Qui sta veramente il vertice ed il centro del mutamento. Qui deve aver luogo il rivolgimento decisivo, liberatore; la Chiesa, eliminando una sterile tendenza di autoconservazione, nel suo aprirsi ed irrompere nel mondo deve destarsi alla sua vera essenza, e con ciò deve anche dimostrare che cosa sia veramente il cristiano.
del 01 gennaio 2002
Qui sta veramente il vertice ed il centro del mutamento. Qui deve aver luogo il rivolgimento decisivo, liberatore; la Chiesa, eliminando una sterile tendenza di autoconservazione, nel suo aprirsi ed irrompere nel mondo deve destarsi alla sua vera essenza, e con ciò deve anche dimostrare che cosa sia veramente il cristiano.
Per far risaltare nettamente questo pensiero lo si puntella da tutte le parti con la storia e lo si rafforza per via di contrapposizioni. Anzitutto una volta (cosi si dice) non c’era un mondo mondano, ma semplicemente un cosmo, sentito nel suo complesso come religioso o, come taluni addirittura dicono, un cosmo ‘divinizzato’: sotto l’egida di una illusione in qualche modo religiosa-primitiva l’uomo avrebbe sentito vicina e presente la divinità dovunque nella natura; questa illusione sarebbe stata brutalmente distrutta nel mondo moderno tecnico e meccanizzato che domina la natura, il mondo sarebbe ‘sdivinizzato’ e totalmente ‘umanizzato’, ed in questo mondo freddo, disincantato, il cristiano sarebbe invitato ad entrare senza paura e senza riserva. Poi la durezza della richiesta viene sottolineata dal fatto che una certa innegabile fuga dalla realtà da parte dei cattolici, dopo la rivoluzione francese e nel romanticismo, viene estesa a paradigma di ogni atteggiamento cristiano del passato; indubbiamente a torto, perché quella apertura al mondo c’era non soltanto nel movimento apostolico della prima Chiesa, ma anche nel rischio tanto incerto, oggi giudicato in modo cosi duro, della cristianizzazione dell’impero romano e del suo potere mondiale, nella conversione dei barbari, nel dissodamento delle loro foreste e terre incolte ad opera di monaci e di ordini cavallereschi, nel contenuto moderno della grande arte, filosofia e letteratura occidentali, nella moralizzazione delle civiltà e dei regni: qui riformatori e puristi hanno trovato dovunque piuttosto eccesso che difetto di compenetrazione del mondo e di trasformazione!
Si rimanda inoltre ai movimenti ascetici del passato che, a quanto si dice, in un primo tempo sarebbero stati di fuga dal mondo, a partire dalla impressionante emigrazione dell’aristocrazia spirituale nel deserto, in eremitaggi ed in conventi cenobitici, passando per i trattati medioevali del disprezzo del mondo (de contemptu mundi) la cui responsabilità ricade sul monachismo, per giungere fino alle sempre nuove ondate moderne di vita di rinunzia nei consigli evangelici. Ma si fa notare con insistenza che queste ondate, seguendo un segreto istinto cristiano, si introducono sempre più nel mondo; dalla fuga dal mondo puramente contemplativa dei primi monaci san venuti i Benedettini coltivatori, ad essi hanno fatto seguito i predicatori ed evangelizzatori, i quali con la Compagnia di Gesù hanno abbandonato ogni elemento claustrale e sono entrati profondamente nel mondo, ed oggi le comunità secolari (instituta saecularia) percorrono in pieno le vie e vivono i consigli evangelici in mezzo alla vita professionale moderna, non separati in nulla dal mondo. E se in questi tipi di vita si poté realmente trovare per lungo tempo l’avanguardia dell’esistenza cristiana, questa impressionante via secolare, dal convento più lontano dal mondo fino all’esistenza più intima nel mondo, è una chiara e forte parola dello Spirito santo. E da questa inarrestabile direzione di marcia, appunto considerando il dinamismo del mondo moderno, non si esiterà a trarre le ultime conseguenze: ciò che nei ‘consigli evangelici’ si credette così a lungo di dover prendere alla lettera, è da intendere soprattutto in senso spirituale: deve incarnarsi completamente, senza l’estremo distacco di una verginità esterna, nello spirito di una piena umanità del matrimonio cristiano intrepidamente affermata, casi come le esteriorità dell’antica povertà devono umanizzarsi nel superiore distacco da ogni possesso, e soprattutto l’eterna immaturità dell’obbedienza esterna deve realizzarsi nella maturità del laico cristiano pienamente responsabile che vive nel mondo e arrischia la sua decisione cosciente. Per avere dinanzi agli occhi il quadro generale della tendenza non c’è più che da puntellare questi enunciati con insinuazioni storiche di un nascosto atteggiamento ‘manicheo’, ostile alla carne, dei cristiani antichi e medioevali, le cui tracce purtroppo sembrano essere più che chiare nei comandi e divieti matrimoniali della Chiesa; non c’è che da ricordare la naturale servitù di una umanità barbara, ancora infantile e difficile da educare al dominio paternalistico dell’autorità ecclesiastica, alla quale tuttavia si sottrae grazie al naturale processo di maturazione; non c’è più infine che da aggiungere che in un’epoca casi specializzata le competenze passano sempre più agli specialisti, conseguentemente in pratica si sottraggono sempre più alle autorità ecclesiastiche, che in tal modo vengono limitate al campo puramente spirituale. In questa tendenza il baricentro della Chiesa si sposta inarrestabilmente, dallo stato sacerdotale e dei consigli al laico: egli, in quanto Chiesa rivolta al mondo, radicata nel mondo, è il vero centro del regno di Dio in terra. Nei suoi confronti il clero non è che una forza ausiliaria, e la vita dei consigli non esiste che per ricordare simbolicamente ai laici che essi stessi non sono semplicemente mondo, che inoltre il regno di Dio non è ancor giunto in modo definitivo, ma il ‘futuro’ del Signore si trasformerà in presenza aperta soltanto alla fine dei tempi. La vita di rinunzia non è quindi che un segno, mentre la vita di consumo è la cosa indicata, e parimenti il pastore ufficiale non esiste che in funzione del gregge, per il bene del quale deve impegnare tutta la sua forza.
Se a questa visione del mondo si aggiunge ancora la teoria dell’evoluzione biologica e la sua ingenua trasposizione nel campo della storia naturale e soprannaturale dell’umanità, la tendenza diventa inarrestabile: ma ora per l’umanità si tratta di prendere essa stessa in mano l’evoluzione cosmica e mediante un’attiva pianificazione spirituale non solo condurre la storia del mondo verso il suo completamento, ma con ciò anche preparare ed ‘accelerare’, per quanto dipende da essa, il futuro del Signore.
Con questo spostamento di peso vien fuori, in modo impreveduto e come di passaggio, anche una risposta alla nostra domanda principale: ‘Chi è il cristiano’? In ultima istanza è colui che inserisce più profondamente l’elemento cristiano nella materia del mondo mondano, lo ‘incarna’ in modo più radicale. Che cosa attendono infatti tutti i mezzi della grazia messi a disposizione: la Bibbia, i sacramenti, la predicazione ecc.? Non altro che di essere tradotti in vita ed in atto, e ciò avviene nella vita cristiana quotidiana, cioè comune-mondana. Si realizzano così la parabola del lievito e le parole relative al sale della terra, alla luce del mondo.
Tutto ciò sembra semplice e chiaro, liberatore anche (dall’oppressione del clericalismo e dalla tutela di una ascesi straniata dal mondo) e, in un senso incoraggiante, impegna tutte le nostre forze a tal punto che l’ambiguità di questa tendenza quasi sparisce sotto tanti elementi positivi ed entusiasmanti. Ma riappare subito se, a coloro ‘che sono rivolti al mondo’, si pone la domanda: Che cos’è per voi cristiani l’elemento cristiano che pensate di incarnare nel mondo? Quando si definisce un concetto, non lo si deve adoperare nella definizione. Voi avete quindi sempre già – alle spalle – un concetto dell’elemento cristiano (e quindi del cristiano), con cui operate, quando progettate la vostra azione per il mondo. Non vorrete infatti dire che il volgersi al mondo in quanto tale sia l’elemento cristiano? Anche voi siete una parte del mondo e perciò non avete più bisogno di rivolgervi espressamente ad esso. Questo atteggiamento lo si potrebbe attribuire al massimo a Dio, che per sé non è ‘mondo’ e nel suo rivolgersi al mondo accorda ad esso una ‘grazia’. Per voi invece l’essere mondo è un fatto naturale ed un dovere spirituale che su esso si fonda. O forse lo spirito cristiano che vorreste apportare è il modo gioioso, fatto di dedizione responsabile, in cui pensate di collaborare alla costruzione del mondo? Ma questo spirito, per quanto eccellente, non trascende, in linea di principio, ciò che si deve esigere da ogni membro della comunità umana. Oppure intendete dire che il grado particolare del vostro impegno per il bene comune, della vostra dedizione ai vostri simili costituisce l’elemento cristiano distintivo, perché esso per gli uomini non potrebbe essere altro se non una forma particolarmente pura, luminosa ed attraente di umanità? Per questo potreste addurre importanti ragioni: che l’elemento cristiano non consiste in pratiche esterne e nella frequenza principale di Cristo, che egli – ad esempio nella lavanda dei piedi – ci ha insistentemente inculcato che fossimo tutti fratelli, ci servissimo ed aiutassimo reciprocamente, così come l’ha fatto egli, quale nostro maestro. Ma ciò significa che dovremmo distinguerci dagli altri uomini non mediante stranezze, bensì soltanto perché rispondiamo alle esigenze della umanità e solidarietà universali in modo più coscienzioso e conseguente di altri. Se il compito umano, in questo mondo ‘in definitiva’ completamento ‘mondano’, significa appunto la costruzione spirituale-tecnica di questo mondo da parte dell’uomo, l’elemento cristiano sarebbe di dare il buon esempio, stando in vetta a questo compito di solidarietà. Invece di giungere sempre troppo tardi, perché si guarda sognando verso il cielo e frattanto si perdono una dopo l’altra le possibilità di storia del mondo, occorre svegliarsi una buona volta per le esigenze religiose del presente ed essere modello in esso.
Infatti, sarebbe stato necessario un comunismo, se i cristiani fossero stati chiari e spassionati al momento giusto? La cura umana per i poveri e gli sfruttati non è stata raccomandata da tempi immemorabili dalla Bibbia dell’Antico e Nuovo Testamento? E se non ci fossero stati i fatali legami tra sfruttatori e religione cristiana, sarebbe stato necessario l’ateismo moderno? Ci imbattiamo qui nel fatto «che l’esistenza ed il movimento proletari dovettero quasi necessariamente concepirsi in modo ateistico, perché nei decenni decisivi del loro inizio, non divenne loro visibile Dio, che, dopo Cristo, avrebbe potuto diventare loro visibile ed evidente soltanto nei cristiani seguaci di Cristo. Ma il cristianesimo, che più non sosteneva in quanto sicuro ordinamento popolare contadino e piccolo borghese, non si presentò loro quasi per nulla in questa evidenza, bensì come validissima giustificazione e arma degli sfruttatori. Che Dio non esistesse non fu una conclusione logica, bensì un’esperienza evidente... L’ateismo ateistico, rivoluzionario, del momento in cui nacque il movimento operaio è causato direttamente dall’assenza di Dio, cioè dall’assenza dei cristiani».[1] Che cosa sarebbe stato necessario? Un chiaro e vigile senso per la fraternità, invece di una pratica farisaica, cieca al mondo. A che pro quindi gli ideali sopramondani, l’anacronistico sbirciare verso l’al di là, quando i compiti cristiani stanno in massa, direttamente sotto gli occhi? Anche oggi precisamente come al tempo del Manifesto comunista! Quante esigenze elementari dell’umanità restano insoddisfatte perché gli uomini presuntuosamente dicono di non aver tempo per esse! Qui il cristiano può intervenire, qui può incarnare la sua religione.
Per quanto tutto ciò sia vero, si deve nondimeno ripetere la domanda fondamentale: il cristianesimo è nulla più di un umanesimo conseguente? Ma allora, in definitiva, ha ragione la seria ed onesta teologia dell’illuminismo e del liberalismo: Cristo è il maestro più sublime di umanità, il suo esempio è il modello più puro. Dopo questo esempio noi sappiamo che cosa sia vera solidarietà e disinteresse. Ma se lo sappiamo, che bisogno c’è ancora di fede? Non basta aspirare alla realizzazione delle istruzioni semplici, ma che impegnano tutta la nostra esistenza, del discorso della montagna, le quali non hanno in sé nulla di misterioso? A che servono ancora i misteri della fede? L’amore del prossimo ci può diventare intrinseco; a che pro queste ‘proposizioni’ da accettare come vere, che ci rimangono eternamente estrinseche? Se essere cristiano significa realizzazione, e se noi possiamo realizzare soltanto ciò che comprendiamo e per cui possiamo impegnarci in modo corrispondente, perché ancora le cose incomprensibili che, in quanto tali, rimangono indigeste, inassimilabili?
Qui è posta, nel modo più chiaro, la domanda ‘Chi è il cristiano?’ Se il mio essere cristiano deve servire il mondo moderno, io devo averne un ideale comprensibile, percepibile. Ma esso dev’essere adatto alla ragione umana ed all’azione umana; con ciò, agendo, io parto sempre da un ideale che – in quanto compreso – sta alle mie spalle, anche se, in quanto è da realizzare, mi sta sempre davanti in modo nuovo. Questo è l’apriorismo della quarta tendenza. Per quanto la sua idea di realizzazione sia giusta, tuttavia anch’essa si fonda su un’occulta sottrazione: l’elemento cristiano non è altro che il vero umano.
Per mascherare alquanto questo apriorismo, esistono molte vie. Una sta già nel concepire nuovamente il mondo, appena sdivinizzato, in modo teologico e nel parlare di una ‘teologia delle realtà terrestri’. Tutt’al più si potrebbe attribuire loro un simile ultimo aspetto, se prima si fosse almeno sviluppata la loro ‘filosofia’ (ad esempio nel senso di Tommaso d’Aquino). Ma oggi la filosofia è svalutata a favore di una semplice ‘scienza esatta’ di nudi fatti. Questa scienza – senza la mediazione della filosofia – viene messa a confronto con la teologia, il che non può mai produrre se non l’apparenza di un dialogo, in realtà una semplice dialettica deteriore. ‘Creazione come salvezza’, ‘creazione come mistero salvifico’ sono temi e titoli in voga di libri moderni: suonano promettenti, ma dietro ad essi sta un corto circuito, una equiparazione tra filosofia e teologia, in cui alla lunga è sempre la teologia a rimetterci.
In questa dialettica si possono anche conciliare le posizioni più contraddittorie, ma soltanto in apparenza e senza un vero compromesso. Così oggi si dice contemporaneamente e con lo stesso accento di convinzione che il mondo è finalmente sdivinizzato e diventato puramente mondano, e che il mondo dev’essere concepito come un totale mistero eucaristico, come il corpo mistico di Cristo che cresce: una ‘divinizzazione’ del cosmo al di là di tutta la filosofia cristiana del mondo fornita dal pensiero oggettivo del medioevo. In una creazione che, anche nel suo aspetto evolutivo, viene concepita direttamente come mistero teologico-sacramentale, tutti i processi secolari-mondani, nonostante la loro precedente sdivinizzazione, cioè in pratica, nonostante il loro assoggettamento all’esclusiva disposizione dell’uomo che pensa e progetta in modo tecnico, passano anche direttamente nello spirituale. Il mondo sdivinizzato fino all’ateismo, in quanto tale è anche sacralizzato fino alla divinità. Ma questi in definitiva non sono poi che giochi di parole, con cui i cristiani del mondo odierno, che va avanti benissimo senza di loro, ingannano se stessi e si gettano sabbia negli occhi. Quando le differenze sono giàsegretamente eliminate in precedenza, non ha senso agire come se ancora le si mantenesse e si dicesse qualcosa di cristianamente profondo chiamando spiri. tuale ciò che è mondano e mondano ciò che è spirituale.
Si rifletta per un momento sulla tradizione cristiana, che all’inizio di questo capitolo è stata addotta come potente testimone, e ci si decida a rinfacciarle o una esagerata mondanità (divinizzazione del mondo) od una esagerata fuga dal mondo (sdivinizzazione del mondo). Se questa decisione è impossibile, dovrebbe risultare che la cristianità da sempre, in concetti ed espressioni culturalmente variabili, ha visto e sostenuto sia l’uno che l’altro aspetto della realtà. Nessuno può negare che l’interpretazione cristiana dell’essere ha sempre avuto dinanzi agli occhi ed al cuore il destino del cosmo nel suo complesso; proprio alle immagini più forti ed efficaci del mondo non si può in alcun modo rinfacciare l’acosmismo, il distacco dal mondo. Il ‘santo cosmo’, cioè il mondo che, attraverso la creazione divina, l’incarnazione, la riconciliazione, la redenzione, ma anche attraverso l’osservanza delle leggi intramondane ed umane dell’essere, matura per laggiungere l’ultima pienezza di Cristo, è il postulato di un Origene e di un Dionigi Areopagita, di un Boezio e di un Giovanni Eriugena, dei maestri della scuola di Chartres e dei grandi scolastici Alberto, Bonaventura, Tommaso, il postulato di Nicolò Cusano e del pensiero rinascimentale cristiano da Firenze fino a Oxford, il postulato anche della mistica barocca di un Giacomo Böhme e della sua scuola fino a Schelling e Baader. A tutti costoro, fatta forse eccezione per Agostino, si dovrebbe muovere piuttosto il rimprovero di aver mescolato troppo mondo nel santo, troppa filosofia nella teologia. Proprio questo ci rende diffidenti quando si accusano i movimenti ascetici del monachismo o gli ordini mendicanti del medioevo di distacco dal mondo o addirittura di manicheismo le cui ultime tracce soltanto il nostro glorioso presente sarebbe riuscito a cancellare. Può darsi che questi movimenti rappresentino qualcosa come un compromesso nei confronti di una cristianità troppo moderna, immischiata nella politica e nella filosofia: come contrappeso non hanno la loro sanità e la loro legittimità?‚Ä® Soltanto noi avremmo scoperto chi è realmente il cristiano? Noi con la nostra quadruplice tendenza che, in tutte le sue direzioni, si è rivelata come una via per niente univoca e quindi piuttosto pericolosa? Infatti ogni volta, sia pure in modo diverso, si è supposto di sapere già ciò che era soltanto oggetto della domanda. Ma se già in campo filosofico nulla ha conseguenze peggiori dei presupposti aprioristici, ciò è vero tanto più nel campo cristiano. Dobbiamo perciò prendere la decisione di rigirarci e di porre dinanzi a noi ciò che in apparenza sta dietro di noi. La giusta posizione è di avere dinanzi a sé la domanda con il tentativo di risposta, perché la risposta ci viene necessariamente di là, donde ci è donato lo stesso essere cristiano: dalla Parola viva di Dio.
[1] Walter Dirks, Bittere Frucht (Frutto amaro), in Das schmutzige Geschaft. Die Politik und die Verantwortung der Christen. (Lo sporco affare. La politica e la responsabilità dei cristiani), Walter – Verlag 1964, 261.
Hans Urs Von Balthasar
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