Il 27 aprile è arrivato a Roma il conte Rignon, inviato di Carlo Alberto. Chiede a Pio IX appoggio materiale e morale alla guerra. Il Papa gli risponde che quello materiale l'ha già dato, inviando Durando e 17.000 soldati sul Po. Quanto a quello morale, ci deve pensare: “Se potessi ancora firmare Mastai, prenderei la penna e in pochi minuti sarebbe fatta, perché anch'io sono italiano. Ma debbo firmare Pio IX, e il capo della Chiesa deve essere ministro di pace, e non di guerra”.
Ci pensa due giorni. Due giorni che sono stati passati al microscopio dagli storici, senza molti risultati. Pare che durante quelle 48 ore rapporti dall'Austria e dalla Germania abbiano segnalato masse cattoliche in rivolta contro la Santa Sede, e il pericolo di uno scisma.
La fine dell'equivoco.
29 aprile. In un discorso ai Cardinali, Pio IX dichiara che le sue riforme sono state provocate non da intenzioni “liberali”, ma da sentimenti umani e cristiani. Il proposito di una “guerra contro i Germani” lo turba profondamente. Egli chiede a Dio non guerra ma concordia e pace. Dichiara pure che non potrà diventare “il presidente di una certa nuova repubblica da costituirsi con tutti i popoli d'Italia”.
Con queste parole il Papa pone fine all'equivoco, spintosi fin troppo in là per i clamori liberali che l'hanno strumentalizzato e anche per alcune sue incertezze. Sebbene rifiuti solo la presidenza di una “repubblica” e non di una “federazione di monarchie”, le sue parole sono un colpo mortale al sogno neoguelfo.
Subito dopo, Pio IX invia una lettera all'Imperatore d'Austria. Chiede che alle terre italiane sia permesso di riunirsi pacificamente in un'unica nazione. È una mossa coerente con la sua volontà pacifica, ma pecca di ingenuità. Non serve a niente.
Come fulminea è stata la fiammata, fulmineo è il capovolgimento della situazione. Gravi scompigli si verificano sul teatro della guerra e in varie capitali italiane. Leopoldo di Toscana e Ferdinando di Napoli richiamano le loro truppe. Il re di Napoli va più in là: con un colpo di stato che provoca tragici scontri tra dimostranti e forza pubblica, scioglie il Parlamento (15 maggio).
Forze napoletane al comando di Pepe, e papali al comando di Durando, restano con Carlo Alberto come truppe volontarie, affiancate dagli universitari toscani.
Il 30 maggio è l'ultima giornata radiosa per Torino. Arriva la bella notizia della vittoria di Goito e della resa di Peschiera. Le strade si imbandierano, le finestre s'illuminano. Si grida: “Viva Carlo Alberto re d'Italia!”.
Subito dopo cominciano i giorni amari. Radetzky espugna Vicenza, occupa Padova, Treviso e Mestre.
La guerra comincia a pesare sulla vita di Torino. Gli affari ristagnano, non c'è denaro in circolazione, molti negozi sono chiusi, numerosi i disoccupati. Si verificano scioperi di calzolai e sarti, proteste per i salari troppo bassi.
A tutto questo si unisce la voce allarmante che la capitale verrà trasferita a Milano. Una Torino senza Corte, senza uffici amministrativi, vuol dire una città semi-disoccupata. Anche i proprietari di case, che hanno costruito a più non posso negli ultimi anni e sono complessivamente gravati di un'ipoteca di 637 milioni, sono alla paura.
Gavettino e rancio all'oratorio.
In questo clima di povertà diffusa, anche all'oratorio di Valdocco si tira cinghia. Quando i piccoli lavoratori che vivono con don Bosco tornano a mezzogiorno, si presentano in cucina con il gavettino a ritirare “il rancio”. La pentola che bolle sul fuoco contiene riso e patate, pasta e fagioli, o un intruglio “nutriente” consigliato per il tempo di guerra: castagne secche fatte bollire con farina di polenta.
La minestra la distribuisce don Bosco, che la condisce con parole scherzose: “Fa' onore al cuoco”, “Mangiane molta che devi crescere”, “Ti vorrei dare un pezzo di carne, ma non ne ho. Se però un giorno troviamo una mucca senza padrone, facciamo festa grande”.
La frutta è spesso una mela. Non una mela ciascuno, ma “una” di numero. Don Bosco la butta in aria con allegria, e chi la piglia la piglia.
Il bar, per tutti, è la pompa che “butta acqua abbondante, freschissima e salubre”. Sulla tavola, mentre mangiano, sale schiamazzando qualche gallina di mamma Margherita, a beccare la sua parte di briciole.
Il pane “non lo passa il convento”. Don Bosco dà a ciascuno, ogni sera, 25 centesimi perché se lo comprino. Motivo: i gusti e la salute sono diversi. Chi ha stomaco buono e gusti facili, compra galletta da soldato: glie ne viene una quantità notevole. Altri preferiscono pane normale, pasta dura o pasta molle.
Dopo pranzo (e dopo cena che è una copia-carbone del pranzo), ognuno lava il suo gavettino, e si mette in tasca il cucchiaio.
Chi ha appetito gagliardo, prima di pranzo va a raccogliere nell'orto di mamma Margherita un po' di lattuga, e con l'olio e l'aceto comprato con i suoi risparmi, si fa l'insalata. Tempi duri. Ogni ragazzo tira sul centesimo per risparmiare qualcosa. L'arte di arrangiarsi è molto diffusa. Un ragazzo arriva a vendere il suo pagliericcio per quaranta centesimi (ma don Bosco lo blocca in tempo). Per risparmiare anche i centesimi del parrucchiere, è mamma Margherita che taglia i capelli ai ragazzi. “Il taglio fatto con le forbici mi lasciò con parecchi scalini - ricordava il dottor Federico Cigna -. Me ne lamentai, e la santa donna rispose: " Questi scalini ti faranno andare in Paradiso".
Non avere da sfamare per bene i propri ragazzi (anche se si cercano parole allegre) è una grossa pena. Eppure per don Bosco non fu la pena più grossa in quei mesi.
La fedeltà al Papa e i suoi guai.
Dopo il discorso di Pio IX “non dovettero mancare momenti di tensione grave tra i preti di prima linea nell'opera della gioventù: don Cocchi e don Ponte da una parte, don Bosco dall'altra - scrive Pietro Stella -. Ma in tutti doveva esserci vivo senso del momento delicato che attraversava la Chiesa torinese. In quel momento specialmente, i preti patrioti sentirono imprescindibile per il successo della religione, seguire il " popolo " nelle sue aspirazioni unitarie”.
Don Bosco invece giudicò indispensabile, prima di tutto, la fedeltà al Papa. (Ai ragazzi che fino allora avevano gridato: “Viva Pio IX!”, disse di gridare: “Viva il Papa!”). E si rafforzò nei forti dubbi che già nutriva sull'azione dei liberali.
Oggi, a più di un secolo di distanza, sappiamo dagli storici che l'unità d'Italia fu una grande conquista, ma che non fu certo realizzata nel migliore dei modi. Il Risorgimento fu fenomeno di borghesia e di ceti medi. Il popolo vi partecipò solo in alcune città. La grande massa contadina che costituiva il settanta per cento della popolazione, vi rimase estranea, se non addirittura avversa.
Don Bosco era un contadino, e sentiva un'istintiva avversione per questi “movimenti” pilotati da avvocati astuti e da politici intriganti, in cui il " popolo vero " veniva chiamato soltanto a dare il proprio sangue sui campi di battaglia. La guerra, per lui, era un castigo di Dio e una rovina per la povera gente, nient'altro.
Forse, nel guardare così le cose, don Bosco mostrò di avere dei limiti. Ma dimostrò anche di vedere lontano. Specialmente nell'orientare la sua opera nascente, scelse la strada (fedeltà al Papa, nessun legame con partiti) che permise al suo modesto oratorio di trasformarsi in una Congregazione mondiale. Fare la storia sui “se” è giocare al lotto, ma siamo convinti che se don Bosco fosse sceso in strada con i suoi ragazzi a sventolare il tricolore, oggi parleremmo di lui come di un buon viceparroco della periferia torinese.
L'essersi arroccato nella fedeltà al Papa, lì per lì portò a don Bosco molti guai. Due preti che lavoravano nell'oratorio san Luigi, nonostante la sua proibizione, portarono i giovani con bandiere e coccarde alle dimostrazioni politiche, e trasformarono le prediche in fervorosi comizi. Don Bosco dovette litigare con loro.
A Valdocco successe di peggio. Un aiutante di don Bosco fece un sermone in cui “libertà, emancipazione, indipendenza” risuonarono per tutta la durata del discorso. “Io ero in sacrestia - scrive don Bosco -, impaziente di poter porre fine al disordine. Ma il predicatore, data appena la benedizione, invitò preti e giovani ad associarsi a lui, e intonando a tutta gola inni nazionali, facendo freneticamente sventolare le bandiere, andarono difilato intorno al Monte dei Cappuccini. Colà fu fatta formale promessa di non intervenire all'oratorio se non ricevuti con forme nazionali”.
L'oratorio di Valdocco rimase per parecchie domeniche quasi deserto, scrive don Lemoyne. Da 500 giovani a meno di un centinaio.
“Nessuno dei preti tentò di tornare. I giovanetti, invece, chiesero scusa, asserendo di essere stati ingannati, e promisero obbedienza e disciplina. Ma io rimasi solo - scrive don Bosco con amarezza -. Quasi cinquecento giovani, unico saltuario aiuto quello del teologo Borel. Non so, con quel ritmo sfibrante di lavoro, come abbia potuto reggere”. Don Lemoyne annota che i più grandi non tornarono, e che da quel momento l'età media dei ragazzi fu assai minore di prima.
Notizie drammatiche.
La seconda metà del 1848 fu un susseguirsi di notizie drammatiche. In giugno furono stroncate con i cannoni le insurrezioni di Praga e Parigi. Dal 23 al 26 luglio, sulle alture di Custoza, si ebbe l'urto decisivo tra Austriaci e Piemontesi. La sconfitta di Carlo Alberto fu così grave che non si potè nemmeno organizzare la difesa di Milano.
La notizia, giunta a Torino il 29 luglio, provocò gravi tumulti. La Guardia Nazionale dovette occupare Piazza Castello. Il 1° agosto si ordinò la mobilitazione di 56 battaglioni della Guardia Nazionale. Una commissione presieduta da Roberto D'Azeglio assunse l'incarico di conservare l'ordine.
Itumulti continuarono lontano dal centro della città. Venivano prese di mira specialmente le case dei nobili e quelle dei preti.
Il 6 agosto, Gioberti corse al Quartier Generale del re, a scongiurarlo di non firmare l'armistizio. Ma Carlo Alberto, convinto che l'esercito non fosse più in grado di combattere, il 9 agosto diede ordine al generale Salasco di firmarlo. Era il riconoscimento della sconfitta, la fine delle speranze.
A Torino i politici si scatenarono contro l'inettitudine dei capi, i raggiri dei preti. Invitarono seccamente a inchieste parlamentari, alla punizione dei colpevoli. La capitale era piena di agitazione. “Fu necessario - scrive Francesco Cognasso - prendere misure drastiche: cambio di governo, vietare la vendita dei giornali per le vie, l'affissione di manifesti politici, il riunirsi a discutere in piazza”.
Fucilata in cappella Pinardi.
Di quei mesi, don Bosco scrive: “Si giudicava ben fatto ogni sfregio contro il prete e contro la religione. Io fui più volte assalito in casa e per strada. Un giorno, mentre facevo catechismo, una palla di archibugio (= vecchio fucile) entrò per una finestra, mi forò la veste tra il braccio e le coste, e andò a fare un largo squarcio nel muro”. Si trovava nella cappella Pinardi, e i ragazzi furono terrorizzati dal colpo improvviso. Toccò a don Bosco (piuttosto scosso dalla fucilata che l'aveva mancato per un pelo) rincuorarli con parole scherzose:
- È uno scherzo un po' pesante. Mi dispiace per la veste, che è l'unica che ho. Ma la Madonna ci vuole bene.
Un ragazzo raccolse il proiettile conficcato nel muro: era una rozza pallottola di ferro.
“Un'altra volta, mentre io ero in mezzo a una moltitudine di ragazzi, in pieno giorno un tale mi assalì con un lungo coltello alla mano. E fu un miracolo se, correndo a precipizio, potei ritirarmi e salvarmi in camera. Il teologo Borel scampò pure per miracolo a una pistolettata”.
Molti giornali alimentavano l'odio contro i preti. Uscirono grossi titoli anche contro don Bosco: “La rivoluzione scoperta a Valdocco”, “Il prete di Valdocco e i nemici della patria”.
Lavorare per fare dei preti diversi.
Questo anticlericalismo rabbioso non soltanto addolorò don Bosco, ma lo fece pensare. “Uno spirito di vertigine - scrive - si levava contro gli Ordini e le Congregazioni ecclesiastiche, e in generale contro il clero e tutte le autorità della Chiesa. Questo grido di furore e di disprezzo per la religione allontanava la gioventù dalla moralità, dalla pietà, e quindi dalla vocazione allo stato ecclesiastico”.
Il pericolo più grave don Bosco lo vede proprio qui: l'inaridirsi delle vocazioni sacerdotali. Invece di consumare il tempo nel lamentarsi dei tempi tristi, don Bosco si pone chiaramente il problema: “Cosa posso fare per aiutare le vocazioni?”.
Gli pare che il popolo sia contro i preti non perché non partecipino alle guerre d'indipendenza, ma perché gran parte del clero “non è del popolo”. Le vocazioni provengono da famiglie nobili e signorili, o almeno benestanti. I protagonisti dell'epoca nuova che si sta iniziando (ben al di là del Risorgimento) sono invece i lavoratori.
Se questa è la causa, la soluzione del problema è ben diversa dal partecipare alla battaglia di Novara (come tenterà di fare don Cocchi).
“In quei tempi - scrive - Dio fece conoscere in maniera chiara un nuovo genere di milizia che egli voleva scegliere: non più tra le famiglie agiate. Quelli che maneggiavano la zappa o il martello dovevano essere scelti a prendere posto nelle file che si avviavano allo stato ecclesiastico”. Un clero proletario.
Con i mezzi modesti di cui dispone, don Bosco si mette subito a lavorare su questa linea.
Tra le centinaia di giovani che vengono all'oratorio, ne sceglie tredici, e li invita a fare un piccolo corso di Esercizi Spirituali. I ragazzi sono ospiti di don Bosco per tutta la giornata. Solo alla sera “non essendoci letti per tutti, una parte va a dormire presso la propria famiglia”.
In quei giorni, don Bosco si impegna per “studiare, conoscere, scegliere alcuni individui” che diano speranza di vocazione. “La calma di quei giorni - annota il Lemoyne -, faceva contrasto con l'agitazione grandissima che regnava in città”.
Tra questi tredici, nell'anno seguente sceglierà i quattro migliori e proseguirà l'esperimento.
“Così - scrive - andavasi consolidando l'umile nostro oratorio, mentre si compivano gravi avvenimenti che dovevano mutare l'aspetto alla politica d'Italia e forse del mondo”.
Notizie tragiche da Roma
18 agosto. A Torino rientrano i primi reggimenti sconfitti. L'aria non è certo festosa, ma la gente accoglie con simpatia quei soldati stanchi e impolverati.
15 settembre. Rientra a Torino il re. Accoglienze fredde e tristi. Voci strane circolano per la città: stanno arrivando truppe francesi con cui si riprenderà la guerra, il re sta per abdicare, sta per scoppiare la rivoluzione.
11 ottobre. Carlo Alberto nomina primo Ministro il generale Perrone, l'ex condannato all'impiccagione del 21. Un altro “condannato a morte» del 1834, Giuseppe Garibaldi, sta tentando azioni corsare contro gli Austriaci sul Lago Maggiore. Le agitazioni alla Camera (dove la sinistra vuole la ripresa della guerra) e in città continuano. “I genovesi della brigata Savoia - scrive il Cognasso - alla sera abbandonavano i quartieri e venivano a tumultuare in Piazza Castello: Viva il re! Viva la repubblica! Viva la pace! Viva la guerra! Siamo male alloggiati! Siamo male nutriti!”.
A metà novembre arrivano tragiche notizie da Roma. Pellegrino Rossi, il moderato Primo Ministro di Pio IX, è stato assassinato dalla folla. La “piazza” impone al Papa di convocare una Costituente e di partecipare alla guerra contro l'Austria.
Una folla di scalmanati gira per le strade di Torino gridando: “Abbasso Pio IX! Abbasso i ministri retrogradi! Viva l'uccisore di Pellegrino Rossi! Guerra! Guerra!”.
Comincia a diffondersi la paura. Paura che cominci la rivoluzione, che si ripeta il “terrore” giacobino.
Mentre novembre finisce, da Roma giunge la notizia che Pio IX è fuggito. Ha finto di cedere alla piazza e poi, travestito da semplice prete, si è rifugiato nel regno di Napoli, a Gaeta.
Carlo Alberto, sotto la spinta dei circoli democratici e delle dimostrazioni di piazza, accetta le dimissioni di Perrone e nomina primo Ministro Gioberti. Il 30 dicembre scioglie la Camera e indice nuove elezioni.
Il 1848, iniziato nell'entusiasmo delle speranze, tramonta in Italia nelle nebbie dell'incertezza. Nelle altre nazioni è finito sotto il fuoco e il ferro della repressione. Dopo Parigi e Praga, anche Vienna è stata espugnata in ottobre dai cannoni di un generale. Il Parlamento di Berlino è stato soppresso in dicembre.
Due segni di speranza a Valdocco.
Nella bassa di Valdocco, dove la nebbia s'infittisce con l'arrivo dell'inverno, don Bosco accoglie con umiltà due segni di speranza.
Per la prima volta un suo ragazzo veste l'abito chiericale. Si chiama Ascanio Savio, è un suo compaesano. Ha frequentato l'oratorio da quando la sede era presso il Rifugio. Ora dovrebbe entrare in seminario, ma quello di Torino è chiuso e quello di Chieri sta per chiudere. La Curia arcivescovile gli permette di compiere la cerimonia della vestizione presso il Cottolengo, e poi di restare all'oratorio per aiutare don Bosco.
Non vi rimarrà per sempre. Dopo quattro anni entrerà in seminario e sarà prete diocesano. Ma dirà di don Bosco: “Lo amavo come se fosse mio padre”. E don Bosco scriverà di lui: “Gli affidai subito una parte dell'assistenza, dei catechismi e la direzione di varie altre cose. Cominciai così a essere un poco sollevato”. Il primo agnello divenuto pastore.
Il secondo avvenimento fu di carattere completamente diverso.
Nell'oratorio si celebrava una festa solenne. Parecchie centinaia di giovani si erano preparati a fare la Comunione. Don Bosco celebrò la Messa convinto che nel tabernacolo ci fosse la solita pisside piena di ostie consacrate. Invece la pisside era praticamente vuota. Giuseppe Buzzetti, incaricato della sacrestia (di che cosa non era incaricato quel ragazzo?) si era dimenticato di preparare un'altra pisside, e si accorse della dimenticanza solo dopo la consacrazione, cioè troppo tardi.
Don Bosco, quando i ragazzi cominciarono ad assieparsi per ricevere l'Eucaristia, si accorse con pena che avrebbe dovuto rimandarli tutti al loro posto. Non potendo rassegnarsi, cominciò a distribuire quelle pochissime ostie che erano sul fondo della pisside.
Ed ecco che, con grande meraviglia sua e del povero Buzzetti che teneva il piattello, le ostie non diminuirono. Bastarono per tutti.
Fu Giuseppe Buzzetti, sbalordito, a contare il fatto ai suoi compagni. Ancora nel 1864 lo raccontò ai primi Salesiani. Don Bosco, presente e serio in volto, lo confermò: “Sì, vi erano poche particole nella pisside, e ciò nonostante potei comunicare tutti coloro che si accostarono alla sacra mensa, e non erano pochi. Ero commosso, ma tranquillo. Pensavo: è un miracolo più grande quello della consacrazione che quello della moltiplicazione. Ma di tutto sia benedetto il Signore”.
Mentre l'Italia era scossa da avvenimenti clamorosi, in un angolo sperduto della periferia torinese il Signore moltiplicava silenziosamente la sua presenza tra i ragazzi di un povero prete. Un segno misterioso ma anche luminosissimo.
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