L'attenzione così raccomandata pare impedita dal difetto di una teologia della famiglia; esso fa mancare le risorse teoriche che invece sarebbero indispensabili per entrare nella comprensione dei problemi effettivi della relazione genitori/figli, e quindi dell'educazione in genere e dell'educazione alla fede in particolare.
del 05 dicembre 2011
1.3. Difetto di teologia della famiglia
          L’attenzione così raccomandata pare impedita dal difetto di una teologia della famiglia; esso fa mancare le risorse teoriche che invece sarebbero indispensabili per entrare nella comprensione dei problemi effettivi della relazione genitori/figli, e quindi dell’educazione in genere e dell’educazione alla fede in particolare; più in radice, fa mancare quelle risorse il difetto di una consistente elaborazione teologica intorno al nodo dell’identità umana e del suo profilo drammatico.
          La produzione teologica di carattere propriamente teorico sulla famiglia appare decisamente scarsa, per non dire del tutto assente [6]. Gli scritti sulla famiglia sono fondamentalmente articoli, o comunque opere a più mani, pomposamente qualificate come «interdisciplinari»; la divisione delle competenze consente, o rispettivamente impone, di smembrare il tema e in tal modo eludere gli interrogativi più impegnativi, quelli cioè di carattere sintetico [7]. Tentiamo in ogni caso di caratterizzare sommariamente le caratteristiche tendenziali di queste pubblicazioni.
(a) Prevalgono nettamente i contributi di carattere analitico e descrittivo, in specie quelli riservati a sociologi e psicologi, rispetto ai contributi di carattere sintetico e propriamente teologico [8]. (b) Tra i contributi di carattere teologico, quelli di carattere teologico generale o teologico morale prevalgono rispetto a quelli di carattere propriamente pastorale o teologico pratico [9]. (c) I contributi di carattere propriamente teologico pratico poi mostrano di riferirsi soprattutto alle acquisizioni proprie delle «scienze umane»; in particolare, recepiscono le acquisizioni di quella sociologia della conoscenza (o rispettivamente della religione), che evidenzia il nesso stretto tra universo familiare e processi di identificazione e rispettivamente di plasmazione di una «visione del mondo» da parte dei minori [10]. (d) Su questo sfondo di riflessione socio-religiosa viene quindi rilevata, non solo l’importanza strategica della famiglia in rapporto al destino della persona e al destino della società stessa, ma anche il carattere intrinsecamente «religioso» della famiglia; ad esso offre testimonianza, tra l’altro, dalla persistenza di una ‘domanda’ alla Chiesa nei momenti di transizione della vita, che sono insieme i momenti qualificanti del destino complessivo della famiglia. [11] (e) Tale ‘domanda’ del servizio ecclesiastico nei momenti di passaggio non può per altro nascondere l’altra verità: quella di una crescente distanza delle famiglie, specie di quelle giovani, dalla Chiesa. Tale distanza è interpretata come esito delle strategie di fatto seguite dalla pastorale della Chiesa: «Che la Chiesa nella comunicazione pubblica si faccia avvocata della famiglia, è indiscutibilmente un suo compito. Finché essa tuttavia si limita ad intimare le immagini e le norme tradizionali e non mostra alcuna comprensione per la mutata situazione, si espone al pericolo di perdere il riferimento alla realtà» [12]. Tale distanza, alla luce delle considerazioni precedenti, conferma ed aggrava la crescente chiusura della famiglia, e quindi la sua conseguente difficoltà a realizzare effettivamente quell’insostituibile servizio di cui è debitrice nei confronti dei figli; mi riferisco al compito decisivo in ordine alla loro identificazione, come pure in ordine al connesso e più esigente compito della tradizione della fede. (f) Il rimedio che viene proposto è fondamentalmente uno: quello che la pastorale della Chiesa promuova le condizioni propizie a che le famiglie diventino soggetto attivo di scambio tra loro, e di scambio con la Chiesa stessa. Più concretamente, si tratterebbe di promuovere «gruppi familiari» o «circoli familiari», in ogni caso forme di socializzazione tra le famiglie relativamente ristrette e sufficientemente affiatate, nel cui ambito ciascuno trovi l’opportunità di scambiarsi pareri ed esperienze, preoccupazioni e consigli.          Sulla opportunità di iniziative di questo genere – in qualche misura per altro già diffuse, e certo da incrementare – si può facilmente convenire. Ma che questa indicazione possa effettivamente costituire la proposta risolutiva, capace di esprimere le linee di una rinnovata pastorale della famiglia, sembra assai dubbio. La proposta appare insieme ‘utopica’ sotto il profilo della sua praticabilità, e reticente sotto il profilo dei principi. Tra i due difetti sussiste un trasparente rapporto. Utopico è il disegno di rimediare al difetto di comunicazione tra le famiglie, e prima ancora al difetto di comunicazione all’interno della famiglia, attraverso semplici pratiche di «meta-comunicazione», offrendo cioè al singolo occasioni per sviluppare un’espressione riflessa di ciò che vive [13]. Non è affatto sicuro che attraverso tale procedimento possa svilupparsi un’effettiva intesa, e possa poi addirittura prodursi un’elaborazione del senso, e del senso cristiano, della famiglia e della vita tutta. Ci sono al contrario buoni argomenti per ritenere che, nella famiglia contemporanea, sia in genere consistente anche il rischio di un eccesso inconcludente di verbalizzazione riflessa. Per quanto riguarda in specie la figura precisa dei «gruppi familiari», la ricognizione riflessa delle esperienze già realizzate in tal senso avrebbe di che confermare la consistenza di tale rischio.
      La fiducia eccessiva nella «meta-comunicazione» è alimentata da una almeno inconsapevole (ma talora anche dichiarata) antropologia psicologizzante, che rimuove la questione della verità, e quindi della libertà. Rimuove in altri termini questa evidenza: che l’uomo, per ‘trovarsi’, ha bisogno di volere, non basta invece che si esprima, e che esprimendosi si conosca e si faccia conoscere. Non bastano neppure relazioni interpersonali «senza costrizione» [14], che sono per altro difficili da immaginare. Per volere, l’uomo ha bisogno di conoscere una verità della quale si possa vivere, di una speranza alla quale consegnarsi. Appunto questa è la verità affidata al ministero della Chiesa.
          Occorre certo riconoscere che la verità incondizionata del vangelo – con riguardo alla famiglia come per altro con riguardo ad ogni altro momento dell’esperienza umana – non può essere predicata in maniera competente ad opera della Chiesa a meno che essa si impegni a mostrare alla coscienza individuale che e come quella verità dica esattamente dell’esperienza che la persona già vive. In tal senso l’attenzione al concreto, e rispettivamente alle scienze del concreto (le cosiddette «scienze umane»), appare imprescindibile. Tale attenzione tuttavia non può esonerare la Chiesa dal proporre una “dottrina”; appunto all’elaborazione di una tale dottrina deve servire il confronto con le famiglie per un lato, e con le scienze umane per altro lato.
          Il primo e fondamentale compito della teologia della famiglia è dunque quello di predisporre le categorie concettuali capaci di illuminare il nesso essenziale tra verità escatologica del vangelo e forme storiche dell’esperienza familiare; soltanto l’effettiva realizzazione di tale compito consentirà alla teologia pratica di procedere all’ermenutica del concreto, e quindi a quell’integrazione delle evidenze empiriche che è comunque necessaria, che tuttavia non può né deve divenire un’uscita di sicurezza per eludere il compito di dire la verità cristiana a proposito della famiglia.
Giuseppe Angelini
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