Nell'autunno del 1832, Giovanni Bosco iniziò la “terza grammatica”. Nei due anni seguenti proseguì regolarmente frequentando le classi che venivano chiamate “umanità” (1833-34) e “retorica” (1834-35).
Continuava a dimostrarsi un allievo eccellente, appassionato dei libri e di memoria felicissima. “In quel tempo - ricordava con una punta di rimpianto - non facevo distinzione tra leggere e studiare. Con facilità potevo ripetere la materia di un libro letto. L'attenzione a scuola mi bastava a imparare quanto era necessario. Essendo stato poi abituato da mia madre a dormire molto poco, potevo impiegare due terzi della notte a leggere libri, alla fiammella di una mia lucernetta. C'era un libraio ebreo, di nome Elia, che mi imprestava i classici italiani: un soldo per ogni volumetto. Ne leggevo quasi uno al giorno”.
Giovanni ha 18 anni, l'età delle amicizie profonde. Pur rimanendo il “capo di un piccolo esercito”, si forma un cerchio ristretto di amici intimi.
Il primo lo conobbe durante una gazzarra scolastica. Già allora non tutti i professori erano puntuali, e i primi minuti di molte lezioni si trasformavano in chiassate. Andava forte il gioco della cavallina. “I meno amanti dello studio - annota con ironia don Bosco - erano i più celebri campioni”. Un ragazzo giunto da poco, all'apparenza sui 15 anni, tra tutto quel trambusto prendeva tranquillamente posto nel banco e apriva i libri.
“Una volta gli va vicino un insolente, lo prende per un braccio: - Vieni a giocare anche tu.
- Non sono capace.
- Imparerai. Non farti spingere a calci.
- Se vuoi picchiarmi, fai pure. Ma io non vengo.
Il maleducato gli diede due schiaffoni che fecero eco in tutta la scuola. A quella vista mi sentii bollire il sangue nelle vene. Aspetta vo che l'offeso si vendicasse come di dovere, tanto più che era più forte. Invece niente. La faccia rossa e quasi livida, gli dice:
- Sei contento? Allora lasciami in pace. Io ti perdono”.
Giovanni rimase folgorato. Quello era un atto “eroico”. Volle sapere il nome di quel ragazzo: Luigi Comollo. “Da quel tempo l'ebbi sempre per intimo amico, e posso dire che da lui ho cominciato a imparare a vivere da cristiano”.
Scoprì sotto un'apparente fragilità una grande ricchezza spirituale. Istintivamente divenne il suo protettore contro i ragazzi grossolani e violenti.
La clava umana
Un insegnante, un giorno, aveva il solito ritardo, e in classe si scatenò la solita gazzarra. “Alcuni volevano picchiare Comollo e un altro bravo ragazzo, Antonio Candele Gridai di lasciarli in pace, ma non mi dettero retta. Cominciarono a volare insulti, e io:
- Chi dice ancora una parolaccia dovrà fare i conti con me.
I più alti e sfacciati fecero muro davanti a me, mentre due ceffoni volavano sulla faccia di Comollo. Persi il lume degli occhi, e non potendo avere tra mano un bastone o una sedia, con le mani strinsi uno di quei giovanotti per le spalle, e servendomene come di una clava cominciai a menare botte agli altri.
Quattro caddero a terra, gli altri se la diedero a gambe urlando.
In quel momento entrò il professore, e vedendo braccia e gambe sventolare in mezzo a uno schiamazzo dell'altro mondo, si mise a urlare e a menare schiaffi a destra e a sinistra.
Calmato un poco il temporale, si fece contare la causa di quel disordine, e quasi non credendoci volle che ripetessi la scena. Allora scoppiò a ridere, risero anche gli altri, e il professore dimenticò di castigarci.
- Mio caro - mi disse Comollo appena potè parlarmi da solo -, la tua forza mi spaventa. Dio non te l'ha data per massacrare i tuoi compagni. Egli vuole che perdoniamo, e che facciamo del bene a quelli che ci fanno del male”.
Giovanni ascolta, dietro Comollo va anche a confessarsi. Però la frase del Vangelo: “A chi ti percuote una guancia, porgi anche l'altra” non è un comandamento che imparerà molto presto. Se lo imporrà a forza di volontà, ma non gli sarà mai congeniale. Dovrà ripetersi molte volte le parole del sogno: “Non con le percosse, ma con la carità dovrai acquistare i tuoi amici”.
Una “soffiata” di spie
Nei mesi estivi del 1833, Chieri vide all'improvviso arrivare squadroni di soldati. La vigilanza alle porte della città fu raddoppiata. Ronde armate percorrevano le strade di giorno e di notte. Gli assembramenti furono vietati.
Una “soffiata” di spie aveva avvertito che i mazziniani stavano per scatenare una rivolta in Torino e in altre città piemontesi. L'anno prima erano arrivate le prime notizie della “Giovane Italia” fondata dal Mazzini: si erano scoperte copie del giornale della setta in un baule a doppio fondo arrivato a Genova da Marsiglia. Ora il piano era di far scoppiare incendi in vari punti di Torino, suscitare tumulti popolari, assassinare la famiglia reale e proclamare la repubblica. (Si saprà in seguito che Mazzini in persona aveva consegnato a Gallenga il pugnale che doveva assassinare Carlo Alberto).
La fuga di notizie e la rapida mobilitazione delle forze armate portò all'arresto dei congiurati. Furono eseguite dodici condanne a morte. Un anno dopo, nella Savoia, i mazziniani ripeteranno il tentativo insurrezionale, con la partecipazione del generale Ramorino e di Garibaldi.
La censura, in quei mesi, raggiunse eccessi ridicoli: uno stock di berretti fu sequestrato perché tra i colori c'erano il rosso e il blu, i colori del tricolore della rivoluzione francese.
Con la fine dell'anno 1832-33, il figlio di Lucia Matta ha terminato gli studi. Giovanni è alla ricerca di una nuova pensione.
Un amico di famiglia, Giovanni Pianta, ha aperto un caffè a Chieri, e gli offre il posto di barista. Dovrà pulire il locale al mattino, prima di recarsi a lezione, e passare le ore serali al banco di mescita e poi nel salone del biliardo. In cambio, il signor Pianta, gli offre una minestra due volte al giorno e l'alloggio.
Giovanni accetta perché non trova di meglio. Giornate di lavoro duro, di veglia fino a ora tarda presso il biliardo a marcare le puntate sulla lavagnetta.
Nel 1888 (quindi più di 50 anni dopo) il signor Pianta ricordava ancora: “Era impossibile trovare un giovane più buono di Giovanni Bosco. Tutte le mattine andava a servire la Messa nella chiesa di S. Antonio. In casa avevo la madre vecchia e malata, ed era ammirabile la carità che egli sapeva usarle”.
Molto meno ammirabile il trattamento che questo esoso signore riservava al suo giovane aiutante di 18 anni: gli faceva preparare caffè e cioccolata, pasticceria e gelati, ma gli passava soltanto la minestra. Toccava a mamma Margherita portargli dai Becchi pane e pietanza. L'alloggio che gli forniva era “uno stretto vano sopra un piccolo forno dove si cuocevano le paste dolci, e al quale si saliva per una scaletta. Per poco che si fosse allungato nel lettuccio, i suoi piedi sporgevano non solo dall'incomodo pagliericcio, ma dalla stessa apertura del vano”.
Giacomo Levi detto Giona
Nella città di Chieri vive un numeroso gruppo di Ebrei. Secondo le leggi di Carlo Felice, gli ebrei nelle città dovevano abitare in un quartiere separato da quelli cristiani, il “ghetto”. Erano “tollerati”, cioè considerati cittadini di serie B. Quei ragazzi ogni settimana provavano un grave disagio: nel giorno di sabato la loro legge vietava ogni lavoro, anche lo svolgimento dei compiti. Dovevano scegliere: o andare contro coscienza o rassegnarsi a brutti voti e alle beffe dei compagni.
Giovanni li aiutò molte volte, facendo il compito del sabato al loro posto. Divenne molto amico di uno di essi, Giacomo-Levi, che i compagni chiamavano col nomignolo di “Giona”. Avevano una base comune: erano entrambi orfani di padre.
Don Bosco ricordava quell'amicizia con espressioni splendide, insolite in lui. “Di bellissimo aspetto, cantava con una voce rara, fra le più belle. Giocava assai bene al biliardo. Gli portavo grande affetto, ed egli era folle per amicizia verso di me. Ogni momento libero veniva a passarlo in camera mia. Ci trattenevamo a cantare, a suonare il piano, a leggere, a raccontare”.
È un'amicizia ardente, luminosa, che manifesta in Giovanni Bosco un cuore per nulla impacciato o timoroso.
Un imprecisato “disordine con rissa che poteva avere tristi conseguenze” getta in crisi il giovane ebreo. Giovanni, non per proselitismo ma per affetto, offre all'amico il bene migliore che possiede: la fede. Gli impresta il suo catechismo. “Nello spazio di pochi mesi apprese le verità principali della fede. Ne era contentissimo, e ogni giorno diventava migliore nel parlare e nell'operare”.
Il dramma familiare (inevitabile) scoppia quando la madre ebrea scopre il catechismo cristiano nella stanza del figlio. Essa ha l'impressione di perdere anche lui, dopo aver perso il marito. Affronta Giovanni e gli dice con amarezza: “Voi me l'avete rovinato”.
Giovanni usa le parole migliori che possiede, ma non riesce a nulla. Minacciato dai parenti, dal rabbino, “Giona” deve allontanarsi per qualche tempo dalla famiglia. Poi, poco per volta, ritorna il sereno. Il giorno 10 agosto, nel duomo di Chieri, il giovane ebreo è battezzato. L'atto ufficiale, conservato negli archivi, attesta: “Io, Sebastiano Schioppo, teologo e canonico, per concessione del rev.mo e ill.mo Arcivescovo di Torino, ho battezzato solennemente il giovane ebreo Giacomo- Levi, di 18 anni, e gli ho posto il nome di Luigi”.
“Giona” rimase sempre amico affezionato di don Bosco. Ancora nel 1880 scendeva all'oratorio di Valdocco a fargli visita, e a ricordare insieme i “bei tempi” passati.
Le mele di Blanchard
La minestra del signor Pianta non bastava certo a calmare l'appetito robusto del diciottenne Giovanni Bosco. In quegli anni patì sovente la fame. Un giovanotto suo amico, Giuseppe Blanchard, molte volte se ne accorgeva, e andava da sua madre (venditrice di frutta) a riempirsi le tasche di mele o di castagne. La brava donna vedeva, e faceva finta di non vedere. Più di una volta, a tavola, Giuseppe spopolò la fruttiera per la stessa ragione. Suo fratello Leandro un giorno levò la voce:
- Tu mamma non vedi mai niente. Giuseppe ti porta via la frutta a chili, e tu non te n'accorgi nemmeno.
- Me ne accorgo benissimo - rispose la donna -. Ma so dove la porta. Quel Giovanni è un bravo ragazzo, e la fame è una cosa brutta alla sua età.
Nonostante la fame, il soldino per affittare libri dall'ebreo Elia, Giovanni riusciva sempre a trovarlo, e di notte continuava a leggere. Se ne accorgeva anche il signor Pianta, che testimoniò: “Sovente passava la notte intera studiando, e alla mattina lo trovavo ancora sotto il lume acceso a leggere e a studiare” (chissà se era più impressionato dalla volontà di quel ragazzo o dalla quantità di olio consumata dal lume?). Anche don Bosco ricordava quelle notti: “Più volte accadde che giungeva l'ora della levata mentre tenevo ancora tra le mani il libro cominciato la sera precedente”. Ma subito aggiungeva: “Tal cosa mi rovinò seriamente la sanità. Quindi io consiglierà sempre di fare quel che si può e non di più. Ho scoperto a mie spese che la notte è fatta per il riposo”.
Non era un fenomeno, Giovanni Bosco. Era un adolescente pieno di volontà e di impazienza. La pazienza e il senso del limite (come capita a tutti) li avrebbe imparati dalla vita.
11. VENT'ANNI
Marzo 1834. Giovanni Bosco, che si avvia a terminare l'anno di “umanità”, presenta ai Francescani la domanda di essere accettato nel loro ordine.
Un compagno di scuola, Eugenio Nicco, gli porta la risposta:
- Sei atteso a Torino per l'esame, al convento di S. Maria degli Angeli.
Vi si reca a piedi. Nel registro di accettazione del convento si legge: “Il giovane Giovanni Bosco di Castelnuovo viene accettato a pieni voti, avendo tutti i requisiti richiesti. 18 aprile 1834”.
Subito dopo, Giovanni prepara i documenti per entrare nel convento della Pace, in Chieri.
Perché ha preso questa decisione?
Giovanni ha 19 anni, e si accorge che è ormai il tempo di decidere per la vita. Ha faticato e sofferto perché desidera diventare sacerdote. Ma in questi mesi ha dovuto guardare in faccia alcuni problemi drammatici.
I conti con la povertà
Prima di tutto la povertà. Non si sente più di gravare sulle spalle di sua madre. Lo confida in quei giorni a Evasio Savio, un amico di Castelnuovo: “Come potrebbe mia madre aiutarmi ancora a proseguire negli studi?”. Ha parlato di questo problema con alcuni padri francescani, ed essi, che lo conoscono bene, gli hanno proposto immediatamente: “Vieni con noi”. Non ci sarà questione nemmeno per la somma che i novizi sono invitati a versare all'ingresso. Per Giovanni Bosco si farà un'eccezione.
Ci sono anche altri problemi. Leggiamo nelle sue Memorie: “Consigliandomi con me stesso, pensavo: se mi faccio prete secolare, la mia vocazione corre serio pericolo di naufragio”. Non è uno scrupolo, una paura vana. In quegli anni, scrive Pietro Stella, “fra le cose che maggiormente si temevano, c'era il professionalismo dei chierici, l'abbracciare la " carriera " ecclesiastica non per profondo spirito religioso, ma per ragioni umane, per assicurarsi un avvenire. Si intuiva quale grande male fosse per il sacerdozio l'inanità interiore, la superficialità di senso religioso”.
Un segno di questo pericolo poteva essere l'abbondanza eccessiva di giovani che intraprendevano la strada del sacerdozio: 250 seminaristi nel 1834 (Torino, Chieri, Bra), addirittura 358 interni e 207 esterni nel 1840 (Torino, Chieri, Bra e Giaveno). Don Bosco stesso ricorda che dei ventiquattro suoi compagni nel corso di retorica, venti si iscrissero ai corsi del seminario.
A un'entrata così abbondante corrispondevano abbandoni numerosi e dolorosi. La via del seminario era già considerata in partenza, da molti, una “scorciatoia” per un posto di insegnamento o un impiego statale.
Per curare questa piaga, si tentava da parte dei vescovi di arginare sempre più il numero dei seminaristi “esterni”, che frequentavano il seminario per le lezioni scolastiche e le funzioni liturgiche, e portavano inevitabilmente tra gli interni un'aria di mondanità.
La contadina con lo scialle nero
Negli ultimi giorni di aprile, Giovanni si presenta al suo parroco per chiedergli i documenti necessari all'entrata in convento. Don Dassano lo guarda perplesso:
- Tu in convento? Ma ci hai pensato bene?
- Mi pare di sì.
Alcuni giorni dopo, don Dassano sale alla cascina del Sussambrino. Parla con mamma Margherita.
- Giovanni va a farsi frate francescano. Non ho niente in contrario, ma a me sembra che vostro figlio sia molto più adatto a lavorare in una parrocchia. Sa parlare con la gente, attirare i ragazzi, farsi voler bene. E allora perché andare a seppellirsi in un convento? E poi, Margherita, voglio parlarvi chiaro. Voi non siete ricca, e siete ormai avanti negli anni. Un figlio parroco, quando non potrete più lavorare, potrà darvi una mano, ma un figlio frate per voi sarà perso. Sono convinto che dovete distoglierlo da quest'idea, e mi pare di dirlo per vostro bene.
Mamma Margherita si mette lo scialle sulle spalle e scende a Chieri.
- Il parroco è venuto a dirmi che vuoi entrare in convento. È vero?
- Sì mamma. Spero non avrete nulla in contrario.
- Sentimi bene, Giovanni. Io voglio che tu ci pensi bene e con calma. Quando avrai deciso, segui la tua strada senza guardare in faccia nessuno. La cosa più importante è che tu faccia la volontà del Signore. Il parroco vorrebbe che io ti facessi cambiare idea, perché in avvenire potrei avere bisogno di te. Ma io ti dico: in queste cose tua madre non c'entra. Dio è prima di tutto. Da te io non voglio niente, non mi aspetto niente. Io sono nata povera, sono vissuta povera, e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio dire subito: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco, non metterò mai piede in casa tua. Ricordalo bene.
Quell'anziana contadina con lo scialle nero aveva un tono forte nella voce, una energia grande nella faccia. Don Bosco quelle parole non le avrebbe dimenticate mai.
Giovanni stava ormai per concludere, quando si verificò un imprevisto. “Pochi giorni prima della mia entrata ho fatto un sogno dei più strani. Mi pareva di vedere una moltitudine di frati con le vesti sdruscite indosso. Correvano in senso opposto l'uno dall'altro. Uno di loro mi venne vicino e mi disse: " Tu cerchi la pace, ma qui pace non troverai. Altro luogo, altra messe Dio ti prepara ".
Un sogno, la solita “cosa da niente”. Eppure Giovanni ha dovuto prendere atto ormai che i sogni per lui sono cose importanti, anche se a volte scomode. Va dal suo confessore: “Gli esposi tutto, ma non volle udir parlare né di sogni né di frati. Mi rispose: " In queste faccende ognuno deve seguire le sue inclinazioni, e non i consigli degli altri. Devi quindi pensarci e decidere tu ".
Che fare? Rimandò ogni decisione e continuò la scuola pubblica. Ma non si poteva tramandare all'infinito. Un giorno si confidò con Luigi Comollo, ed ebbe un consiglio classico per un santino come lui, tutto spiritualità fervida e disincarnata: fare una novena, scrivere una lettera a un suo zio parroco, e poi obbedire ciecamente.
“L'ultimo giorno della novena - ricorda don Bosco - in sua compagnia ho fatto la confessione e la comunione, poi udii una Messa e ne servii un'altra all'altare della Madonna delle Grazie. Tornati a casa, trovammo una lettera di don Comollo (lo zio di Luigi) che diceva: "Tutto considerato, io consiglierei il tuo compagno di non entrare in convento. Vesta l'abito chiericale, e non abbia paura di perdere la vocazione. Con la ritiratezza e la pratiche di pietà supererà tutti gli ostacoli ".
“Perché non consulti don Cafasso?”
Vestire l'abito chiericale voleva dire diventare seminarista. Ma rimaneva il problema numero uno: e i soldi? A questo punto entrò in scena don Cinzano (che aveva sostituito don Dassano nella parrocchia di Castelnuovo). Informato delle sue difficoltà, andò a bussare a denari presso due persone benestanti del paese. Insieme si autotassarono per la pensione dell'ultimo anno di scuola pubblica.
Giovanni però non era ancora del tutto soddisfatto. Fu il suo amico Evasio Savio a suggerirgli:
- Vai a Torino a consigliarti con don Cafasso. È giovane, ma è il più bravo prete che sia nato a Castelnuovo.
Aveva solo 23 anni, don Giuseppe Cafasso, ma era già considerato uno dei migliori “direttori d'anime”: da lui si recavano per consiglio molte persone inquiete o turbate. Viveva a Torino, nel Convitto Ecclesiastico, e mentre completava gli studi di specializzazione teologica, assisteva malati e carcerati.
Giovanni andò, e gli espose tutte le sue perplessità. Con grande calma e senza esitazione, don Cafasso gli disse:
- Finite il vostro anno di retorica, e poi entrate in seminario. La divina Provvidenza vi farà conoscere ciò che vuole da voi. Anche per il denaro state calmo: qualcuno provvedere.
In quest'incontro, Giovanni Bosco ha incontrato l'elemento equilibratore della sua vita. Il suo temperamento vulcanico lo farà vivere tra sogni, progetti, perplessità, successi, delusioni. Accanto a lui, calmo e rasserenante, don Cafasso sarà l'amico discreto, il consigliere saggio, il silenzioso benefattore.
Il seminario di Chieri era stato aperto solo nel 1829. L'arcivescovo di Torino, Colombano Chiaveroti, aveva voluto per i futuri preti un ambiente raccolto e quasi claustrale, lontano dal chiassoso mondo di Torino. Giovanni Bosco vi entrerà come “interno”, disposto cioè a viverne tutta l'austerità. Così l'ha consigliato don Cafasso, che ottiene dal teologo Guala la pensione gratuita per il primo anno.
L'esame per l'ammissione al seminario, Giovanni dovrebbe sostenerlo a Torino. Ma la città è minacciata dal colera (che arriva quasi ogni anno a turbare la stagione calda). I viaggiatori sono sottoposti a quarantena. L'esame è quindi ricevuto per delega a Chieri, e si conclude bene.
Le ultime vacanze scolastiche prima di indossare la talare dei chierici, Giovanni le trascorre al Sussambrino e a Castelnuovo, accanto al parroco. Scrive: “In quelle vacanze cessai di fare il ciarlatano, e mi diedi alle buone letture. Ho però continuato a occuparmi dei ragazzi, intrattenendoli con racconti, ricreazioni, canti. Molti, anche già grandi, non conoscevano le verità della fede. Così insegnavo loro il catechismo e le preghiere quotidiane. Era una specie di oratorio, una cinquantina di ragazzi che mi amavano e mi ubbidivano come se fossi stato loro padre”.
Il marchio di fabbrica
16 agosto 1835. Giovanni Bosco compie vent'anni. Si è fatto un uomo, tenace, intelligente, maturo. Sta per entrare negli anni decisivi della sua formazione sacerdotale, e porta con sé, come marchio di fabbrica, un solido carattere piemontese.
Henri Bosco, un francese di Provenza, lontano parente del Santo, ha tentato di delineare, in una bella pagina, i “tratti fortemente marcati e originali” del carattere piemontese. Sulla sua linea, ci proviamo anche noi.
Non è brillante né spiritoso. Non pensa in fretta. È lento a comprendere, a riflettere, a rispondere. Perciò gli mancano lo slancio, il fuoco, l'esaltazione.
Come contropartita, è solido e forte. Solidità fatta di resistenza, anzitutto. Sa sopportare a lungo e senza lamentarsi. Fatta di prudenza, anche. La vita dura gli ha insegnato che è saggio pensarci su senza fretta.
È nato positivo. Le idee originali non lo seducono: sa per istinto che hanno un alto tasso di mortalità infantile. Se ha qualche idea brillante, la indirizza subito al campo pratico. Vive nel concreto, nel reale. È lì la sua forza.
Il reale è molto spesso aspro e duro. Il piemontese vi oppone la pazienza. È paziente di spirito, come è paziente di cuore.
Ama e non rinnega. È un uomo fedele. La fedeltà è il segno maggiore della perseveranza. Ne è l'espressione più nobile e il prodotto più puro. Implica il coraggio.
Il piemontese è coraggioso. Non ha la temerità delle teste calde. È più soldato che guerriero. Ma sa combattere. Combatte bene, seriamente, senza spirito di avventura, più volentieri per difendere che per attaccare. Questa vocazione difensiva gli viene dall'amore intenso che porta alla sua terra, ai suoi beni, alla sua famiglia, anche se i suoi beni sono poveri, se la terra è esigente, se la famiglia è pesante da portare.
All'occasione emigra. Ma non si sradica mai dalla sua terra. C'è in lui un fondo perenne in cui tutte le sue virtù di pazienza, di attaccamento, di solidità, di buon senso pratico hanno la loro origine.
Dio sa quanto don Bosco abbia posseduto le virtù proprie della sua razza, la resistenza, lo spirito pratico, la genialità del reale, la pazienza, persino la testardaggine.
Ma Dio, a questo giovane uomo che sta per entrare in seminario, ha dato anche il dono di un cuore che ama in grande. Un cuore che non si rassegna davanti ai giovani umiliati dall'ignoranza, alla gente tarlata dalla miseria, alle persone inaridite dalla mancanza di Dio. Io credo sia questo il “carisma”, il dono particolare che fu assegnato a don Bosco, e che dovette integrarsi, a volte in maniera drammatica e sconvolgente, con le qualità della sua terra.
Un cuore totale non conosce le mezze misure, affronta ciecamente le sfide del reale, trasforma la pazienza umana in cristiana impazienza. Ai suggerimenti spaventati del “buon senso” risponde con lo slancio. I santi ne hanno del buon senso, e molto, ma ce ne accorgiamo sempre dopo. Sembra pazzia, ed è fede grande, in Dio e negli uomini. Non fede passiva, quella che attende tutto dal cielo, ma la fede della visione, dell'avventura, la fede che scatena l'offensiva.
Don Bosco è stato animato da questa fede radicata nell'amore, le cui ragioni sono sragionevoli, perché ragiona diversamente dall’intelligenza, dal “buon senso” terra-terra.
Per questo molti preti suoi conterranei, suoi fratelli sinceri di ministero, cresciuti accanto a lui nello stesso seminario, non lo capiranno.
La Chiesa riassumerà tutto questo mettendo all'inizio della sua Messa le parole che la Bibbia dice di Abramo (un altro grande dell’umanità che mancò clamorosamente di “buon senso”): “Dio gli ha dato una sapienza e una prudenza vastissima, e un cuore largo come le spiagge del mare”.
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