3.1. Il battesimo degli adulti come paradigma?

Proprio il processo mediante il quale viene alla fede il bambino illustra la figura in certo modo più antica della fede; soltanto sullo sfondo di quella più antica figura della fede è possibile si produca poi anche la seconda; più radicalmente, soltanto sullo sfondo della fede infantile è possibile comprendere che cosa sia fede in genere.

3.1. Il battesimo degli adulti come paradigma?

da L'autore

del 05 dicembre 2011

3.1. Il battesimo degli adulti come paradigma?

          A proposito della prima acquisizione mi pare doveroso esprimere ancora una volta la radicale riserva, in molti modi già espressa: il processo attraverso il quale il bambino figlio di genitori cristiani viene alla fede non può essere affatto considerato come una sua versione diminuita all’analogo processo dell’adulto; diminuita, in ipotesi, perché versione del battesimo ancora senza consapevolezza, e quindi senza libertà, bisognosa perciò della “rappresentanza” dei genitori o dei padrini. Al contrario, proprio il processo mediante il quale viene alla fede il bambino illustra la figura in certo modo più antica della fede; soltanto sullo sfondo di quella più antica figura della fede è possibile si produca poi anche la seconda; più radicalmente, soltanto sullo sfondo della fede infantile è possibile comprendere che cosa sia fede in genere. La fede non nasce infatti dalla parola intesa in accezione meramente verbale; nasce invece da quell’esperienza originaria e decisiva, che consiste nell’anticipazione della nostra vita ad opera di altri. La parola in generale, e certo anche la Parola per eccellenza, quella di Dio ovviamente, esprime la sua attitudine a significare soltanto sullo sfondo di quel primo messaggio, o addirittura quel primo vangelo, che grazie alla relazione infantile con i genitori si realizza.

      In ogni età della vita per divenire credenti occorre tornare come bambini, dice espressamente Gesù stesso. In tal senso il processo mediante il quale il bambino viene alla fede ha qualche cosa di assolutamente originario da suggerire per rapporto alla verità della fede in genere; rispettivamente per rapporto al processo del venire alla fede di tutti. In tal senso il battesimo del bambino non può affatto essere inteso quasi fosse soltanto l’anticipazione – e per di più un’anticipazione in forma di necessità mancante – del battesimo degli adulti.

          Alludiamo evidentemente al famoso detto di Gesù: In verità vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso (Mc 10,15). Esso è assai eloquente. Lo sfondo sul quale esso è pronunciato è quello disposto da un gesto dei discepoli: essi allontanavano quelli – o più probabilmente, quelle – che portavano a Gesù bambini perché li toccasse; il gesto dei discepoli è ragionevolmente da intendere come espressione di un apprezzamento di questo genere: i bambini non capiscono ancora nulla; che cosa potrebbe dunque fare Gesù per loro? Il loro incontro con Gesù è da rimandare ad un’età più adulta.

          Sia J. Jeremias [37] che O. Cullmann [38], intervenendo sulla questione assai dibattuta in quegli anni della legittimità o meno del pedobattesimo, hanno sostenuto la tesi secondo la quale la sentenza di Gesù a proposito della necessaria dimestichezza dei bambini con la sua persona e con il regno sarebbe stata fissata ad opera della comunità cristiana in età apostolica proprio in connessione alla questione del battesimo ai bambini. Un suggerimento in tal senso viene dall’uso del verbo koleyn, impedire, usato qui come anche altrove nel Nuovo Testamento per dire degli impedimenti al battesimo. Più precisamente, in Atti il verbo ricorre tre volte per indicare l’impedimento al battesimo; Filippo chiede all’eunuco: Ecco qui c’è acqua; che cosa mi impedisce di essere battezzato (8,36); Pietro nella casa di Cornelio, dopo l’effusione dello Spirito si chiede: Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi? (10, 47); poi da capo lo stesso Pietro, chiamato a giustificare la sua scelta davanti alla comunità di Gerusalemme, dice: Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che a noi per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio? (10, 17). L’uso del verbo è da mettere in relazione all’interrogativo posto ai battezzandi, se appunto esistessero impedimenti al loro battesimo; la congettura è che già allora foste posta la questione se l’età infantile impedisse il battesimo, e rispettivamente l’accostamento all’eucaristia; la questione era risolta appunto mediante la citazione della sentenza di Gesù.

          Quello citato d’altra parte non è l’unico passo del vangelo, nel quale il bambino, lungi dall’essere considerato non idoneo alla fede e al rapporto con Gesù, è da Gesù stesso indicato ai discepoli stessi come il modello della fede. Dopo il litigio dei dodici a proposito dei primi posti Gesù li corregge così: Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti; ma quasi rilevando il loro difetto di comprensione, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato (Mc 9, 36s).

          Il bambino è modello della fede, pure essendo la sua una fede inconsapevole. Accade nel suo caso quel che accade – d’altra parte – nel caso della fede di tutti i credenti; la fede non è certo un privilegio esclusivo dei discepoli seguaci, ché anzi Gesù, mentre più volte loda la fede dei miracolati, quasi mai loda la fede dei discepoli; le rare eccezioni – quella di Simone a Cesarea oppure quella della lode riservata da Gesù ai dodici durante la cena – riflettono chiaramente una rilettura dei fatti successiva alla Pasqua di Gesù. E tuttavia, soltanto ai discepoli è permesso di predicare il vangelo, è anzi comandato di farlo; ai miracolati, specie nel vangelo di Marco, è ordinariamente fatto divieto espresso di parlare di quel che è loro successo. I discepoli appaiono in tal senso, nella loro predicazione missionaria, come gli interpreti di una fede che non è la loro, o in ogni caso non è soltanto e prima di tutto la loro.

          Appunto qualche cosa di simile accade nel caso della fede dei bambini. Essi sono soggetti di una fede indubitabile, destinata ad adempiere addirittura ad una funzione “fondamentale” per gli stessi adulti; sono per altro soggetti di una fede la quale, perché possa sussistere, ha bisogno della testimonianza degli adulti, della fede confessante appunto.

          Per rapporto a tale complesso processo, del passaggio cioè da una fede ignara a una fede confessante, occorre a mio giudizio intendere il senso e le ragioni di opportunità del battesimo dei bambini. Il passaggio di cui si dice è possibile soltanto grazie alla testimonianza degli adulti; di riflesso, esso appare dalla generazione adulta anche minacciato; le forme nelle quali si realizza la tradizione dei significati elementari della vita ad opera dei padri e delle madri, infatti, sono forme inaffidabili. Rilevante a tale proposito è la verità del peccato originale, del peccato dunque non imitatione sed propogatione transfusum [39]; esso non può essere adeguatamente descritto attraverso la metafora della macchia nell’anima: non ha una macchia l’anima del bambino; ha piuttosto una macchia il mondo in cui egli nasce (il peccato del mondo), un mondo al quale egli di necessità chiede le parole e le immagini per articolare il senso della sua fede originaria.

          Su questo tema, la legittimità del battesimo dei bambini cioè e insieme il suo significato, mi pare che la riflessione sia ancora molto acerba; che addirittura non sia stata ancora neppure preliminarmente istruita. Per istruirla, infatti, appare indispensabile produrre approfondimenti antropologici previ. Mi riferisco anzitutto all’approfondimento che si riferisce alla struttura drammatica dell’identità umana; mi riferisco poi all’approfondimento che si riferisce al significato religioso della relazione parentale.

          La figura dei genitori assume agli occhi del bambino un’inevitabile consistenza religiosa, nel senso che la loro figura propizia l’integrazione simbolica del reale tutto, e dunque il carattere promettente del reale stesso. A questa consistenza religiosa della figura dei genitori, che agli occhi dei figli infanti s’impone in maniera assoluta, deve corrispondere la confessione dei genitori, e dunque la loro testimonianza del vangelo, che rende ragione della paternità di Dio; soltanto a tale condizione i vissuti affettivi primari possono diventare presidio della percezione significativa del reale tutto. Neppure basta dire che anche le figure parentali concorrono a istituire l’immagine di Dio agli occhi del bambino, e rispettivamente a configurare l’immagine affidabile del mondo; occorre invece più francamente riconoscere che le figure parentali sono la mediazione simbolica necessaria perché possa essere istituita l’immagine di Dio agli occhi di tutti, e quindi anche la visione del mondo quale affidabile regione per la vita di tutti.

          Uno dei problemi maggiori della cultura antropologica del nostro tempo è appunto la distanza sistemica che essa conosce tra il sistema famiglia e il sistema sociale. Al primo la società appalta – per così dire – il compito di provvedere alla socializzazione primaria, che è come dire il compito della configurazione di quella identità personale che sola rende “sostenibile” il rapporto sociale; che rende dunque capaci di responsabilità, di rispondere a fronte di tutti del significato dei propri comportamenti. I comportamenti tutti infatti hanno un significato che per molta parte sfugge alla consapevolezza previa di chi li pone; quel significato è percepito dagli altri, i quali quindi sviluppano attese conseguenti nei confronti del singolo. Soltanto l’appropriazione del codice dei significati elementari del vivere – questa potrebbe valere come una prima definizione della cultura intesa in senso antropologico – consente la responsabilità. Ora una tale appropriazione non si può produrre attraverso le risorse dell’insegnamento scolastico, né di quello catechistico; ancor meno può prodursi attraverso il rapporto tra pari; può prodursi soltanto attraverso la relazione parentale, e grazie alla sua originaria densità simbolica.

          Appunto questo è il compito della Chiesa per rapporto ai minori e al loro effettivo venire alla fede: propiziare l’articolazione in termini cristiani di quel vangelo originario, che i genitori infallibilmente proclamano ai figli. Tale propiziazione un tempo si produceva in maniera, per così dire, fondamentalmente automatica. Operavano in tal senso diversi fattori. Anzitutto il nesso stretto tra famiglia e società; il senso dei gesti e delle parole del genitore erano in tal senso determinati assai prima e assai più dal codice simbolico offerto dalla cultura condivisa che dalla intenzione e dai tratti biografici della persona dei genitori. Poi anche a motivo del profondo intreccio tra cultura condivisa e fede, in ogni caso tra cultura e religione. La separazione tra famiglia e società da un lato, e i noti processi di secolarizzazione civile dall’altro, rendono l’efficienza di Kosmisierung dei comportamenti parentali assai meno automatica.

Giuseppe Angelini

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