Nel 1848 le nazioni europee saltarono come depositi di munizioni.
Le fiamme della rivoluzione si estesero soprattutto alle città: Parigi (23-24 febbraio), Vienna (13 marzo), Berlino (15 marzo), Budapest (15 marzo), Venezia (17 marzo), Milano (18 marzo).
Alle barricate cittadine tennero dietro guerre e battaglie. In un paio di mesi tutta l'Europa fu in fiamme.
Ci fu un'esplosione così generale, che il 3 aprile lo zar Nicola di Russia si chiedeva allibito: “Che cosa rimane ancora in piedi in Europa?”. E qualunque caotico rimescolamento di cose, nel linguaggio comune, verrà da allora chiamato “un quarantotto”.
Come al solito, non intendiamo tracciare un quadro completo della storia italiana ed europea, ma accennare agli avvenimenti essenziali che ebbero profonda influenza sulla vicenda di don Bosco, specialmente agli avvenimenti di Torino e del Piemonte, che condizionarono il suo atteggiamento e le sue scelte.
Sulle barricate il liberale, il patriota, l'operaio.
Non si può comprendere il movimento tellurico del 1848 se non si tengono presenti tre elementi principali che si intrecciarono: le correnti liberali che si battevano per instaurare sistemi costituzionali e rappresentativi al posto dell'assolutismo; l'aspirazione delle singole nazioni all'indipendenza, contro l'impero austriaco; i movimenti operai che si battevano per una maggiore giustizia sociale.
A dirla in maniera semplice: sulle barricate delle varie città europee combattevano fianco a fianco il liberale che voleva la Costituzione, il patriota che esigeva l'indipendenza della sua patria dallo straniero, l'operaio che si batteva contro il padrone che lo faceva lavorare 12-14 ore al giorno.
Il movimento operaio si batté specialmente a Parigi. Con le barricate del 24 febbraio nei quartieri dell'est diede il via al 48. Ottenne una vittoria fulminea. Abbattuta la monarchia di Luigi Filippo, si videro borghesi e operai fraternizzare attorno agli alberi della libertà benedetti dai preti. Fu proclamato il diritto al lavoro, la giornata lavorativa ridotta a 10 ore, si aprirono le “fabbriche sociali”.
Ma quattro mesi dopo (in seguito a gravi errori degli operai e all'intolleranza della borghesia) ci fu una repressione altrettanto fulminea. Parigi, in cui si erano coagulati 140.000 operai, fu presa d'assalto dal generale Cavaignac in quattro giorni di lotta furibonda (23-26 giugno). Repressione terribile, giornata lavorativa riportata a 12 ore.
Sarà questa repressione a indurre gli operai ad abbandonare i “socialismi umanitari” e ad abbracciare il “marxismo”, più duro, più spietato (Marx ha scritto il Manifesto dei comunisti nel gennaio di quest'anno).
In Italia il movimento operaio ha combattenti solo sulle barricate di Milano. Tutto il '48 italiano è invece dominato dai liberali che esigono dai re assoluti la Costituzione, e dai patrioti che predicano la guerra d'indipendenza contro l'Austria. L'Austria occupa territorialmente la Lombardia e il Veneto, e tiene sotto pesante tutela tutti gli altri stati.
Le fasi del 1848 italiano sono tre: le Costituzioni, le insurrezioni popolari contro l'Austria, la prima guerra d'indipendenza guidata da Carlo Alberto.
La Costituzione si chiamerà “Statuto”
A Torino, il 1848 comincia con il pensiero alla guerra, che si sente vicina. Tutti parlano di politica: critiche, progetti, proclami. La grande novità sono i “liberi” giornali politici, che si moltiplicano di mese in mese in conseguenza della libertà di stampa, ed esercitano un'importante funzione di guida sull'opinione pubblica.
Giovane direttore del Risorgimento (uscito il 15 dicembre 1847) è Camillo Benso di Cavour, punta vivace dei liberali. Il 1° gennaio esce La Concordia, della sinistra democratica e populista, diretto da Valerio. Il 26 gennaio inizia le pubblicazioni l'Opinione di Durando, in giugno uscirà l'irruente e sbracata Gazzetta del Popolo di Botero, in luglio il Conciliatore diretto dal canonico Gastaldi, futuro arcivescovo di Torino, e l'Armonia di Gustavo Cavour, fratello di Camillo, di netta ispirazione cattolica.
30 gennaio. Sono giunte notizie che a Napoli re Ferdinando ha concesso la Costituzione, e che a Milano i cittadini stanno boicottando gli Austriaci. Il “Corpo Decurionale” di Torino si reca da Carlo Alberto e gli chiede la Costituzione.
Dopo giornate angosciose, Carlo Alberto pensa di abdicare. Non si sente di infrangere il giuramento fatto 25 anni prima a Carlo Felice. Ma il principe ereditario Vittorio Emanuele è vivamente contrario: il padre, che finora non gli ha lasciato mettere nemmeno un dito negli affari di stato, non può lasciarlo solo in piena burrasca.
7 febbraio. Carlo Alberto riunisce il Consiglio straordinario della Corona, e si dichiara disposto a esaminare uno schema di Costituzione (chiamata “Statuto”) in cui sia rispettata la religione e l'onore della monarchia. Ma invita i Decurioni a tenere le piazze libere dalla folla: non ammetterà imposizioni.
10 febbraio. Pio IX, a Roma, invia un proclama al popolo che è in piena effervescenza.
Invita tutti a “non chiedere riforme che egli non potrebbe concedere”, e conclude: “Benedite, gran Dio, l'Italia, e conservatele il dono preziosissimo della fede”. I capi dell'opinione pubblica, decisi ormai a fare di Pio IX uno strumento per la guerra contro l'Austria, dimenticano “le riforme non possibili” e “il dono della fede”, e rilanciano in tutta Italia solo le parole “Benedite, gran Dio, l'Italia”.
Questa invocazione diventa la bandiera liberale e lo squillo di guerra. Pio IX, che tenta invano di chiarire l'equivoco, ci rimane male. È forse a questo punto che don Bosco comincia a dubitare del movimento neoguelfo e a prendere le distanze dai liberali.
Nei giorni seguenti giungono a Torino le notizie della Costituzione concessa a Firenze (17 febbraio) e dello scoppio della rivoluzione a Parigi (23 febbraio).
Per il giorno 27 si decide di organizzare una grande “festa di ringraziamento per la promessa dello Statuto”. La vastissima piazza Vittorio sarà affollata di delegazioni fatte affluire da ogni parte del Piemonte, Liguria, Sardegna, Savoia. Tutte le organizzazioni di Torino sono sollecitate ad intervenire in massa. Lo stesso marchese Roberto D'Azeglio scende a Valdocco, a invitare don Bosco con tutti i suoi ragazzi.
Testa a testa don Bosco e il marchese
Nelle Memorie scritte di suo pugno, don Bosco ricostruisce il dialogo con il marchese. Con ogni probabilità, quelle non sono le battute esatte (fu scritto a 25 anni di distanza). Ma crediamo sia un dialogo estremamente importante, perché don Bosco (che ci riflette sopra a tanti anni di distanza) ci fa capire quale fu fin da quel tempo il suo atteggiamento verso la politica. Lo riportiamo perciò in tutte le parti essenziali.
“Un posto stava preparato per noi in piazza Vittorio, accanto a tutti gli istituti di qualsiasi nome, scopo e condizione. Che fare? Rifiutare era un dichiararmi nemico dell'Italia; accondiscendere, valeva l'accettazione di principi che io giudicavo di funeste conseguenze.
- Sappia la città (diceva il d'Azeglio) che la vostra opera non è contraria alle moderne istituzioni. Ciò vi farà del bene: aumenteranno le offerte; il Municipio, io stesso largheggeremo in vostro favore.
- Signor marchese, è mio fermo sistema tenermi estraneo a ogni cosa che si riferisca alla politica. Non mai prò, non mai contro.
- Che cosa dunque volete fare?
- Fare quel po' di bene che posso ai giovanetti abbandonati, adoperando tutte le forze perché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, e onesti cittadini in mezzo alla civile società.
- Voi vi sbagliate. Se persisterete in questo principio, sarete abbandonato da tutti”. Don Bosco è convinto esattamente del contrario: sarebbe stato abbandonato se si fosse messo dentro la politica, specialmente se avesse mostrato di condividere gli atteggiamenti liberali. E continua, quasi cocciuto:
“Invitatemi a qualche cosa dove il prete eserciti la carità, e voi mi vedrete pronto a sacrificare vita e sostanze. Ma io voglio essere ora e sempre estraneo alla politica”.
Le bande anticlericali si scatenano
Il corteo verso piazza Vittorio fu imponente: 50.000 persone sfilarono per le vie davanti al re a cavallo. L'arcivescovo si era rifiutato di celebrare la Messa e di cantare il “Te Deum” nella chiesa della Gran Madre che campeggia su piazza Vittorio. Permise solo che si desse la benedizione eucaristica.
I chierici del seminario, contro l'arcivescovo, sfilarono nel corteo con la coccarda tricolore. Subito dopo, come risposta, il seminario venne chiuso.
Queste decisioni sono forse la goccia che fa traboccare il vaso dell'anticlericalismo.
La sera del 2 marzo, squadre di teppisti prendono d'assalto le case dei Gesuiti presso la chiesa dei Martiri e del Carmine. Fracassano vetri e sfondano porte.
Il giorno dopo, gli stessi manipoli circondano minacciosamente la casa delle suore chiamate “Dame del Sacro Cuore”. Quasi ininterrottamente rinnovano l'assedio per sette giorni, sempre allontanati dalle guardie.
Nei giorni immediatamente seguenti, Gesuiti e Dame lasciano la città.
Le squadre anticlericali continuano le chiassate. Sotto le finestre del Convitto urlano: “Morte a don Guala!”. Si tenta di prendere d'assalto il palazzo della marchesa di Barolo perché si è diffusa la voce che ospita quindici Gesuiti.
4 marzo. Davanti al Consiglio della Corona, Carlo Alberto firma lo Statuto. Cessa il potere assoluto del re. Comincia il regime parlamentare.
Paradossalmente, Torino non risponde con manifestazioni di entusiasmo. Continuano e si moltiplicano, invece, tumulti rabbiosi contro l'arcivescovo, i preti e i sostenitori dell'assolutismo.
8 marzo. Per riportare ordine in città, si organizza la Guardia Nazionale. Le iscrizioni sono aperte in piazza San Carlo: in poche ore si iscrivono 500 cittadini.
Milano insorge e sollecita aiuti
Nei giorni seguenti esplodono notizie enormi. Vienna è insorta e l'imperatore ha licenziato Metternich (13 marzo). Pio IX ha concesso la Costituzione (14 marzo). Rivoluzioni a Berlino e Budapest (15 marzo). Poi le due più fragorose: Venezia è insorta contro gli Austriaci (17 marzo), Milano ha iniziato la rivolta contro le truppe austriache di Radetzky (18 marzo).
Cesare Balbo (l'autore delle Speranze d'Italia) è nominato da Carlo Alberto primo Ministro. Parte per Roma, come rappresentante del Piemonte presso il Papa, l'abate Antonio Rosmini.
Il 19 marzo giunge da Milano il conte Arese, che porta notizie e proposte. Nel “comitato centrale” della rivoluzione c'è una forte corrente repubblicana contraria a Carlo Alberto, ma è prevalsa la corrente di Gabrio Casati, amico del Piemonte. Egli manda a sollecitare l'aiuto militare di Carlo Alberto.
Il Consiglio dei ministri, con il re, esamina la situazione. Che fare? Viene deciso innanzitutto di inviare truppe sulla frontiera per proteggerla da eventuali infiltrazioni austriache. Una brigata della Guardia del Re parte per il Ticino.
A Milano, intanto, si continua a combattere. Il giorno 20, il generale Radetsky, comandante in capo delle truppe imperiali, propone un armistizio. Viene rifiutato. Il giorno 22 Porta Tosa è conquistata dagli uomini di Luciano Manara. Gli austriaci abbandonano Milano.
Anche a Venezia gli Austriaci sono stati scacciati. Daniele Manin, liberato dal carcere, è acclamato presidente della Repubblica di San Marco.
La folla per le strade di Torino grida: “Guerra! Guerra!”.
23 marzo. Arrivano in serata i rappresentanti di Milano vittoriosa. Chiedono un intervento immediato dell'esercito, prima che gli Austriaci tornino all'assalto della città. Pongono due condizioni: l'adozione del “tricolore italiano” al posto della bandiera azzurra dei Savoia, e il rinvio dell'entrata dell'esercito piemontese in Milano a vittoria conseguita.
Guerra all'Austria
Il Consiglio dei ministri decide l'intervento. Carlo Alberto accetta. La guerra all'Austria viene dichiarata. Il re appare alla loggia del Palazzo Reale su Piazza Castello, e agitando il tricolore saluta la folla che grida: “Guerra all'Austria!”.
A un amico, quella notte, Carlo Alberto confida: “Se non si proclamava la guerra, perdevo lo Stato, era la rivoluzione. Ora che è proclamata, se non vinciamo rischio il trono. Ma a questo sono preparato”.
Il generale Passalacqua riceve l'ordine di varcare il Ticino inalberando il tricolore con lo scudo dei Savoia in campo bianco.
24 marzo. In duomo, l'arcivescovo presiede una funzione solenne, presenti il re e il principe ereditario. All'uscita, mons. Fransoni è fischiato e insultato.
Nella notte, Carlo Alberto con il figlio parte per il fronte alla testa di 60.000 uomini. Una folla immensa si accalca in via Po e in piazza Vittorio per salutarlo. Sembra una festa bella, imponente.
Ma la guerra è un'altra cosa. Nei giorni seguenti lasciano Torino tutti i reggimenti. Sono requisiti tutti i cavalli per l'artiglieria e i carriaggi. La città, senza carrozze, è immersa in un silenzio strano, percorso da un filo di paura.
Alla sera, sotto le finestre dell'arcivescovo, si rinnovano i tumulti. Il ministro degli Interni gli fa sapere che sarebbe gradita una sua “assenza dalla città” per qualche tempo. Il 29 marzo mons. Fransoni parte per la Svizzera.
Il Vicario generale, che lo sostituisce, indice pubbliche preghiere per i combattenti. Raccomanda ai parroci di aiutare le famiglie dei richiamati alle armi. Autorizza i contadini a lavorare la domenica i campi dei compaesani partiti per la guerra.
Le autorità politiche procedono a “provvedimenti dolorosi ma necessari”. I maggiori funzionari dello Stato che vengono considerati “reazionari” (fino a pochi mesi fa erano i “fedelissimi” del re!) vengono allontanati dalle cariche pubbliche. Persino il governatore di Torino, maresciallo La Tour, viene congedato.
Battaglie vere e battaglie finte a Valdocco
Anche i ragazzi respirano la guerra. Nei prati attorno a Valdocco si accendono vere battaglie tra le “cocche” di Vanchiglia, di Borgo Dora, di Porta Susa. Non sono feste. Ragazzotti armati di bastoni, coltelli, pietre, se le danno di santa ragione. Don Bosco esce sovente di casa per chiamare i carabinieri, e gettarsi con loro tra quegli scalmanati.
Un giorno, a poca distanza da lui, vede un quindicenne affondare il coltello nel ventre di un altro ragazzo. Lo portano d'urgenza all'ospedale. Muore mentre borbotta: “Me la pagherai!”.
Don Bosco ricorda con amarezza: “Quelle sfide non finivano mai”. Qualche volta le due bande si uniscono nello scagliare pietre contro la casa del prete, e i sassi grandinano sulle tegole e nelle finestre, facendo tremare di paura Giuseppe Buzzetti e gli altri giovani ospiti.
Per attirare i ragazzi all'oratorio, don Bosco sfruttò questo clima di guerra inventando un gioco nuovo. Un suo amico, Giuseppe Brosio, era stato bersagliere. Venendo a Valdocco indossava la divisa militare, che in quei mesi suscitava entusiasmo e rispetto. Don Bosco gli suggerì di formare tra i ragazzi un reggimento in miniatura, insegnare manovre e azioni di battaglia.
Brosio accettò. Ottenne dal governo duecento fucili di vecchio tipo, con la canna sostituita da un bastone. Portò la tromba e cominciò le esercitazioni. Marce, contromarce, cariche alla baionetta, ritirate, assalti. Il “reggimento” dava spettacoli applauditissimi, e prestava servizio d'ordine anche in chiesa.
Nel pomeriggio di una domenica, mentre molta gente attirata dagli squilli della tromba assisteva entusiasta alle manovre, in un contrassalto avvenne il disastro. L'esercito “sconfitto”, in piena rotta, finì nell'orto di Margherita, e incalzato dai vincitori imbaldanziti pestò lattughe, prezzemoli e pomodori.
La “mamma”, che assisteva al disastro, ne fu molto avvilita.
- Varda, varda Giòanin lo ca l’an fait - mormorò al figlio lì accanto -, a Pan guastarne tilt (Guarda, guarda Giovanni cosa mi hanno fatto, mi hanno guastato tutto).
“Lasciami tornare a casa”.
Fu probabilmente la sera dopo che Margherita non se la sentì più. I ragazzi erano andati a dormire, e lei come al solito aveva davanti un mucchietto di roba da aggiustare: le lasciavano in fondo al letto la camicia strappata, i calzoni sdrusciti, le calze con i buchi. E lei doveva affrettarsi accanto al lume ad olio, perché al mattino non avevano altro da indossare. Don Bosco, lì vicino, la aiutava mettendo le toppe ai gomiti delle giacchette e aggiustando le scarpe.
- Giovanni - mormorò a un tratto -, sono stanca. Lasciami tornare ai Becchi. Lavoro dal mattino alla sera, sono una povera vecchia, e quei ragazzacci mi rovinano sempre tutto. Non ce la faccio proprio più.
Don Bosco non contò una barzelletta “per tirarla su”. Non disse nemmeno una parola: non ce n'era nessuna capace di consolare quella povera donna. Fece solo un gesto: le indicò il Crocifisso appeso alla parete. E quella vecchia contadina capì. Chinò la testa sulle calze con i buchi, sulle camicie strappate, e continuò a cucire.
Non domandò mai più di tornare a casa. Consumerà i suoi ultimi anni tra quei ragazzi fracassoni, maleducati, ma che avevano bisogno di una mamma. Alzerà soltanto qualche volta di più gli occhi al Crocifisso, per prenderne forza, povera vecchia stanca.
Guerra italiana in Lombardia
26 marzo. Dalle notizie che arrivano sembra che stiano fulmineamente realizzandosi i sogni neoguelfi. Ad appoggiare l'esercito di Carlo Alberto “per la liberazione dell'Italia”, dagli Stati Pontifici partono 17.000 soldati con il generale Durando, dalla Toscana 7.000 volontari con il Montanelli, Parma e Modena con plebisciti dichiarano di volersi unire al Piemonte.
6 aprile. Trascinato lui pure dall'entusiasmo collettivo, Ferdinando di Napoli dichiara guerra all'Austria, e affida un corpo di spedizione di 16.000 uomini al generale Guglielmo Pepe. La guerra che si combatte in Lombardia è “guerra italiana”.
Notizie liete arrivano a Torino. L'esercito vince le sue prime battaglie a Mozambano e Goito (8-9 aprile), Garibaldi è partito dall'America con la sua “Legione italiana” (15 aprile).
Il 27 aprile si tengono in Piemonte le prime elezioni politiche per eleggere 204 deputati. Gioberti è eletto a Torino, Cavour è bocciato.
30 aprile. Gioberti arriva dall'esilio accolto in trionfo. Si crede l'uomo della Provvidenza. La Camera del deputati prende sede nel salone da ballo di Palazzo Carignano, il Senato nella grande sala degli Svizzeri di Palazzo Madama. Gioberti è acclamato presidente della Camera.
La “sinistra democratica” è capeggiata dai demagoghi Valerio e Brofferio, e da Urbano Rattazzi. Inizia attaccando Carlo Alberto, chiamandolo “traditore”. Chiede la revisione dei processi del 21 e del 31. I giornali della sinistra sono violenti. Atteggiamenti almeno inopportuni in piena guerra.
La Corte è spaventata, la regina Adelaide (figlia di un arciduca austriaco) brucia la corrispondenza privata. Carlo Alberto, al campo, è irritatissimo.
Ma sugli entusiasmi e sulle irritazioni degli italiani, sta arrivando una doccia gelata.
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