3.7 Primato della contemplazione della fede

Si vede ora come la vita contemplativa è indispensabile e centrale nel complesso della Chiesa. Non c'è azione esterna senza contemplazione interiore...

3.7 Primato della contemplazione della fede

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Si vede ora come la vita contemplativa è indispensabile e centrale nel complesso della Chiesa. Non c’è azione esterna senza contemplazione interiore (che è la dimensione esistenziale della stessa fede), mentre è perfettamente possibile riempire una vita con la contemplazione interiore senza l’azione esterna. Infatti l’atto contemplativo è l’atto che fonda in permanenza ogni azione esterna; è attivo ed efficace, fecondo e missionario più di tutte le imprese esterne della Chiesa. È una testimonianza di povertà in senso deteriore per la Chiesa, quand’essa non comprende più questa verità e quando i suoi teologi diffondono sempre più sfacciatamente l’opinione che la contemplazione, che la Chiesa fin dal sec. III ha preso sul serio anche come forma esteriore di vita, sia un corpo estraneo, alla cui faticosa ed infine vittoriosa eliminazione i millenni avrebbero dovuto lavorare. Così il card. Suenens[1] parla di «stadi di evoluzione» in cui la clausura delle monache, che egli evidentemente molto deplora, fu finalmente mitigata e da ultimo in gran parte soppressa. Angela Merici, Pietro Fourier, Francesco di Sales e la Signora di Chantal, Vincenzo de’ Paoli sono tappe «di una battaglia che è stata combattuta per la libertà dello Spirito santo. S. Vincenzo de’ Paoli è riuscito a fare un’importante avanzata, ma non ha ancora conquistato del tutto il campo». Per il cardinale questa terra promessa, considerata nel suo complesso, è la libertà e l’ardire dell’impegno esterno al servizio del prossimo. A suo giudizio questo impegno fu di volta in volta il primo impulso di fondazione, e le successive ritirate paurose in convento ed in clausura ne sono il parziale tradimento. Il destino della fondazione della Signora di Chantal può valere qui come esempio. Certamente Suenens ammette (ma soltanto come raro caso eccezionale) una vita di pura contemplazione, come quella cui aspiravano i primi eremiti e cenobiti. Questa vita «era concepita soprattutto in ordine a Dio che viene ricercato in sé e per sé, e ciò è normale. Corrisponde al dovere della diretta adorazione di Dio; il suo perno sono la vita liturgica – opus Dei – e l’unione con Dio. (Ma) la vita apostolica è nello stesso tempo diretta verso Dio per se stesso, e verso Dio, cui si serve nel prossimo... L’apostolo lascia Dio per Dio».

C’è qui una concezione della contemplazione che non è del tutto esatta né teologicamente né storicamente, e che Suenens successivamente – dove descrive l’inseparabilità tra una vita esclusiva per Dio e la disponibilità per la Chiesa (69) – in parte corregge. Quando si parla cristianamente della contemplazione della fede, non si deve partire dal concetto greco-filosofico, che la intende come una ‘ascesa’ univoca-unilaterale dal temporale all’eterno, dal mondo a Dio, un concetto che riappare segretamente non soltanto nel monachismo siro-egiziano (Evagrio e la sua scuola), ma anche in Tommaso d’Aquino, e che soltanto esternamente e successivamente può essere collegato con l’apertura apostolica al mondo. La contemplazione deve essere piuttosto concepita in modo biblico, concreto; allora implica la risposta totalitaria del credente alla parola di Dio: dedizione illimitata a questa parola ed ai suoi scopi di redenzione del mondo. Cosi Antonio, padre del monachismo, ha combattuto le sue esemplari battaglie, estremamente attive, contro il nemico maligno; così Origene ha assegnato ai contemplativi il compito di combattere con sommo impegno, dall’alto del monte le battaglie del popolo di Dio, al pari di Mosè, le cui braccia durante la battaglia erano sostenute verso il cielo; così Teresa ha riformato il Carmelo, per convogliare, mediante la preghiera e l’olocausto totale, forze alla Chiesa contro le perdite della riforma; così la piccola Teresa ha concepito ancor più ampiamente la sua contemplazione come centro dell’opera missionaria della Chiesa, e dalla Chiesa è stata elevata – evidentemente a conferma della sua concezione – a patrona universale delle missioni; così nel deserto Charles de Foucauld lotta quotidianamente dinanzi al tabernacolo per la piena risposta di amore, ben sapendo di non poter dare al mondo un aiuto più profondo di questo.

Se si vogliono consolare le monache ‘vecchio stile’ col dire che anche oggi, accanto alle crescenti comunità laiche, hanno ancora una ragion d’essere nella Chiesa perché «danno a tutti una testimonianza (témoignage) visibile» (61), ciò è indubbiamente vero, ma è ben lungi dal bastare; l’azione decisiva della vera contemplazione, a dispetto di tutte le statistiche, sta completamente nel campo invisibile; la fede si tiene senza calcolo e senza riflessione a disposizione di Dio, ed al credente, in definitiva, non importa nulla di ciò che Dio ne fa. Egli è preso, sfruttato a tal punto che la via della contemplazione, percorsa onestamente e rettamente, sfocia normalmente in una notte: nel non vedere più perché si prega, perché si è rinunciato; nel non sapere più se Dio sta ancora ad ascoltare, se vuole ed accetta ancora il sacrificio...

Vogliamo sperare che la Chiesa non venda i suoi misteri più profondi ed i suoi privilegi più alti per il piatto di lenticchie di soddisfazioni apostoliche esterne; che non sacrifichi i rischi estremi, giustificabili soltanto teologicamente, per ogni sorta di considerazioni psicologiche, sociologiche e statistiche: sarebbe uno dei livellamenti descritti all’inizio. Non significa prestare ascolto allo Spirito santo il gettare al vento il messaggio di Teresa di Lisieux, di Edith Stein e di Charles de Foucauld. Infatti la ‘testimonianza’, che qui viene resa, non è primariamente una testimonianza per la forma di vita esclusivamente contemplativa, che rimarrà sempre soltanto privilegio di pochi eletti, ma una testimonianza per il fondamento contemplativo di ogni esistenza cristiana, quale abbiamo cercato di indicare.

Chi non vuole ascoltare prima Dio, non ha nulla da dire al mondo. Si ‘affannerà per molte cose’, come fanno tanti sacerdoti e laici oggi, fino allo svenimento ed all’esaurimento, trascurando l’unica cosa necessaria; anzi, dirà parecchie bugie a se stesso per dimenticare o giustificare questa trascuranza. Tali giustificazioni si possono sentire oggi dovunque dalla bocca di laici e di sacerdoti; c’è da inorridire. I tempi della contemplazione, si dice, sarebbero definitivamente tramontati. La contemplazione apparterrebbe ad un’epoca culturale passata – rivive qui il concetto filosofico antico della teoria -, in cui era cosa nobile (ed anche riservata ai nobili, che avevano agio di farlo) guardare le stelle e provare in ciò un desiderio dell’assoluto. Lo sguardo di chi oggi guarda romanticamente al cielo, non incontra che ciminiere fumanti. Viviamo in un freddo mondo di lavoro, che impegna inesorabilmente tutto l’uomo. Anzi, nel quartiere moderno, nell’appartamentino moderno con le sue stanze comuni canti, piene del rumore dei bambini, non c’è neppur più un angolo, dove uno si possa concentrare e gustare la concentrazione. Tanto meno il sacerdote della grande città, assillato giorno e notte: se finisce a singhiozzo il suo breviario, ciò costituisce il massimo che si possa pretendere da lui. Oggi si tratta di incontrare Dio nell’azione, altrimenti non lo si troverà. Il mondo è avviato e nessuno ne fermerà più il motore.

Così essi parlano e non desiderano più sentire argomenti contrari. Si sono rassegnati e pensano che la loro rinunzia (così comoda) abbia qualcosa di duramente realistico, forse di eroico. «Dio servito per primo», diceva Giovanna d’Arco. Sì: quando Dio è servito per primo, tutta la nostra vita nel mondo può acquistare il senso di un servizio divino, il nostro servaggio nella fabbrica dell’umanità può essere un atto di libera dedizione ed accettazione, il nostro incontro continuo ed inevitabile con le cose palesemente mondane può essere sorretto e guidato da un incontro con Dio, che tanto più efficacemente accompagna e ritorna dovunque alla memoria, quanto più è posto con forza all’inizio della nostra esistenza di fede. La decisione fondamentale ‘sia fatta la tua volontà’ – proprio là dove essa intralcia e mi pone esigenze che vanno al di là dei miei progetti – prevale in tutto ciò che ci reclama: in questo senso la vita del mondo e la sua azione diventano esercitazione nella contemplazione. Infatti ora non abbiamo Dio dietro le spalle, ma camminiamo in attesa aperta verso di lui.

Possiamo avvicinarci a Dio solo se, al di là di tutti i nostri propri problemi, rimane in noi spazio libero per ciò che la sua volontà ha di inatteso. E se tutti i programmi, le previsioni e i calcoli son posti in movimento e tenuti in sospeso da ciò che c’è sempre di più grande della sua chiamata che giunge a noi. Soltanto in questa disposizione di assoluta risolutezza ad obbedire innanzi tutto, il cristiano può rivendicare la parola ‘amore’ per la sua vita e la sua azione. Diversamente il suo atteggiamento ed il suo impegno non supererebbero il livello di un impegno umano medio, che, stando all’esperienza, sovente rende molto di più ed è pronto a maggiori sacrifici che non quello di taluni cristiani.

[1] Nel suo libro Krise und Erneuerung der Frauenorden (Crisi e rinnovamento degli ordini femminili).

Hans Urs Von Balthasar

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