Una grande revisione radicale di tutto l'arsenale ecclesiastico è in atto. Avviene in queste circostanze, come quando si nota una macchia di ruggine su un'arma piuttosto antica...
del 01 gennaio 2002
Una grande revisione radicale di tutto l’arsenale ecclesiastico è in atto. Avviene in queste circostanze, come quando si nota una macchia di ruggine su un’arma piuttosto antica; la macchia evidente guida lo sguardo al rilievo di altre più difficilmente visibili, ed ora l’intera arma e l’intera armeria appaiono antiquate, ed infine quasi l’intero edificio viene sgombrato e si progetta il disegno del restauro. Ciò porta molto movimento, e quando c’è molto movimento, c’è in apparenza vita, iniziativa, tendenza ad una meta; il che è già molto in istituzioni note per la loro lentezza. Chi non vede che miglioramento, aggiornamento, essere up-to-date, nel loro complesso sono una lodevole attività; che oggi, nel segno di questo rinnovamento, avviene una quantità di cose buone, anzi molto importanti, consolanti, addirittura indispensabili? E come nelle grandi pulizie di primavera è raro che si incominci senza una certa atmosfera dionisiaca delle donne di servizio e delle donne di casa, si perdonerà ai cristiani di oggi una simile esaltazione dei sentimenti, anche quando la festa – come in molta parte del giovane clero – minaccia di degenerare in veri saturnali, in cui tutto ciò che infrange l’ordine tedioso sembra permesso e comandato, purché sia molto moderno ed aperto.
In occasione di questa ‘distruzione’ creatrice e di questa ‘svolta’ ispirata, non è necessario essere molto acuti per porre la domanda quale sia la copertura aurea di tutta questa moneta cartacea. Una svolta in campo ecclesiastico fu sempre almeno congiunta ad una conversione, e quanto più la conversione raschia a fondo, tanto più deve far male, diversamente è probabile che siano solo parole. Perciò, quanto abbiamo intenzione di pagare per la nostra riforma? Non soltanto con cose di cui poco ci importa – ad esempio prestigio storico -, ma con cose che toccano la carne viva? Oppure pensiamo di potercela cavare ancora una volta con un semplice accomodamento? Di fatto sembra affiorare in tutte queste imprese una falsa prospettiva, per cui l’intera tendenza muove sotto il seguente segno: fuori ad ogni costo da uno splendido isolamento, che alla fine diventa poco piacevole; perciò avvicinamenti, affratellamenti, discese da troni e piedestalli, collegializzazioni, democratizzazioni, facilitazioni, livellamenti verso il basso (non ce ne sono verso l’alto), massima presenza possibile in tutto ciò che appare di oggi, di domani e di posdomani.
Chi vorrebbe negare che con queste discese, con questi abbandoni di altezze passate, in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, si fa e si ricupera semplicemente qualcosa da lungo tempo atteso, da lungo tempo maturo, e che proprio questa direzione è quella evangelica originaria, poiché ‘il maggiore tra voi’ dev’essere come il servo di tutti, perché Cristo ha da sempre proibito chiaramente e rigorosamente tutti i titoli (come ‘maestro’ o ‘padre’, abbé, abbas, papa, ecc.), ed egli stesso, quantunque nostro padrone, si è umiliato a servo di tutti? In quanto, quindi, con queste discese si ricupera alfine qualcosa che è realmente maturo da tempo – con un ritardo quasi incomprensibile -, ci si deve senza dubbio felicitare, quantunque non si possa soffocare la domanda circa i moventi per cui questo frettoloso ricupero avviene.
La Chiesa, si dice, per apparire degna di fede deve anche essere all’altezza dei tempi. Seriamente inteso, ciò significherebbe che Cristo, quando compì la sua missione, che era uno scandalo ed una stoltezza per i giudei ed i pagani, e morl sulla croce, fu all’altezza dei tempi. Veramente queste cose spiacevoli avvennero al momento giusto, nel tempo voluto dal Padre, addirittura nella pienezza dei tempi, esattamente quando Israele fu maturo a schiudersi come un frutto, ed i popoli maturi ad accogliere questo frutto nei loro campi aperti. Ma Cristo non fu mai moderno, e neppure, se Dio vuole, lo sarà mai. Né lui, né i suoi discepoli Paolo e Giovanni, hanno mai pronunziato una parola a favore della modernità politica o gnostica. Di qui la semplicissima conclusione che tutti i nostri movimenti possono avere soltanto come motivo il togliere dal mondo scandali falsi, non cristiani, per far apparire più chiaramente il vero scandalo, insito nel mandato della Chiesa. Tutto questo, quanto sarebbe salutare!
Con ciò avremmo già qualcosa come un criterio base per una possibile discrezione degli spiriti; degli spiriti, cioè, che animano segretamente la moderna tendenza ecclesiastica. E se il cristiano acquistasse almeno la consapevolezza che tutte queste imprese umane, appunto perché a prima vista sono così univoche, hanno urgente bisogno del giudizio cristiano, e sono un’arma a doppio taglio, ambigue e diventano forse pericolose proprio nella misura in cui danno l’illusione di contenere già l’’unica cosa necessaria’ e, rassicurando le coscienze, le esonerano dalla ricordata conversione, si sarebbe già ottenuto il più. Il giudizio né precede né segue le imprese dei cristiani, ma sta nel loro bel mezzo. Le pone continuamente in discussione con la domanda: avvicinano esse a Dio o allontanano da Lui? Hanno Dio dinanzi al proprio sguardo teso nella ricerca, oppure l’hanno alle loro spalle?
Nel caso specifico dei cristiani che operano la riforma, aver Dio dietro le spalle significherebbe aver costantemente conoscenza di Dio, della sua rivelazione, del suo contenuto e portata, della Chiesa, dei cristiani e, forniti di questa conoscenza bell’e fatta, affrontare gli incontri col mondo cristiano, non cristiano, anticristiano. La conoscenza che queste persone portano con sé è sicura e sufficiente, anche se naturalmente solo sommaria, ridotta ad un paio di concetti fondamentali. Ma la riduzione avviene legittimamente in vista del progettato incontro con il mondo moderno, o, come i nostri teologi amano dire con enfasi e con un arguto sorriso (non credo infatti che con ciò essi esprimano una tautologia), con il moderno mondo mondano. Essi hanno quindi conoscenza di Dio e della rivelazione; per loro la domanda è soltanto questa: come dirlo a mio figlio? Essi provengono da Dio ed aspirano al mondo moderno. Hanno Dio dietro le spalle ed il mondo dinanzi a sé. Non contesterebbero che, per essere mandati da Cristo nel mondo, occorre prima essere stati abbastanza a lungo presso Lui. Pensano di averlo fatto. Si trovano nell’azione e suppongono con buona coscienza, dinanzi a sé e dinanzi agli altri, di aver portato a termine la loro contemplazione. E nel caso la coscienza talora ricordasse loro che nella contemplazione non hanno ottenuto un attestato di maturità, o che hanno fatto fiasco alla maturità, la loro coscienza si consola presto con il motto: contemplativus in actione, il che praticamente significa: chi agisce è contemplativo a sufficienza, non c’è maturità maggiore dell’azione.
È questo il motto di moltissimi cristiani moderni – chierici e laici – dei quali si deve temere che abbiano fatto ricorso al termine missione, per mascherare col vangelo la loro fuga da Dio. Con ciò è mostrata l’acutezza della crisi in cui si trova l’odierna tendenza ecclesiastica nel complesso e nei particolari. Questa crisi non significa che essa – in quanto progetto, movimento e risultato – sia da condannare, ma piuttosto che resta continuamente da giudicare mediante un giudizio cristiano, perché nella apparente univocità si nasconde in ogni caso una segreta ambiguità: andare da Dio al mondo può essere autentica missione cristiana, un compito cristiano per il mondo, ma può anche essere fuga dinanzi a Dio, paura dinanzi allo scandalo della croce, tradimento di Cristo. Tutte le cose hanno il loro rovescio, soltanto Cristo non l’ha.
Hans Urs Von Balthasar
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