21. Testa a testa con Cavour

Molti amici, venuti a conoscenza di tutte queste difficoltà, mi consigliavano di sciogliere l'Oratorio. « 1 tuoi sono sforzi inu¬≠tili », dicevano. Altri, vedendomi preoccupato e sempre in mezzo ai ragazzi, cominciarono a insinuare che ero diventato matto.

21. Testa a testa con Cavour

da Don Bosco

del 08 gennaio 2007« Se questo prete fosse generale d'armata... »

Quelle passeggiate accendevano nei giovani un entusiasmo enorme. L'Oratorio, quella mescolanza di preghiera, giochi, pas­seggiate, era ormai la loro vita. Ogni ragazzo era talmente mio amico che non solo obbediva a ogni mio cenno, ma era ansioso di fare qualcosa per me. Un giorno un carabiniere mi vide ri­chiamare al silenzio quattrocento ragazzi con un solo gesto del­la mano, ed esclamò:

- Se questo prete fosse generale d'armata, potrebbe batte­re il più potente esercito del mondo.

Devo riconoscere che l'affetto e l'obbedienza dei miei ra­gazzi toccava vertici incredibili. Ma questo rafforzò la voce che don Bosco, coi suoi giovani, poteva da un momento all'altro dare inizio a una rivoluzione.

Il Marchese capo della polizia perde la pazienza

Era un voce ridicola, eppure trovò credito presso le autori­tà. In modo particolare destò i sospetti del marchese Michele di Cavour, padre dei celebri Camillo e Gustavo, Vicario della città e quindi capo della polizia. Mi convocò nel Palazzo Muni­cipale, mi fece una breve relazione sulle voci che circolavano sul mio conto, e concluse:

- Lei è un bravo prete. Accetti il mio consiglio: rimandi a casa loro quei mascalzoni. Possono dare soltanto dei dispia­ceri a lei e alle autorità pubbliche. Ho le prove che le riunioni di questi giovani sono pericolose, e perciò non posso permetterle. - Signor Marchese - risposi, - io tento soltanto di mi­gliorare la vita di questi poveri figli del popolo. Non cerco aiuti finanziari. Cerco solo un luogo dove radunarli. Con la mia at­tività rendo minore il numero di quelli che finiscono in prigione. - Si sbaglia, reverendo. Le sue fatiche sono inutili. Io non posso darvi una sede perché, lo ripeto, le vostre riunioni sono pericolose. E senza il mio aiuto non troverete più i mezzi per pagare fitti e spese. Vi ripeto: non posso più permettere le riu­nioni di questi vagabondi.

- Lei dice che le mie fatiche sono vane. Ma i risultati che ho ottenuto dicono il contrario. Molti giovani erano completa­mente abbandonati. Li ho raccolti, li ho tirati fuori da strade cattive, li ho avviati a una professione onesta. Non sono più finiti in carcere, come era già loro capitato. Quanto ai mezzi finanziari, non mi sono mai mancati: sono nelle mani di Dio, che a volte si serve di strumenti di scarso valore per realizzare i suoi disegni più grandi.

- Abbia pazienza e mi obbedisca. Io non posso pi√π dare il mio permesso alle vostre riunioni.

- Lei non lo nega a me, Marchese, ma a questi giovani ab­bandonati. Così facendo, lei li spinge su una strada pericolosa. - Stia zitto. Non l'ho chiamata qui per discutere. Lei crea disordini che io devo e voglio stroncare. Non sa che è vietata ogni riunione pubblica se non è munita di regolare permesso? - Ma le mie riunioni non hanno scopo politico. Io insegno catechismo a dei poveri ragazzi, e lo faccio con il permesso del­l'Arcivescovo.

- L'Arcivescovo è a conoscenza della sua attività?

- Certamente. Non ho mai fatto un passo senza il suo per­messo.

- Io però non posso permettere queste riunioni.

- Signor Marchese, non vorrà mica proibirmi di far cate­chismo con il permesso dell'Arcivescovo?

- Se l'Arcivescovo le ordinerà di troncare questo ridicolo Oratorio obbedirà?

- Ho cominciato e sono andato avanti incoraggiato dal mio Superiore Ecclesiastico. Qualunque ordine vorrà darmi, mi tro­verà pronto.

- Allora vada. Parlerò io con l'Arcivescovo. Ma se non ob­bedirà nemmeno a lui, mi costringerà a usare mezzi più severi. Se lo ricordi.

A questo punto credevo di essere lasciato in pace almeno per qualche tempo. Invece, appena tornato a casa, trovai una lettera dei fratelli Filippi che mi licenziavano in tronco. Rimasi avvilito.

« I suoi ragazzi stanno facendo del nostro prato un deserto - scrivevano. - Anche le radici dell'erba sono consumate dal calpestio continuo. Le condoniamo volentieri il fitto scaduto, ma entro quindici giorni deve lasciar libero il prato. Non pos­siamo concedere dilazioni».

Molti amici, venuti a conoscenza di tutte queste difficoltà, mi consigliavano di sciogliere l'Oratorio. « 1 tuoi sono sforzi inu­tili », dicevano. Altri, vedendomi preoccupato e sempre in mezzo ai ragazzi, cominciarono a insinuare che ero diventato matto.

« Povero don Bosco, è proprio andato »

Un giorno, mentre erano presenti don Sebastiano Pacchiot­ti e altri preti, don Borel in camera mia disse:

- Qui, se non salviamo qualcosa, corriamo il rischio di per­dere tutto. Sciogliamo l'Oratorio e teniamo con noi solo una ventina dei ragazzi più piccoli. Nessuno si preoccuperà se con­tinuiamo a far catechismo a un gruppetto di bambini. E intan­to Dio ci indicherà la strada più opportuna per andare avanti. - Non sciogliamo niente - risposi. - Abbiamo già una sede: un cortile ampio e spazioso, una casa pronta per molti ragazzi, con chiesa e porticati. E ci sono preti e chierici pronti a lavorare per noi.

- Ma dove sono queste cose? - mi interruppe don Borel. - Non lo so. Ma so che esistono e sono a nostra disposizione. Allora don Borel scoppiò a piangere. Esclamò:

- Povero don Bosco, è proprio andato.

Mi prese per mano, mi baciò, e se ne andò con don Pic­chiotti e gli altri. Rimasi solo nella mia stanza.

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