Gli psicologi dell'età evolutiva rilevano giustamente come la figura materna sia per il cucciolo il primo simbolo cosmico. Simbolo la madre è nel senso letterale del termine; essa realizza infatti il symballein della realtà, la composizione semantica del molteplice.
del 05 dicembre 2011
1.4. Il successo dell’iniziazione e l’esautorazione della famiglia
          Il proposito del corso è dunque – si diceva – di suggerire un’istruzione della questione posta dalla cura pastorale per la fede dei minori alternativa rispetto alla retorica dell’iniziazione; un ‘istruzione che proceda cioè dalla considerazione del momento antropologico della relazione genitori/figli. La considerazione perseguita è quella condotta in ottica teorica generale e insieme quella condotta in ottica storico culturale. La formalizzazione di una riflessione teorica intorno al rilievo assolutamente fondamentale della relazione parentale in ordine alla formazione del minore è sollecitata appunto dalle mutate condizioni storico culturali, che hanno di fatto estenuato l’efficienza formativa spontanea di quella relazione.
          Che il piccolo acceda alle prime elementari immagini religiose, così come accede per altro ai significati elementari della vita in genere, attraverso la relazione con i genitori pare difficilmente dubitabile. Tra le prime nozioni religiose e i significati elementari della realtà tutta neppure si può distinguere. Il nome della mamma, e soprattutto l’immagine della mamma, sono un nome e un’immagine decisamente densi di un significato religioso. Gli psicologi dell’età evolutiva rilevano giustamente come la figura materna sia per il cucciolo il primo simbolo cosmico. Simbolo la madre è nel senso letterale del termine; essa realizza infatti il symballein della realtà, la composizione semantica del molteplice. La realtà appare in fretta al piccolo non solo come molteplice e dispersa, ma come assemblata da relazioni di senso propiziate dalla funzione simbolica dalla figura materna. Tale relazione non è certo subito adempiuta attraverso le risorse offerte dalle parole, e quindi dalla lingua; al contrario, l’apprendimento della lingua è possibile al piccolo soltanto sullo sfondo di una precedente dimestichezza con le cose, e insieme con la mamma, che in certo modo già dispone le relazioni di senso che la parola porterà ad espressione. Non è un caso che la mamma parli al bambino molto prima e molto più rispetto a quanto richieda il preciso obiettivo dell’apprendimento della lingua. I lunghi discorsi che la mamma fa al figlio infante non hanno certo il compito di realizzare una comunicazione verbale, o anche solo di sollecitarla; hanno invece l’obiettivo di dare forma presso la coscienza della mamma a quel significato della sua mimica verso il bambino, che essa stessa non conosce con precisione a priori; essa cerca il senso dando parola al gesto. Appunto questa configurazione dell’intenzione presso la mamma vale insieme come annuncio del senso presso il bambino. Verranno i giorni in cui il bambino impara le parole; ma potrà farlo soltanto grazie al fatto che quel senso poi detto mediante le parole è stato prima da lui appreso o intuito grazie a una mimica.
         La riflessione teorica deve disporre le categorie che consentono poi di intendere la transizione culturale oggi vissuta dalla famiglia, e quindi dalla relazione parentale. Un’attenzione esplicita del ministero pastorale alle età precoci della vita e alle sue esigenze sotto il profilo religioso è oggi imposta dalla concreta situazione storica vissuta dalla famiglia, e quindi dal contesto nel quale i processi di “iniziazione” si realizzano.
          Conviene subito richiamare un nesso, che certo dovrà essere approfondito, che tuttavia appare subito ovvio: lo stesso successo conosciuto nella stagione ecclesiastica recente dalla categoria di iniziazione, e quindi la correlativa comprensione del ministero della Chiesa nei confronti dei minori in termini di iniziazione, è certamente suggerita dalle nuove emergenze pratiche. Per essere appena un poco più precisi, è suggerita dal venir meno di quel tratto ovvio che assumeva la trasmissione della fede da una generazione all’altra nelle società cristiane convenzionali. Il successo del lessico dell’iniziazione – qualsiasi sia il giudizio che se ne deve dare sotto il profilo teologico – è indubitabilmente connesso all’avvento della laicità civile, e quindi alla nuova evidenza che assume il carattere di scelta della fede.
          Merita di sottolineare subito anche questo prevedibile nesso: tra l’attenzione al momento antropologico e l’attenzione alla connotazione storico-pratica della decisione pastorale. Di fatto accade troppo spesso fino ad oggi che – nonostante le numerose messe in guardia contrarie – le riforme pastorali cerchino la loro autorizzazione in considerazioni di carattere immediatamente dottrinale; in considerazioni dunque che – almeno dal punto di vista formale – ignorano ogni riferimento al tempo nel quale viviamo, e quindi al contesto antropologico culturale entro il quale la Chiesa deve realizzare il suo ministero. Il riferimento al tempo è certo presente nella percezione vissuta che dei problemi pastorali hanno i pastori; mancano tuttavia la categorie concettuali per formalizzare questo riferimento. Il difetto di cui si dice ha, sotto il profilo teorico, questa più precisa fisionomia: è difetto di attenzione per il momento antropologico della fede in genere, e quindi anche della decisione della fede, o della conversione, che appunto mediante il battesimo si realizza.
           Dunque, l’attenzione al profilo antropologico sarà realizzata per riferimento più preciso alle forme che assume il processo mediante il quale diventa cristiano il figlio nato da genitori cristiani in una famiglia affettiva del nostro tempo. Ormai ci si esprime in forma più breve ricorrendo appunto alla categoria di iniziazione; in tal senso possiamo dire che il proposito del corso è di dedicare un’attenzione tematica al momento antropologico appunto dell’iniziazione cristiana.
          L’uso della categoria di iniziazione dovrebbe essere tuttavia a nostro giudizio decisamente più cauto. Si dovrebbe addirittura evitare del tutto questo uso; questo è un auspicio che – al punto in cui siamo – appare praticamente irrealizzabile; occorre quanto meno rendere quell’uso decisamente più cauto.
        La cautela è suggerito da diversi ordini di motivi: (a) la categoria di iniziazione è sommamente imprecisa, mentre essa è usata quasi fosse chiarissima; (b) l’uso corrente di essa suppone un’almeno virtuale univocità della categoria che sarebbe garantita dalla lingua e dalla prassi dei prime secoli, il che (a nostro parere) non è affatto vero [15]; (c) in ogni caso, supposto pure che la categoria di iniziazione abbia qualche ragione di pertinenza per designare le forme nelle quali un adulto pagano diventava cristiano nel IV secolo, non è affatto scontato che quelle forme debbano essere assunte come normative per il ministero della Chiesa nei confronti dei figli di famiglia cristiana.
         Il suggerimento prossimo circa l’opportunità di fermare l’attenzione sul momento antropologico dell’iniziazione viene da un’evidenza precisa: la consistenza antropologica della relazione genitori/figli ha un ovvio rilievo in ordine alla configurazione della visione del mondo del figlio, et quidem alla configurazione religiosa di tale visione. Se tale relazione è vissuta dai genitori nella prospettiva della fede cristiana, la configurazione religiosa di cui si dice assume più precisamente connotazione cristiana. Non solo i figli di genitori cristiani vivono la loro (necessaria) religione primaria nella forma cristiana, ma anche in età successiva essi non potranno accedere alla fede cristiana quale libera scelta se non attraverso la mediazione appunto di questa loro religione cristiana infantile, che è la religione della mamma e di papà. Il riconoscimento di questo nesso impone alla coscienza dei genitori il compito di riconoscere il loro rapporto col figlio quale prima e decisiva forma della loro testimonianza cristiana davanti ai figli. La loro decisione di battezzare il figlio assume appunto questa consistenza: professione del loro impegno a dare alla cura per il figlio la forma di testimonianza del vangelo di Cristo.
          Di fatto, invece accade che il rinnovamento della pastorale cattolica del battesimo, o della iniziazione cristiana in genere, quel rinnovamento associato in maniera tanto assidua e sospetta alla categoria di iniziazione, del tutto ignora il rilievo che il rapporto parentale ha in ordine al divenir cristiano del figlio. Ignora, più in generale, ogni possibile rapporto tra iniziazione e generazione, come anche ogni considerazione a proposito della consistenza antropologica dell’iniziazione.
          La circostanza appare per se stessa abbastanza sorprendente, tanto evidente e cospicua è la consistenza religiosa del rapporto di generazione in ordine alla visione religiosa del mondo del bambino. Appare a titolo ulteriore sorprendente quando si consideri quest’altra circostanza: all’obiettivo difetto di univocità della categoria di iniziazione intesa nella sua accezione (in ipotesi almeno) precisamente teologica, liturgisti, catecheti, cultori di teologia pastorale in genere suppliscono attingendo alla nozione di iniziazione proposta dalla considerazione dell’antropologia culturale. Se qualche verità c’è in un tale accostamento – tra iniziazione in senso cristiano e iniziazione in senso antropologico culturale – essa dovrebbe essere approfondita dal teologo esattamente mettendo a fuoco la consistenza precisamente antropologica della tradizione della fede nella configurazione cristiana del rapporto tra genitori e figli.
       L’omissione di ogni considerazione del rapporto tra genitori e figli in ottica antropologico culturale nella riflessione sulle nuove forme che – a giudizio di tutti – deve assumere l’iniziazione dei minori appare sommamente improbabile; costituisce per se stessa il segno di un indubitabile strabismo della riflessione pastorale.
Giuseppe Angelini
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