Due giornate di speranza e animazione nell'Istituto Penitenziario Minorile di Treviso
Non dimenticherò mai quei due giorni, il 30 e il 31 dicembre, trascorsi nell'Istituto Penitenziario Minorile di Treviso. Con il gruppo della Pastorale Giovanile e il Movimento Giovanile Salesiano, ho avuto l'opportunità di vivere un'esperienza unica e profonda. Entrare in un luogo che conosciamo solo attraverso i racconti e i pregiudizi è stato per me un salto nel buio, ma è bastato poco per scoprire quanto i sorrisi, la speranza e la vicinanza possano fare la differenza.
Nelle due giornate siamo stati coinvolti quasi 50 giovani, dai 18 ai 25 anni, ognuno con il proprio bagaglio di aspettative e un po' di timore. Insieme, abbiamo deciso di dedicare il nostro tempo a questi ragazzi che vivono una realtà difficile, spesso invisibile al mondo esterno. Organizzati in turni (di 15 giovani alla volta, accompagnati sempre da don Emanuele e don Lorenzo), ci siamo impegnati a portare leggerezza e a rompere la monotonia della loro quotidianità. Non è stato facile: sapevamo che l’Istituto ospita 24 giovani, il doppio della sua capienza massima, e che da poco c’era stata una rivolta che aveva lasciato ferite profonde, sia fisiche che emotive.
Quando siamo entrati, ci siamo posti una missione: far sentire a questi ragazzi che non sono soli e che, anche nelle difficoltà più grandi, c'è spazio per ritrovare il calore di una casa. Attraverso giochi, animazioni e momenti di riflessione, abbiamo cercato di trasmettere loro che il mondo è una casa per tutti e che, anche dentro di loro, c'è un luogo di pace e serenità da riscoprire.
Ricordo un momento speciale: durante un gioco, uno dei ragazzi, che all’inizio ci guardava con diffidenza, ha iniziato a giocare e a ridere di gusto. È stato un sorriso contagioso, che ha acceso il volto di tutti intorno a lui. Mi sono resa conto di quanto fosse prezioso quel momento: per loro e per noi. Era come se, per un attimo, quelle mura non esistessero più.
Non avrei mai immaginato che la loro partecipazione potesse essere così piena. Ci hanno accolto con entusiasmo, si sono lasciati coinvolgere nei giochi, e, soprattutto, hanno condiviso con noi i loro pensieri. È stato emozionante vedere come, nonostante tutto, questi ragazzi abbiano ancora la capacità di sorridere, di fidarsi e di aprirsi. Mi sono sentita grata per la loro disponibilità a mettersi in gioco, perché mi hanno insegnato che anche nelle situazioni più difficili si può trovare un motivo per sperare.
Questa esperienza è stata per me una risposta concreta all’invito di Papa Francesco, che nell’Anno Giubilare della Speranza ci ha chiesto di essere vicini a chi vive ai margini. L’immagine della Porta Santa aperta nel carcere di Rebibbia mi ha accompagnata durante questi giorni, ricordandomi che è possibile aprire porte anche nei cuori più feriti.
Tornata a casa, mi sono sentita diversa, arricchita. Quelle due giornate non sono state solo un dono per i giovani detenuti, ma anche per me. I loro sguardi, le loro parole e quei momenti di leggerezza mi hanno mostrato quanto sia importante non arrendersi mai. Credo che l’impegno che abbiamo scelto di portare avanti sia un segno di speranza che non si ferma qui. Voglio continuare a credere che ogni piccolo gesto possa fare la differenza e che la luce, anche in un luogo buio come un carcere, possa sempre entrare, se solo la lasciamo passare.
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