22. Dopo il marchese, la marchesa

La voce che don Bosco era diventato matto, intanto, si dif¬≠fondeva sempre più. I miei amici soffrivano. Gli altri rideva¬≠no. Tutti stavano lontani da me. L'Arcivescovo non interveni¬≠va. Don Cafasso consigliava di aspettare. Don Borel taceva. Tutti i miei collaboratori mi lasciavano solo in mezzo a quattrocento ragazzi.

22. Dopo il marchese, la marchesa

da Don Bosco

del 08 gennaio 2007« Non posso permettere che lei si ammazzi »

Le tante voci che correvano su don Bosco cominciarono a turbare la marchesa Barolo. Il fatto che pi√π la inquietava era che il Municipio di Torino disapprovava i miei progetti.

Un giorno, entrata nella mia camera, cominciò a parlarmi cosi:

- Sono molto contenta di ciò che sta facendo per le mie opere. La ringrazio di essersi molto impegnata per insegnare alle ragazze la musica, i canti sacri, il canto gregoriano, l'aritmeti­ca e persino il sistema metrico decimale.

- Non deve ringraziarmi. I preti devono lavorare perché è un loro preciso dovere. Penserà Dio a pagare tutto. Non par­liamone più.

- Devo dirle anche altro. Sono addolorata perché l'enor­mità del suo lavoro sta rovinando la sua salute. Non è possibile che lei diriga le mie opere e contemporaneamente si dedichi ai ragazzi abbandonati. Ora poi il numero di questi ragazzi è cre­sciuto in maniera spropositata. Io le propongo di fare soltanto ciò che è suo stretto dovere: dirigere l'Ospedaletto. La smetta di andare nelle carceri, al Cottolengo. E soprattutto, per un po' di tempo non pensi più ai ragazzi. Cosa mi risponde?

- Signora Marchesa, finora Dio mi ha aiutato, e credo che continuerà a farlo. Non si preoccupi per le tante cose che ci so­no da fare. Tra me, don Pacchiotti e don Borel faremo tutto.

- Ma io non posso permettere che lei si ammazzi. Che lo voglia o non lo voglia, i troppi impegni recano danno alla sua

salute e alle mie opere. E poi è ora che prenda coscienza delle voci che corrono sulla sua salute mentale, dell'opposizione del­le autorità nei riguardi del suo Oratorio. Tutti elementi che mi costringono a farle una proposta precisa.

- Quale, signora Marchesa?

- Lei deve scegliere: o l'Oratorio o il Rifugio. Ci pensi con calma poi mi risponderà.

- La mia risposta è pronta da molto tempo. Lei ha dena­ro, e può trovare molti preti da mettere al mio posto. I miei ragazzi, invece, non hanno nessuno. Se li abbandono, per loro

è finita. Accetto quindi il suo licenziamento, anche se vorrei con­tinuare a fare ciò che posso per il Rifugio. Mi dedicherò a tem­po pieno ai ragazzi abbandonati.

- Ma senza stipendio come farà a vivere?

- Dio mi ha sempre aiutato e mi aiuterà ancora.

« Le do un consiglio come se fossi sua madre »

- Ma lei ha la salute rovinata, è esaurito. Se va via di qui finirà ingolfato nei debiti. Allora tornerà da me. Ma io fin d'o­ra le dico chiaro e netto che per i suoi ragazzi non le darò un soldo. Accetti un consiglio che le do come se fossi sua madre. Io continuerò ad assegnarle il suo stipendio, l'aumenterò se vuo­le. Lei prende questo denaro e se ne va. Dove vuole, in riposo assoluto. Per uno, tre, cinque anni se occorre. Quando sarà pie­namente ristabilito tornerà qui al Rifugio, e io le darò il ben­tornato. Se rifiuta questo consiglio, per il suo bene, sarò co­stretta a licenziarlo. Ci pensi bene.

- Le ripeto che ci ho già pensato, signora Marchesa. La mia vita è consacrata al bene della gioventù. La ringrazio delle offerte generose che mi fa, ma non posso lasciare la strada che la divina Provvidenza mi ha tracciato.

- Concludendo, lei preferisce i suoi vagabondi alle mie ope­re. Se è così oggi stesso la farò sostituire.

Le feci notare che un licenziamento così improvviso avreb­be potuto far sospettare motivi disonorevoli per me e per lei. Era meglio agire con calma, conservare quella carità di cui do­vremo un giorno rendere conto al tribunale di Dio.

- Va bene - concluse. - Fra tre mesi, se non avrà cam­biato parere, le troverò un sostituto come direttore dell'Ospe­daletto.

Accettai, abbandonandomi nelle mani di Dio.

La voce che don Bosco era diventato matto, intanto, si dif­fondeva sempre più. I miei amici soffrivano. Gli altri rideva­no. Tutti stavano lontani da me. L'Arcivescovo non interveni­va. Don Cafasso consigliava di aspettare. Don Borel taceva. Tutti i miei collaboratori mi lasciavano solo in mezzo a quattrocento ragazzi.

 

Non uno, ma due preti in manicomio

Alcune persone ragguardevoli decisero, in quei frangenti, di prendersi cura della mia salute. Una di esse propose:

- Don Bosco ha delle fissazioni. Se non affronta una buo­na cura lo condurranno inevitabilmente alla pazzia. Conducia­molo al manicomio. Là, coi dovuti riguardi, i medici faranno ciò che la medicina prescrive.

Due preti furono incaricati di venirmi a prendere con una carrozza e di condurmi al manicomio. Arrivarono, mi saluta­rono con cortesia. Poi mi domandarono notizie sulla salute, sul­

l'Oratorio, sulla grande casa e la chiesa che io prevedevo come futura sede della mia opera. Alla fine sospirarono profonda­mente, e mormorarono:

- E’ proprio vero.

Mi indicarono la carrozza e mi invitarono a fare una pas­seggiata con loro. Dissero:

- Un po' d'aria ti farà bene. Avremo tempo di chiacchie­rare un po' insieme.

Mi accorsi subito dello « scherzo » che mi volevano fare, e senza far finta di niente li accompagnai alla carrozza. Insistetti perché entrassero essi per primi. Quando furono dentro, inve­ce di seguirli, chiusi velocemente lo sportello, e dissi al cocchiere: - Al manicomio, presto! Questi due preti vi sono aspet­tati.

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