Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono pieni di beatitudini per i poveri, di ammonizioni e di minacce contro i ricchi. I poveri sono coloro che, in mancanza di qualcosa di proprio, dispongono di spazio per accogliere con gioia Dio ed il suo messaggio.
del 01 gennaio 2002
Sia l’Antico che il Nuovo Testamento sono pieni di beatitudini per i poveri, di ammonizioni e di minacce contro i ricchi. I poveri sono coloro che, in mancanza di qualcosa di proprio, dispongono di spazio per accogliere con gioia Dio ed il suo messaggio. Maria ha scelto ‘la parte migliore’ perché svuota tutta l’anima sua al fine di tenerla libera per l’’unica cosa necessaria’, la parola di Dio, per la sua venuta. Marta, invece, si dà molto da fare, perché da sé è ricca di progetti circa il modo in cui intende accogliere e trattare il Signore.
Per il ricco la parola di Dio giunge sempre importuna, perché esige tutto lo spazio, e questo è sbarrato dal possesso proprio. Per lui quindi il messaggio non è lieto, ma penoso, forse è addirittura un giudizio. La prima Maria sintetizza uno degli enunciati principali dell’Antico Testamento, quando canta: «Ha rovesciato i potenti dai loro troni e innalzato gli umili, ha colmato di beni gli affamati e rimandato a mani vuote i ricchi». Già Anna, madre di Samuele, aveva cantato così: «Egli solleva dalla polvere il misero, dalle immondizie innalza l’indigente» (1 Sam. 2,8; ripreso in Sal. 113,7), e similmente Giuditta: «Tu sei Dio degli umili, aiuto dei miseri, difensore dei deboli, rifugio degli sfiduciati, salvatore dei disperati» (Gdt. 9,11). I poveri o umiliati (la parola è la stessa: anawim) sono sia i disprezzati che gli oppressi a motivo della loro povertà ed impotenza; in favor loro Jahvé, per bocca dei profeti, esige giustizia, sia corporale che spirituale (Am. 2,6; Is. 3,15; 10,2; ecc.), ma essi la trovano soltanto in Cristo, che inizia il suo messaggio subito con una beatitudine per i poveri, che sono anche quei ripuliti (katharoi, ‘puri’) che non potendo farsi giustizia da soli, perciò ‘sono afllitti’, ‘hanno fame e sete di giustizia’ e per amore di Cristo o del regno di Dio sono «oltraggiati, perseguitati e calunniati» (Mt. 5,3-12). Per essi, che non hanno altro da aspettarsi, valgono tutte le promesse di Dio. Nelle parabole hanno tempo di accettare l’invito, mentre i ricchi sono totalmente presi dalle loro preoccupazioni. E poiché non hanno nulla, si sentono un nulla e, nei confronti di Dio, eterni debitori e con il pubblicano possono stare in fondo al tempio, professarsi colpevoli e tornare giustificati a casa. Dinanzi a Dio questi poveri sono gli eterni minorenni, mentre i ‘maggiorenni’ ed edotti sono i ricchi, i fari sei e gli scribi. Ma la promessa di Dio è che «in quel giorno... allontanerò da te i tuoi superbi millantatori... lascerò sopravvivere in mezzo a te un popolo oppresso e povero che cercherà rifugio nel nome di Jahvé: il resto di Israele» (Sof. 3,11-13). Nella predicazione di Cristo i poveri, normalmente disprezzati, vilipesi e trascurati come zen che non contano, sono identici ai ‘piccoli’ o ‘bambini’ o ‘umili’ o ‘ultimi’. Sono nel mondo gli irrilevanti, gli insignificanti, dei quali non c’è nulla da raccontare e dei quali non si tien conto, come quei cristiani di Corinto, ai quali Paolo dice apertamente: «Non molti sono tra voi i sapienti secondo l’estimazione terrena; non molti i potenti; non molti i nobili», ma: «Ciò che è stolto per il mondo... ciò che per il mondo è debole... ciò che per il mondo non ha nobiltà e valore... ciò che non esiste... Dio ha scelto per ridurre al nulla ciò che esiste» (1Cor. 1,26-28).
Non è necessario dimostrare espressamente che con questa povertà Cristo intende anche la povertà reale, letterale, in cui in partenza e come prima condizione pone i suoi discepoli e di cui egli stesso dà l’esempio per tutta la vita. E soltanto quando in primo luogo e soprattutto essa esiste, c’è da sperare che i ricchi – di beni materiali e spirituali – imparino un po’ a comprendere che cos’è la povertà ‘in spirito’. Anzi, è possibile che il pubblicano abbia posseduto più beni del fariseo. Ma se non si incomincia con la povertà materiale, tutto rimane un nobile mormorio e non si fa nulla. Allora ogni fariseo, che «paga le decime di tutto ciò che possiede» (Lc. 18,12), ogni pubblicano, che «dà ai poveri la metà dei suoi averi» (Lc. 19,8), potrebbe immaginarsi di essere già con ciò un povero in spirito. Quanto è diversa la povera vedova, che dà del suo necessario per chi è ancora più povero, e così fa tabula rasa al pari dei discepoli eletti!
Nell’Antico ed all’inizio del Nuovo Testamento la sterilità corporale ha la stessa evidenza della povertà totale: la incapacità di concepire, di portare, di mettere al mondo un figlio. Una simile donna è profondamente umiliata, viene nello stesso tempo disprezzata e commiserata. Essa non riesce neppure a fare ciò che potrebbe fare un animale, non è umanamente completa, delude il marito, la sua famiglia. Vicinissima a questa sterilità biblica, che regolarmente costituisce il presupposto per l’azione promessa da Dio – in Isacco, in Giacobbe, in Sansone, in Samuele, in Giovanni Battista – sta la miseria e spregevolezza di una verginità per amore di Dio, perché Dio, fedele alla sua azione promessa, intende portare non altrimenti anche la realizzazione: perciò Maria designa se stessa come la humilis ancilla, la ‘serva umile, spregevole’, a cui il Signore ha guardato dall’alto (Lc. 1,48). La grazia della fecondità per Dio è il paradosso per eccellenza, come esclama nel «libro della consolazione» la figlia di Sion in vista dei suoi figli: «Chi mi generò costoro, mentre io ero priva di figli e sterile, bandita e ripudiata? Chi ha allevato costoro? Ecco io ero rimasta sola; donde vengono costoro?» (Is. 49,21). Ma, invece di meravigliarsi, essa deve dar lode: «Esulta, o sterile, che non hai partorito; giubila, esulta, tripudia, tu che non hai provato le doglie, perché i figli della derelitta sono più numerosi dei figli della maritata, dice Jahvé» (Is. 54,1: ripreso da Paolo: Gal. 4,27).
Con tutto questo siamo al punto centrale della rivelazione, che appunto solo per i poveri diviene lieto messaggio e fruttifica soltanto nella sterilità, così come soltanto nell’obbedienza di fede, che si lascia portare dalla parola al di là di ogni programma personale, può diventare un ‘tesoro’ in Dio, una ‘perla preziosa’, un meraviglioso ‘possesso’ (Is. 57,13; Mt. 5,4; 19,29; ecc.). Soltanto in tal modo il terreno accogliente dell’uomo ‘risponde’ al seminatore divino, non già portando un frutto che, per il fugace ed oblio so ascolto della parola, cresce in breve tempo e subito secca, ma perseverando in un atto di fede abituale, che nella tradizione ecclesiastica si chiama atto di contemplazione. È l’atteggiamento di un’anima generalmente aperta, che permane nell’ascolto della parola. Così la madre Maria che «conservava con cura tutte queste cose in cuor suo e le meditava» (Lc. 2,19-51). Così Maria di Betania che, perseverando nell’accoglienza pura, contemplativa della parola, fa l’«unica cosa necessaria».
Hans Urs Von Balthasar
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