecondia produce una compostezza esterna che lo conduce alla disciplina» (1,15). Stabilito il principio, Davide scende in una serie minuta di consigli pratici, come camminare con calma, non in modo scomposto o con un correre esagitato, non facendo volare gli occhi dappertutto o mulinando le braccia; si rida di rado e senza mai sghignazzare in modo sguaiato, ma con un sorriso che riveli piuttosto benignità e gentilezza; le parole siano dolci, le risposte misurate, evitando di trasmettere risentimento, rimprovero o irrisione.
È dunque possibile, anzi doveroso, disciplinare il volto, lo sguardo, la voce, e questo proprio per valorizzare al massimo il loro potere relazionale. Certo, sentir parlare di «verecondia» oggi può suscitare stupore. Il vocabolario, qualificandola come «voce dotta», relega la parola tra i ferri vecchi. E, in effetti, la nostra pare essere la cultura della sovraesposizione, dell’urlo, dell’apparire e del farsi sentire. Se la TV è lo specchio del tempo, non c’è di che stare allegri. Eppure sento dire che si torna a parlare di «pudore», un sinonimo di verecondia. Chissà che davvero, per i ricorrenti cicli della storia, si senta il bisogno di riscoprire la delicatezza, quella che irradia da occhi benevoli, e non ingordi o irritati, quella che traspare da un volto disteso e radiante, e non contratto o congestionato, quella che canta in una voce amabile e affettuosa, e non sgraziata o stizzita.
Un volto che attrae, uno sguardo che benedice, una voce che effonde dolcezza: è così che una persona crea attorno a sé uno spazio di accoglienza dove si ha voglia di entrare, uno spazio dove interno ed esterno si «compongono» in armonia. È una disciplina che si deve imparare, ma non c’è musica senza regole!
Domenico Pezzini
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