Il titolo “iniziazione cristiana” non intende avere una consistenza soltanto nominale; vuole invece suggerire in maniera almeno incoativa i criteri che dovrebbero presiedere alla cura della fede dei minori. Intende suggerire la verità complessiva o la “filosofia” dell'accesso alla fede.
del 05 dicembre 2011
1. Il tema: iniziazione, educazione, fede
          La scelta di questo tema per un corso di teologia pastorale del ciclo di specializzazione ha alla sua origine una ragione precisa, e cioè la necessità di una presa di distanza, che mi pare inevitabile, nei confronti delle forme effettive prese dal ministero pastorale nei confronti dei minori.
          La cura pastorale dei minori trova da alcuni decenni – in ogni caso dopo il Concilio Vaticano II – la propria configurazione sotto il titolo di iniziazione cristiana. La nozione non è univoca, e già sotto questo punto di vista non è subito facile dire che cosa poi comporti con esattezza, dal punto di vista delle pratiche pastorali effettive, la scelta di porre quella cura sotto questo titolo.
      Possiamo in ogni caso subito dire che comporta il riferimento al lessico e alle forme dell’istituzione catecumenale dei secoli IV e V. Tale indicazione appare ancora assai generica. Le sue determinazioni minimali sono: (a) il riferimento ai tre sacramenti del battesimo, della cresima e dell’eucaristia interpretati come strettamente uniti e tali da realizzare insieme appunto l’iniziazione cristiana; (b) il riferimento ad un processo disteso nel tempo, scandito nei momenti dell’annuncio, la catechesi, la celebrazione, e magari anche la mistagogia.
         La configurazione della cura per la fede dei fanciulli sotto il titolo della iniziazione appare decisamente poco persuasiva. Appare prima di tutto generica, nel senso di ignara della concreta connotazione antropologica degli interessati e quindi delle forme che assume il loro accesso alla fede; quindi fortemente esposta all’arbitrio dell’allegoria; per molti aspetti positivamente distorcente.
          In ogni caso, il titolo “iniziazione cristiana” non intende certo avere una consistenza soltanto nominale; di fatto non ha soltanto questa consistenza; intende invece suggerire in maniera almeno incoativa i criteri che dovrebbero presiedere alla cura della fede dei minori; intende suggerire la verità complessiva o la “filosofia” dell’accesso alla fede.
        Un indice concreto della pretesa assiologica che il titolo di iniziazione cristiana aspira ad esercitare per rapporto alla cura del minore è offerto dalle decisioni a proposito della cresima, e prima di tutto dell’età più conveniente nella quale celebrarla; l’argomento è sempre stato controverso; nei tempi recentissimi si è prospettata – a Milano per esempio [1] – una decisione che è ispirata appunto dalla filosofia dell’iniziazione e che mi pare molto dubbia; mi riferisco alla decisione di anticipare la Cresima rispetto all’Eucaristia, e celebrarle simultaneamente, dunque di celebrare la cresima in età proporzionalmente anticipata. I liturgisti, che comprensibilmente sono i massimi fautori della filosofia “iniziatica”, insistono per la restaurazione dell’ordine canonico antico, e cioè battesimo, confermazione ed eucaristia. Considerata dunque la scelta della separazione del battesimo dall’eucaristia, insistono dunque per la simultaneità della confermazione e della prima comunione. Propongono quindi di spostare la prima comunione più in là, e di anticipare la cresima. L’argomento è soltanto quello offerto dall’ordine (presuntivamente) canonico che i tre sacramenti hanno nella celebrazione pasquale antica.
          Il buon senso obietta: non sarebbe conveniente piuttosto anticipare che ritardare la prima comunione? Non apprende forse il bambino il senso dell’eucaristia, non entra praticamente nella sua verità attraverso la frequentazione effettiva della Messa piuttosto che attraverso istruzioni catechistiche? E non è forse fatto di evidenza diffusa che anche in età adulta la coscienza cristiana si nutre per una parte significativa di memorie infantili? Non ha detto Gesù stesso, correggendo i discepoli che si deve lasciare che i bambini vengano a Lui perché il regno di Dio è per quelli come loro? Non constatiamo forse in molti modi che proprio la necessità e insieme la chance grata di parlare del vangelo ai fanciulli rigenera la stessa lingua cristiana degli adulti?
        E d’altra parte, per riferimento alla confermazione, i liturgisti ripudiano con sarcasmo l’argomento addotto per procrastinarne la celebrazione; mi riferisco all’argomento offerto dalla qualifica della confermazione quale sacramento dell’età adulta, o della maturità della fede, di quella maturità che consente al credente di assumere il compito della testimonianza, dunque di rendere ragione della propria fede davanti ad altri. L’argomento è respinto con indignazione come corrispondente a una comprensione banalmente psicologica della maturità cristiana.
Il Catechismo stesso della Chiesa Cattolica precisa in effetti la distinzione tra età adulta della fede ed età adulta “della crescita naturale”:
          Se talvolta si parla della Confermazione come del «sacramento della maturità cristiana», non si deve tuttavia confondere l’età adulta della fede con l’età adulta della crescita naturale, e neppure dimenticare che la grazia del Battesimo è una grazia di elezione gratuita e immeritata, che non ha bisogno di una «ratifica» per diventare effettiva. Lo ricorda san Tommaso: «L’età fisica non condiziona l’anima. Quindi anche nell’età della puerizia l’uomo può ottenere la perfezione dell’età spirituale di cui la Sapienza (4,8) dice: 'Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni'. È per questo che molti, nell’età della fanciullezza, avendo ricevuto la forza dello Spirito Santo, hanno combattuto generosamente per Cristo fino al sangue» (vedi Summa theologiae, III, q. 72, a. 8, ad 2: Ed. Leon. 12, 133). (n. 1308).
          E tuttavia la distinzione non può essere spinta al punto di una radicale separazione tra le due figure dell’età adulta. È possibile parlare di età adulta in senso spirituale soltanto perché l’età qui qualificata come “naturale” rimanda per se stessa a una verità dello spirito. Vale infatti anche a proposito delle età della vita quello che deve essere detto per ogni categoria antropologica. Pensiamo alle categorie elementari della nascita e della morte. Ogni uomo nasce due volte; rispettivamente, deve nascere due volte; la rinascita spirituale passa attraverso l’impegno della libertà; e certo non si tratta di due eventi semplicemente separati, equivocamente chiamati allo stesso modo; la seconda nascita è infatti la ripresa della prima. La ripresa della nascita “naturale” è una ripresa “libera”. Libertà e natura sono state troppo spesso descritte come realtà incommensurabili; in realtà la nascita libera può e deve configurarsi come una ripresa della nascita naturale soltanto perché la prima nascita, quella che avviene e non è scelta, è già per se stessa gravida di un imperativo; essa suscita la libertà; essa promette infatti una vita, che non può divenire tua se non a questa precisa condizione, d’essere scelta.
           Considerazioni del tutto analoghe potrebbero essere proposte a proposito della morte. La morte dell’uomo non è mai un evento puramente “naturale”; non lo è mai di fatto, e non deve mai esserlo. Se la morte potesse essere evento naturale avrebbe ragione Epicuro, quando dice che la morte non mi riguarda, non c’entra nulla con me; finché sono io infatti non è lei; e quando invece viene il suo tempo, non sono più io. Tale tesi paradossale è smentita dalla circostanza che io posso rapportarmi alla mia morte; posso soltanto? Addirittura debbo; il dovere a cui qui si allude è quello che di riferisce alla necessità fisica e psicologica, ma è soprattutto quella che si riferisce alla necessità morale. Rifiutarmi alla prospettiva di volere e di scegliere per rapporto alla morte equivarrebbe a sottrarmi a me stesso, a fuggire da me stesso.
           Diversamente da come presumeva la tradizione teorica che parlava dei due ordini, naturale e soprannaturale, occorre riconoscere francamente che quello “naturale” non è affatto un “ordine”; non è cioè un sistema di relazioni in se stesso concluso; la vita “naturale” ha invece la consistenza di una promessa, e quindi correlativamente di un’invocazione, e addirittura imperativo: devi volere per te una vita che sia più che naturale.
          Come definire dunque il senso della “età adulta”, quando ci si riferisca alla fede? Possiamo rispondere pressappoco così: età adulta della fede è quella nella quale la fede diventa capace di rendere ragione di sé davanti a ogni altro. Si parla di solito di “fede adulta”, ma più precisamente occorrerebbe parlare di credente adulto nella fede. La caratteristica propria dell’adulto, anche quando ci si riferisca alla vita “naturale”, è appunto questa: egli assume il compito obiettivo di rendere ragione di sé davanti ad altri. Perché occorre rendere ragione di sé, e che cosa significa? I nostri comportamenti hanno sempre un significato presso ogni altro, esprimono in tal senso un messaggio ai loro occhi, molto prima che io me ne renda conto; adulto è appunto colui che riconosce questo messaggio e si assume il compito di renderne ragione, di rispondere consapevolmente e liberamente di esso.
          Per riferimento alla esperienza del genitore, la sua età adulta consiste appunto in questo, nell’effettiva sua attitudine a onorare il messaggio religioso, e addirittura cristiano, che egli – lo sappia o non lo sappia – di fatto sempre trasmette al figlio, attraverso le prime forme spontanee del rapporto con lui.
          Il Catechismo al n. 1309 precisa il senso spirituale della età adulta associata alla cresima mettendo il sacramento in rapporto con «le responsabilità apostoliche della vita cristiana»; ora tali responsabilità apostoliche, nel caso della vita del cristiano comune (o “laico' [2]) non debbono essere certo pensate come responsabilità di predicazione o in ogni caso connesse al ministero della parola; debbono invece essere pensate come la responsabilità di attestare il vangelo attraverso le forme ordinarie della vita; realizza la responsabilità “apostolica” del genitore, in particolare, appunto la sua percezione del rimando religioso obiettivamente iscritto nelle forme ordinarie della sua relazione col figlio, e quindi la sua attitudine e disponibilità pratica a rendere ragione di tale rimando. Molto prima che il genitore se ne renda conto, trasmette un messaggio religioso al figlio; che egli se ne renda effettivamente conto, che quindi confermi quel messaggio con atteggiamenti progressivamente più consapevoli e deliberati, questa è la forma fondamentale nella quale si realizza il concorso decisivo del genitore alla generazione alla fede.
          La scelta di adottare il modello dell’iniziazione cristiana, per descrivere il processo della venuta alla fede dei figli e quindi poi anche per istruire la pratica della generazione adulta volta alla loro crescita cristiana, mi pare viziata da questo difetto di base: quella scelta rimuove pregiudizialmente il rilievo che assume la relazione parentale in ordine al venire alla fede dei figli; mentre quel rilievo è assolutamente determinante. Un figlio, che nasca da genitori cristiani, diventa cristiano prima di tutto e soprattutto a seguito della fede dei genitori; più precisamente, grazie alla connotazione cristiana che assume la loro cura per i figli; quella cura assume agli occhi dei figli stessi un inevitabile profilo religioso; a misura in cui i genitori cristiani percepiscono tale necessaria connotazione non possono determinarla altro che attingendo alla loro formazione cristiana; in tal modo essi diventano testimoni del vangelo. Quel precedente “vangelo” da essi inesorabilmente annunciato ai figli in forza della loro statura di genitori diventa in tal modo precisamente il vangelo di Gesù.
          Ogni figlio che diventi cristiano lo diventa attraverso il medesimo processo sintetico mediante il quale egli diventa grande in genere, diventa adulto e libero. Che la formazione religiosa non possa essere in alcun modo separata dalla formazione umana complessiva appare subito evidente a ogni persona di buon senso. Un’applicazione più precisa di tale teorema generale è l’impossibilità di fare della religione una materia speciale dell’insegnamento. Dovrebbe infatti apparire subito a tutti evidente che non è in alcun modo possibile pensare alla religione come a una disciplina, a una materia di insegnamento distinta dalle altre e giustapposta ad esse; per un bambino la religione o è la cornice di tutto, o non è affatto. E tuttavia i bambini italiani (e non solo) già alla scuola materna hanno – quando l’hanno – la specialista di religione. Non stupisce più di tanto; è questo uno dei molti effetti di un inconveniente di carattere più generale, e cioè il fenomeno che possiamo definire come la “scolarizzazione” del compito educativo.
          Spiego brevemente che cosa intendo dire. Il compito educativo è pensato oggi prima di tutto e soprattutto per riferimento alla scuola; o addirittura, è pensato esclusivamente come compito proprio della scuola; questo è il primo aspetto della scolarizzazione del compito educativo. Di conseguenza di esso si ragiona per riferimento alla relazione didattica, quindi per riferimento alle opportunità e rispettivamente alle difficoltà che essa propone. Alla famiglia, e quindi anzi tutto alla relazione parentale, oggi vengono di solito riconosciuti soltanto compiti di accudimento logistico e di rassicurazione affettiva; appunto attraverso tali compiti i genitori assolvono al compito della socializzazione primaria dei figli, e cioè al compito di rendere i figli idonei al rapporto sociale [3]. Vengono invece tendenzialmente negati ai genitori compiti di tradizione culturale; questi sono riservati appunto alla scuola, e sono di conseguenza organizzati secondo il criterio della distinzione disciplinare.
          La scolarizzazione del compito educativo si produce nei fatti, certo, e non solo nei proclami di principio; e tuttavia si produce prima di tutto nei discorsi. Nei fatti l’educazione – che per il momento appunto intendiamo genericamente come appropriazione al minore di quei codici di senso e di comportamento, che gli consentiranno la relazione responsabile e adulta con tutti – si produce oggi ancora per la grande parte attraverso le risorse offerte dalla relazione parentale; diciamo che si produce così per la parte fondamentale (se di “parte” si può parlare). La negazione di questa competenza educativa della famiglia a livello di discorsi pubblici determina però un obiettivo e progressivo impoverimento della famiglia stessa sotto il profilo delle risorse simboliche e antropologico-culturali, delle quali essa dispone per rapporto al suo compito educativo. Comporta anche, e anzi prima di tutto, un’obiettiva mortificazione dell’idea di educazione nella comprensione e nella pratica corrente. Appunto a tale duplice difetto, pratico e teorico, che conosce oggi la relazione educativa occorre rimediare, per potere istruire la stessa questione dell’educazione alla fede, e quindi delle ragioni di pertinenza e di impertinenza del modello dell’iniziazione.
          Per istruire il tema della cura per la fede dei minori appare indispensabile rimuovere pesanti pregiudizi che viziano le rappresentazioni correnti del processo educativo in genere (§ 1); soltanto sullo sfondo di tale rinnovata comprensione della relazione educativa sarà possibile determinare gli aspetti di pertinenza e di impertinenza della categoria della ‘iniziazione (§ 2).
Giuseppe Angelini
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