Tre testimonianze per ricordare: Elie Wiesel, Primo Levi e Elisa Springer. «Il numero, una volta tatuato, veniva trascritto su un apposito registro, in corrispondenza delle generalità del detenuto. Da quel momento scomparivamo da esseri umani diventando numeri, pezzi per la macchina di sterminio del Reich» (Elisa Springer).
del 27 gennaio 2008
ELIE WIESEL
 
Mai potrei dimenticare quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l’eternità, del desiderio di vivere. Mai dimenticherò quei momenti che uccisero il mio Dio e la mia anima, e ridussero i miei sogni in polvere.
Da LA NOTTE, Giuntina editore
 
 
Durante un raid aereo. Vicino alla cucina erano stati lasciati due calderoni mezzi pieni di zuppa fumante. Due pentoloni di zuppa, nel bel mezzo del sentiero, e nessuno a sorvegliarli!…
All’improvviso, vedemmo la porta della baracca 37 aprirsi impercettibilmente. Apparve un uomo che strisciava come un verme in direzione dei pentoloni.
Centinaia d’occhi seguirono i suoi movimenti. Centinaia d’uomini strisciarono con lui, sbucciandosi i ginocchi insieme ai suoi sulla ghiaia. Ciascun cuore batteva all’impazzata, ma d’invidia sopra a tutto. Quest’uomo aveva osato.
Raggiunse il primo calderone. I cuori accelerarono: gliel’aveva fatta. La gelosia ci consumava, ci bruciava come paglia.
Non pensammo nemmeno per un attimo di ammirarlo. Povero eroe, suicidarsi per una razione di zuppa! Nei nostri pensieri, lo stavamo uccidendo.
Sdraiato accanto al pentolone, cercava ora di sollevarsi verso il brodo. Per debolezza o per paura, se ne stette lì, cercando senza dubbio di chiamare a raccolta le ultime forze. Alla fine riuscì a sporgersi sulla superficie della pentola. Per un attimo sembrò che si guardasse, cercando il suo riflesso spettrale nella zuppa. Poi, apparentemente senza ragione mandò un grido terribile, un rantolo quale mai avevo udito prima, e, a bocca aperta, spinse il capo verso il liquido fumante. L’esplosione ci fece sobbalzare. Ricadendo all’indietro sul terreno, con viso macchiato dalla zuppa, l’uomo si contorse per pochi secondi ai piedi del calderone, poi non si mosse più.
Da LA NOTTE, Giuntina editore
 
 
Le tre vittime montarono insieme sugli sgabelli.
I tre colli furono infilati nei cappi allo stesso momento.
“Viva la libertà!” gridarono i due adulti.
Ma il ragazzo rimase in silenzio.
“Dov’è Dio? Dov’è?” chiese qualcuno dietro di me.
Ad un segno del comandante del campo, i tre sgabelli rotolarono…
Cominciò la marcia dinanzi alle forche. I due grandi non vivevano più. Le lingue cianotiche penzolavano gonfie. Ma la terza corda si muoveva ancora; così leggero, il ragazzo era ancora vivo…
Stette là per più di mezz’ora, lottando tra la vita e la morte, morendo d’una lenta agonia sotto i nostri occhi. E lo dovemmo guardare bene in faccia. Era ancora vivo quando io passai. La lingua ancora rossa, gli occhi non ancora vitrei. Dietro di me, udii lo stesso di prima domandare:
“Dov’è Dio adesso?”
E udii una voce dentro di me rispondergli:
“Dov’è? Eccolo lì – appeso a quella forca…”
Quella notte la zuppa sapeva di morto.
da LA NOTTE, Giuntina edito
 
 
PRIMO LEVI
 
…Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di strani individui. Camminavano inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a righe, che anche di notte e di lontano si indovinava sudicia e stracciata. Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a salire e scendere dai vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle. Ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così.
Da SE QUESTO È UN UOMO, Opere, Einaudi
 
 
In Lager si entrava nudi…La giornata del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni periodiche, in cui una “commissione” decideva chi era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato all’eliminazione. Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento.
Da I SOMMERSI E I SALVATI, Opere, Einaudi
 
 
Ci siamo accorti subito, fin dai primi contatti con gli uomini sprezzanti dalle mostrine nere, che il sapere o no il tedesco era uno spartiacque. Con chi li capiva, e rispondeva in modo articolato, si instaurava una parvenza di rapporto umano. Con chi non li capiva, i neri reagivano in un modo che ci stupì e spaventò: l’ordine che era stato pronunciato con la voce tranquilla di chi sa che verrà obbedito, veniva ripetuto identico a voce alta e rabbiosa, poi urlato a squarciagola, come si farebbe con un sordo, o meglio con un animale domestico, più sensibile al tono che al contenuto del messaggio.
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l’uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinchè l’uomo sia uomo, era caduto in disuso. Era un segnale: per quegli altri, uomini non eravamo più. (…)
Da I SOMMERSI E I SALVATI, Opere, Einaudi
 
 
Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.
Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli… Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità dalla banchina, poi non vedemmo più nulla.
Da SE QUESTO È UN UOMO, Opere, Einaudi
 
 
Sognavamo nelle notti feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo:
tornare, mangiare; raccontare.
Finchè suonava breve e sommesso
il comando dell'alba:
'Wstawa_';
e si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
E' tempo. Presto udremo ancora
il comando straniero:
'Wstawa_'.
Ad ora incerta – Primo Levi – 5 – pag. 530
 
 
ELISA SPRINGER
 
Elisa Springer è nata a Vienna nel 1918 in una famiglia di commercianti ebrei di origine ungherese. Sopravvissuta ai campi di sterminio, nel 1946 si trasferì in Italia, dove è morta nel 2004.
 
Il numero, una volta tatuato, veniva trascritto su un apposito registro, in corrispondenza delle generalità del detenuto. Da quel momento scomparivamo da esseri umani diventando numeri, pezzi per la macchina di sterminio del Reich.
 
1° novembre 1995: sono tornata ad Auschwitz.
Ho rivisto i reticolati, le torrette, quel che resta dei forni crematori e le baracche, dove ci raccoglievamo tremanti.
Ho risentito, nel silenzio assoluto di oggi, le voci e le invocazioni di ieri.
Ho capito che non bastano cinquant’anni, per cancellare il ricordo di un crimine così grande.
L’immagine di quei luoghi, e il dolore che ne derivò, sono impressi in maniera indelebile nei miei occhi: non mi hanno mai abbandonato.
Oggi più che mai, è necessario che i giovani sappiano, capiscano e comprendano: è l’unico modo per sperare che quell’indicibile orrore non si ripeta, è l’unico modo per farci uscire dall’oscurità. [...]
[...] Terminata la selezione, divisero uomini e donne e ci fecero entrare in due baracche diverse. Qui avvenne la nostra orrenda metamorfosi. Il nostro processo di spersonalizzazione iniziava da quella baracca.
Costrette a spogliarci completamente nude, davanti ad alcune SS e alle guardine armate di bastoni, donne dal viso cattivo e prive di qualsiasi sentimento, fummo fatte poi sdraiare su dei lettini, come quelli in dotazione ai medici, e fummo completamente rasate in tutte le parti del corpo.
A questa mansione, erano addetti alcuni detenuti in camice bianco, che fungevano da barbieri. Da quegli uomini non udimmo neanche una parola, ma dal loro silenzio intuimmo che 'dovevano' farlo. In un ultimo tentativo di difendermi da tanta violenza fisica e morale, serrai le gambe, cercando di coprirmi il seno con le braccia. Un nazista mi colpì con la canna del fucile e brutalmente gridò: 'Spalanca le gambe e fatti rasare!'
In quel momento persi tutta la mia dignità e il mio pudore.
Le guardine di fronte a noi ci schernivano ridendo e brandendo il bastone, per accrescere la nostra paura… ma, ormai, non era più necessario.
Uguali nell’aspetto le une alle altre, già fiaccate nello spirito, eravamo inermi davanti ai nostri aguzzini che ridevano del nostro pudore, ci schernivano per l’aspetto, ci mortificavano nella nostra femminilità.
Eravamo ebrei, esseri immondi da eliminare: questa la ferrea logica del Reich.
I nostri indumenti furono accatastati su carrelli nel corridoio, mentre noi, costrette a passare in una grande sala attigua, fummo sottoposte a una doccia di gruppo: eravamo circa in trecento, pressate come le sardine.
Durante la doccia, sentivo i corpi delle mie compagne soffocare il mio e il contatto con quella pelle umida ed estranea, spingeva alla difesa il mio organismo ancora non abituato a quella vita disumana.
Pi√π tentavo di evitare quel contatto e pi√π mi sembrava di rimanerne intrappolata. Mi sentivo impazzire.
Possibile che fosse tutto vero? Possibile che stesse accadendo a me? Ci furono attimi in cui la mente si isolò dal corpo e non riuscì a riconoscersi in quella grottesca figura, quale, ormai, era la mia.
Asciugate con enormi ventole che emanavano aria calda, fummo successivamente rivestite con stracci, senza biancheria, e con zoccoli disuguali. In seguito, avremmo imparato che il camminare con questi zoccoli di misura diversa, oltre a rappresentare una notevole difficoltà, avrebbe contribuito a rendere più tragica la vita, già tanto precaria, del lager.
Quando la temperatura scendeva sotto lo zero, i piedi, costretti in quelle calzature, si riempivano di tumefazioni e piaghe dolorose, deformandosi. Quella condizione estrema, indirizzava irrimediabilmente il nostro cammino verso la camera a gas. [...]
[...] Io ho vissuto per non dimenticare quella parte di me, rimasta nei lager, con i miei vent’anni.
Ho vissuto per difendere e raccontare l’odore dei morti che bruciavano nei crematori, per difendere la memoria di tutti i miei cari e di tanti innocenti, memoria che oggi si tenta ancora di infangare.
Ho vissuto per raccontare che le ferite del corpo si rimarginano col tempo, ma quelle dello spirito mai. Le mie sanguinano ancora.
Nostra è, ancora oggi, e sempre, la sofferenza di quel tempo, il nostro camminare avanti, fra mille difficoltà.
Abbiamo vissuto la degenerazione, la nostra 'vita indegna', ma siamo sopravvissuti, cercando di cancellare la nebbia e il buio, dalla nostra mente.
I nostri figli, tutto questo lo hanno già compreso, lo portano nel cuore. La nostra sofferenza, il nostro disagio, il nostro bisogno di riscatto, sono diventati la loro eredità.
I nostri figli soffrono il nostro passato.
I nostri figli soffrono, oggi, il nostro malessere, le nostre ansie, le nostre paure.
Gli altri sappiano che dalle macerie della nostra esistenza, sono nati loro, i nostri figli, stelle che abbiamo seguito per tutta la vita, con tutte le forze e che rappresentavano il riscatto, la vita che continua, nonostante tutto, la storia che va raccontata, che loro devono raccontare.
Auschwitz ha rappresentato, per noi, il buio, le nostre stelle son servite a illuminarlo.
A settantesette anni sono tornata ad Auschwitz-Birkenau.
E’ stata la rivincita della mia vita sulle miserie della morte.
Mi sono ritrovata libera di camminare in quel deserto di morte senza speranza, libera di piangere la mia solitudine, appoggiandomi all’uomo che, mai, avrei sperato di conoscere: mio figlio.
Lui ha compreso il senso della mia esistenza: ho vissuto, per cinquant’anni, ad Auschwitz all’ombra del Camino.
Da cinquant’anni, una volta all’anno, ritorno a Vienna, raggiungo il Zentral Friedhof e mi fermo davanti a una scritta: 'Richard Springer, geb. 5.11.1879 – gest. 28.12.1938, Buchenwald'.
Prego sulla tomba di mio padre, e depongo, ogni volta, una pietra: la pietra dell’amore e della vita.
Penso che un altro anno è passato… Il tempo scandisce la distanza che mi separa dai miei cari, ricordandomi che prima ancora di morire ho avuto la fortuna di rinascere per vivere.
Da cinquant’anni, ogni anno, mi fermo davanti al portone della 'mia casa', in Strozzigaße, 32: non ho più il coraggio di entrare, ma piango.
E’ strano, ho la sensazione di non essermi mai allontanata, è come se fossi rimasta lì ad aspettare la mia vita, il mio domani.
Ripenso a quel quadro appeso all’ingresso: raffigura una strada, senza inizio né fine, in mezzo a un bosco di betulle.
Lì ho lasciato il mio Passato. Lì si è fermato il mio Presente…
Il mio Domani, adesso, ha gli occhi di mio figlio…!
 
Da IL SILENZIO DEI VIVI, Gli specchi, Marsilio
Elie Wiesel, Primo Levi, Elisa Springer
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