Sia per la parola che per il senso significa ‚Äòesercitare', tradurre in atto una capacità professionale o altra. Un medico, ad esempio, pratica: applica la sua arte a favore degli ammalati.
del 01 gennaio 2002
Sia per la parola che per il senso significa ‘esercitare’, tradurre in atto una capacità professionale o altra. Un medico, ad esempio, pratica: applica la sua arte a favore degli ammalati. Così pratica il cristiano: fa circolare, a favore dei suoi simili, le grazie che gli sono state donate. Non è quindi del tutto esatto quando, per definire la pratica di un cristiano, osserviamo semplicemente se va alla chiesa ogni domenica e riceve i sacramenti a Pasqua. Da una parte ciò costituisce un minimo, per quanto riguarda i precetti della Chiesa; dall’altra non è neppure la cosa principale, perché questa è l’amore cristiano vissuto. Forse è piuttosto un sintomo: che egli fondamentalmente si attiene al suo essere cristiano. Ma ci si domanda ancora se sia un sintomo di sanità o di malattia. Sarebbe sintomo di malattia nel caso in cui uno considerasse il cristianesimo come un istituto di assicurazione per il cielo e pagasse i suoi premi minimali; sarebbe invece sintomo di sanità qualora egli fosse cosciente che il suo essere cristiano, per durare, ha bisogno di questo atto regolare di autodisciplina, che alla lunga costituisce un sacrificio non piccolo. Ad esempio sentire, una domenica dopo l’altra, delle prediche che urtano. In questa partecipazione al sacrificio c’è un rilevante valore di pratica religiosa; ciò può giustificare in certa misura l’accentuazione e considerazione quasi esclusive di questo atto da parte del clero, che ormai è abituato a contare le sue pecorelle da questo punto di vista.
Tuttavia il termine rimane molto equivoco, perché rivendica per un singolo aspetto – certamente non privo di importanza – il nome del tutto; o meglio: perché la totalità che, come in tutti gli altri particolari, è presente anche in questa parte, per il ‘praticante’ non giunge in essa ad essere sufficientemente un dato pratico.
La Chiesa è la luce del mondo, il sale della terra, il lievito nella farina. Essa quindi è relativa al mondo; così come il sole è fuoco concentrato, per poter far sentire i suoi effetti luminosi e calorifici fino ai confini del sistema solare. Con il solo lievito o il solo sale non si può fare nulla: entrambi rivelano la loro forza e completano la loro natura penetrando e scomparendo, disciogliendosi e svanendo nella carne o nella farina. La Chiesa è la concentrazione assolutamente indispensabile per la dilatazione. Infatti «se il sale diventa scipito, con che cosa gli si renderà sapore?». La concentrazione significa un ritorno, nell’ascolto e nell’azione, all’essenziale. ‘Praticare’ significa andare ogni domenica alle funzioni. Nella liturgia della parola della santa Messa ascoltiamo la parola (e se questa predicazione non fosse per noi esistenzialmente sufficiente, siamo obbligati a completarla mediante una lettura personale della Scrittura); naturalmente questo ascolto non è fine a se stesso, ma mira alla nostra azione: anzitutto alla nostra conversione personale, affinché possiamo indirizzare in modo convincente verso Dio gli altri che son fuori. L’eucaristia è ripresentazione di Cristo in mezzo alla comunità e fin nel centro di ogni cuore; essa salda i cuori in un corpo santo, perché nella missione nessuno è solo, ma ha sempre alle spalle la comunità; l’eucaristia conquista il posto centrale nei cuori, affinché «non io viva, ma Cristo viva in me». Proprio nella devozione e nel ringraziamento più personali, essa è rinuncia dell’io per colui che è più grande, per Cristo ed i suoi postulati: la Chiesa ed il mondo. Perciò la duplice celebrazione – parola e sacramento – termina necessariamente con la missione: Ite, missa (missio) est. È mandato colui che mediante la celebrazione è divenuto ‘maturo’: egli ha compreso la dottrina della croce ed il corpo in croce (le due cose sono una sola) e ne ha fatto la sua forma di vita nel mondo e per il mondo.‚Ä® Nel ‘praticare’ rientra in secondo luogo l’atto della confessione: una o più volte all’anno. È un atto sommamente personale e per nessun verso meccanico. Nella misura in cui lo compiamo con responsabilità – mediante la sincerità della confessione, mediante la genuinità del dolore e del proposito acquistiamo la certezza e facciamo addirittura l’esperienza dell’effetto profondo della grazia del perdono. Esempio: il figliuol prodigo. Esaminare e confessare tutta l’ingratitudine in cui ogni giorno vegetiamo spensieratamente, mentre uno espia con la morte e l’abbandono per la nostra dimenticanza di Dio.
Sospettare la distanza spaventosa che esiste tra il comandamento principale di Cristo – amare Dio con tutte le forze ed il prossimo come se stesso, o, più profondamente: il prossimo a se stesso nello Spirito di Cristo – ed il mio proprio comandamento principale. Mettere tutti gli altri comandamenti del Sinai e le leggi naturali sotto questo segno cristiano, al fine di trovare la giusta misura per valutare se stesso. E una volta trovata questa misura con un genuino esame di coscienza per la confessione, applicarle alla nostra vita quotidiana realizzando, ‘praticando’. Anche la confessione è concepita come luce e sale di tutta la vita: la luce non si pone sotto il moggio, la confessione non la si rinchiude in un confessionale impenetrabile all’aria ed al suono. Essa è un atto nella Chiesa, ed è molto significativo il fatto che nei primi tempi avvenisse pubblicamente dinanzi alla comunità. Essa deve riconciliare noi egoisti, che ci eravamo confinati ai margini dell’amore ecclesiale o addirittura fuori del suo campo, non soltanto con Dio, ma altresì con la «comunità dei santi». Essa deve ridarci la purezza di spirito che ci permette di rappresentare, com’è nostro dovere di cristiani, lo spirito di Cristo e di questa comunità dei santi nel mondo. Ben sapendo che l’assoluzione è pura grazia e mai merito, e che non dobbiamo metterci farisaicamente in mostra come ‘convertiti’ dinanzi agli inconvertiti, noi, mediante il tentativo della nostra vita di cristiani, possiamo offrire l’indicazione dell’unica fonte di ogni grazia e missione.
’Praticare’ implica in terzo luogo inserire la vita nella cornice e nel ritmo del tempo ecclesiasticamente organizzato nell’ ‘anno liturgico’ Il ritorno ciclico del ricordo degli avvenimenti salvifici più importanti deve essere esercitazione nella vita cristiana. Il cristiano deve realizzare praticamente i tempi festivi così come per la Chiesa, quale santa sposa di Cristo, si attualizza continuamente l’ ‘oggi’ del Natale, della Passione, della Risurrezione e della missione dello Spirito. Siamo troppo abituati a questo ritmo per apprezzare ciò che di meraviglioso e di benefico c’è in esso; ma immaginiamo che manchino le feste cristiane; come diverrebbe scipito il tempo che si dilegua! Praticare il Natale significa conseguentemente trasporre nella nostra vita lo spirito della festa: Dio che, quantunque ricco, diviene povero per amor nostro, al fine di arricchir ci con la sua povertà (2Cor. 8,9); la festa così vergognosamente abusata quale giorno natalizio di Mammona, mascherata fino a renderla irriconoscibile, trasformata nel suo contrario, deve essere ricondotta dai cristiani al suo senso originario; similmente il rammollimento moderno non deve estendersi anche al periodo di penitenza che precede il giorno della morte di Gesù; Pasqua deve essere la festa della nostra risurrezione, non per un’allegra vita presente e per una evoluzione ottimistica del mondo, bensì per il Padre di Gesù Cristo, che per noi e con noi lo ha strappato «mediante la potenza della sua gloria» alla notte eterna e l’ha trasportato nella vita eterna. Perciò ]’Ascensione non è partenza del Signore, bensì un «essere trasferiti con lui nel regno dei cieli» (Ef. 2,6), ed il dono dello Spirito nella Pentecoste è il punto di partenza della missione apostolica in ‘tutto il mondo’, «nel sentimento della debolezza..., non con argomenti persuasivi della saggezza umana, bensì nell’efficacia dimostrativa dello spirito e della potenza divina» (1Cor. 2,3-4): per questo le lunghe settimane dopo Pentecoste ci lasciano simbolicamente tutto il tempo necessario.
Ed infine l’individuo ‘praticherà, non soltanto nelle vie sociali pre-tracciate dell’anno liturgico, ma anche nelle vie non tracciate e non note del suo destino personale, che gli si rivelerà consapevolmente come tale nei giorni di gioia, ma più efficacemente ancora nelle prove. Qui egli viene duramente invitato ad interpretare praticamente la sua esistenza in ordine a Dio. Egli urta contro i suoi limiti, sente la sua impotenza, è immensamente deluso di se stesso e della sua vita; una persona cara, morendo, lo ha lasciato, un’altra gli si è dimostrata infedele; nel posto rimasto vuoto spira una fredda corrente d’aria, ci si deve decidere: Dio o il nulla. Un lavoro ancora più efficace compiono le umiliazioni, che il Signore ha promesso ai suoi come grande grazia, e che, quando giungono, ce lo devono sempre richiamare alla memoria: «il servo non è da più del suo padrone. Il discepolo si contenti di essere come il maestro ed il servo di essere come il suo padrone» (Mt. 10,24). Esse sono un segno che il padrone e maestro non ha dimenticato il servo. Insuccessi, rovesci, retrocessioni, calunnie, disprezzi e infine, come sintesi della vita, una grande bancarotta: tutto ciò fu il pane quotidiano di Cristo, rimarrà il destino della Chiesa in questo mondo, e chi vuole appartenere alla Chiesa deve rassegnarsi a cose del genere, poiché nessuna evoluzione le potrà mai eliminare.
In tal modo il ‘praticare’ viene collocato al giusto poste nel contesto di tutta la vita cristiana. È, sì, un atto di concentrazione rivolto all’indietro «fate questo in memoria di me» -, ma sempre con direzione verso la dilatazione nel mondo. Dobbiamo trovare Dio nel segno della parola e del sacramento, ma ‘soltanto per cercarlo sempre più appassionatamente – ut inventus quaeratur immensus est – là dove ancora non è e dove dobbiamo portarlo; o meglio (poiché egli è già sempre dovunque), dove si trova già nascostamente e dove noi dobbiamo scoprilo.
Hans Urs Von Balthasar
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