1. EMIGRANTE DI 12 ANNI

1. EMIGRANTE DI 12 ANNI

 

Quella sera, in cucina, insieme con il pane si masticarono parole amare. Parole che fanno male. Antonio vide Giovanni con il solito libro accanto al piatto, e alzò la voce:

- Io quel libro lo butto nel fuoco.
Margherita, la mamma, cercò il solito compromesso:

- Giovanni lavora come gli altri. Se poi vuole leggere, cosa te ne importa?

- Me ne importa perché questa baracca sono io a tenerla in piedi. Mi rompo la schiena sulla terra, io. E non voglio mantenere nessun signorino. Non andrà a stare comodo lasciando noi a mangiare polenta.

Giovanni reagì con violenza. Le parole non gli mancavano, e non era nato per porgere l'altra guancia. Antonio alzò le mani.

Giuseppe guardava spaventato. Margherita cercò di mettersi in mezzo, ma probabilmente Giovanni fu pestato, come e più di altre volte. I suoi dodici anni non potevano far fronte ai diciannove di Antonio.

A letto Giovanni pianse, più di rabbia che di dolore. E poco lontano da lui pianse anche sua madre, che quella notte forse non dormì.

Al mattino Margherita aveva deciso. Disse a Giovanni le parole più tristi della sua vita:

- È meglio che tu vada via di casa. Antonio non può proprio vederti. Un giorno o l'altro potrebbe farti del male.

- E dove vado?

Giovanni aveva la morte nel cuore, e anche Margherita. Gli indicò alcune fattorie nella zona di Moriondo e di Moncucco.

- Mi conoscono. Qualcuno ti darà da lavorare, almeno per un po'. Poi si vedrà.

 

Un fagotto e la nebbia

In quella giornata gli preparò un piccolo fagotto con alcune camicie i suoi due libri, una pagnotta di pane. Era febbraio. C'era neve e ghiaccio sulla strada e sulle colline intorno.

Giovanni partì il mattino dopo. Mamma Margherita rimase a guardarlo sulla porta, ad agitare la mano, finché la nebbia non inghiottì il suo piccolo emigrante.

Tentò presso le “cascine” indicate dalla madre. Gli dissero che lavoro per un ragazzo non ne avevano. Nel pomeriggio aveva terminato la pagnotta e la speranza. Ormai poteva tentare soltanto dai Moglia. “Chiedi del signor Luigi”, gli aveva detto la madre.

Si fermò sul portone che dava nell'aia. Un vecchio lo stava chiudendo. Lo guardò:
- Che cerchi, ragazzo?
- Da lavorare.
- Bravo. Lavora. Addio. E continuò a tirare il pesante portone per sprangarlo.

Giovanni radunò gli ultimi brandelli di coraggio:

- Ma io devo vedere il signor Luigi.

Entrò. La famiglia Moglia era vicino al portico a mondare i vimini per le vigne. Luigi Moglia, un giovane contadino di 28 anni, lo guardò meravigliato.

- Cerco il signor Luigi Moglia.
- Sono io.
- Mi manda mia madre. Mi ha detto di venire da voi a fare il garzone di stalla.
- Ma perché ti manda fuori casa così piccolo? Chi è tua madre?
- Margherita Bosco. Mio fratello Antonio mi maltratta, e allora lei mi ha detto di venire a cercare un posto come garzone.
- Ma povero ragazzo, siamo d'inverno, e i ragazzi di stalla noi li prendiamo solo alla fine di marzo. Abbi pazienza, torna a casa.
Giovanni si sentì avvilito e stanco. Scoppiò in un pianto disperato.
- Accettatemi, per carità. Non datemi nessuna paga, ma non rimandatemi a casa. Ecco - disse con la forza della disperazione -, io mi siedo qui per terra e non vado più via. Fate ciò che volete di me, ma io non vado più via -. E piangendo si mise a raccogliere i vimini sparsi e a mondarli.

La signora Dorotea, una fiorente donna di 25 anni, si intenerì davanti a quel ragazzo:

- Prendilo, Luigi. Proviamo almeno per qualche giorno.

Anche Teresa, una ragazza di 15 anni, provò pena per lui. Era la sorella minore del padrone, incaricata di badare alle mucche. Disse:

- Io sono abbastanza grande per venire in campagna con voi. Per la stalla questo ragazzo andrebbe benissimo.

Giovanni Bosco cominciò così, nel febbraio 1827, la vita del ragazzo di stalla. I Moglia erano una famiglia di contadini benestanti, anche se lavoravano tutti da sole a sole. Lavoravano la terra, cioè vigneti e campi. Accudivano buoi e mucche. Pregavano insieme. Alla sera, attorno al focolare, la famiglia si riuniva per la recita del Rosario. Alla domenica, il signor Luigi guidava tutti alla “Messa grande”, celebrata a Moncucco dal prevosto don Francesco Cottino.

Il mestiere di Giovanni, ragazzo di stalla, non era una cosa umiliante, né eccezionale. Nelle “cascine” intorno, alla fine di marzo, si sarebbero trovati decine di “garzoni” come lui. Era la strada normale per tanti ragazzi di famiglie povere. Alla festa dell'Annunziata (25 marzo), i padroni passavano nelle borgate o andavano sui mercati ad assoldare i ragazzi- lavoratori per l'annata. Lavoratori stagionali e “alla pari”: otto mesi di lavoro sodo (aprile- novembre) e in cambio cibo, alloggio e 15 lire per i vestiti.

Il garzone Giovanni Bosco, però, era diverso dagli altri. Era eccezionalmente giovane (gli mancavano 6 mesi a compiere 12 anni), e specialmente portava in sé un sogno. Un sogno vero, fatto di notte a occhi chiusi. Lo raccontò lui stesso.

 

Un sogno che marchia il futuro

“A 9 anni ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente tutta la vita. Nel sogno mi parve di essere vicino a casa, in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli che giocavano. Alcuni ridevano, non pochi bestemmiavano. All'udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo a loro, adoperando pugni e parole per farli tacere.

In quel momento apparve un Uomo venerando, nobilmente vestito. Il volto era così luminoso che non potevo fissarlo. Mi chiamò per nome e mi disse:

- Non con le percosse, ma con la mansuetudine e con la carità dovrai acquistare questi tuoi amici. Mettiti dunque immediatamente a parlare loro sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.

Confuso e spaventato risposi che io ero un ragazzo povero e ignorante. In quel momento i ragazzi, cessando le risse e gli schiamazzi, si raccolsero tutti intorno a Colui che parlava. Quasi senza sapere cosa dicessi:

Chi siete voi - domandai - che mi comandate cose impossibili?
- Proprio perché queste cose ti sembrano impossibili, dovrai renderle possibili con l'obbedienza e acquistando la scienza.
- Come potrò acquistare la scienza?
- Io ti darò la Maestra. Sotto la sua guida potrai diventare sapiente.
- Ma chi siete voi?
- Io sono il Figlio di Colei che tua madre ti insegnò a salutare tre volte al giorno. Il mio nome domandalo a mia Madre.
In quel momento vidi accanto a lui una Donna di maestoso aspetto, vestita di un manto che splendeva come il sole. Scorgendomi confuso, mi fece cenno di avvicinarmi, mi prese con bontà per mano:

- Guarda! - mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti scomparsi, al loro posto vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, di orsi e di parecchi altri animali.

- Ecco il tuo campo, ecco dove dovrai lavorare. Renditi umile, forte e robusto: e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali tu lo farai per i miei figli.

Volsi allora lo sguardo, ed ecco: invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che saltellando correvano e belavano, come per far festa intorno a quell'Uomo e a quella Signora.

A quel punto, sempre nel sogno, mi misi a piangere, e pregai quella Donna a voler parlare in modo chiaro, perché io non sapevo cosa volesse significare.

Allora Essa mi pose la mano sul capo e mi disse: - A suo tempo tutto comprenderai.

Aveva appena dette queste parole che un rumore mi svegliò, e ogni cosa disparve. Io rimasi sbalordito. Mi sembrava di avere le mani che facevano male per i pugni che avevo dato, che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti da quei monelli.

Al mattino ho raccontato il sogno prima ai miei fratelli, che si misero a ridere, poi a mia madre e alla nonna. Ognuno dava la sua interpretazione: " Diventerai un pecoraio ", disse Giuseppe. " Un capo di briganti ", malignò Antonio. Mia madre: " Chissà che non abbia a diventare prete ". Ma la nonna diede la sentenza definitiva: " Non bisogna badare ai sogni ".

Io ero del parere della nonna. Tuttavia non riuscii mai a togliermelo dalla mente”.

Tutti gli anni che seguirono furono segnati profondamente da quel sogno. Mamma Margherita aveva capito (e presto lo capì anche Giovanni) che esso indicava una strada.

 

180 pagine per ricordare

A 58 anni, quasi nessuno ricorda ciò che gli è capitato cinque anni prima. Ma quasi tutti ricordano, come si trattasse dell'altro ieri, i loro nove, undici, quindici anni. Si sente ancora sui ginocchi la corteccia ruvida degli alberi su cui si arrampicava. Sembra di aver toccato ieri il pelo caldo del cane che ci caracollava accanto in corse frenetiche.

A 58 anni, per ordine del Papa, don Bosco scrisse la storia dei suoi primi decenni. Con quella sua memoria così simile a una cinepresa (poco “logica” e molto “visiva”) riempì tre grossi quaderni (180 pagine). Con le date fece un po' di pasticcio, ma episodi, ricordi, particolari hanno una freschezza vivissima.

Alla undicesima riga annotò: “Io scrivo per i miei carissimi figli Salesiani, con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte”. Queste parole le sottolineò.

I Salesiani gli disobbedirono 73 anni dopo, chiudendo un lungo e dibattuto problema di coscienza. Per questo, oggi, su quei quaderni di Memorie possiamo seguire le vicende del ragazzo-contadino Giovanni Bosco anche nei particolari più minuti.

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