Margherita, quando suo marito morì, aveva 29 anni. Piuttosto giovane per il peso da portare. Ma non spese molti giorni nel compiangere se stessa. Si rimboccò le maniche e cominciò a lavorare. In casa c'erano i piatti da lavare, la cucina da rigovernare, l'acqua da andare ad attingere, le camere da riassettare. Questo nei momenti “liberi”, perché nelle ore “buone” c'erano campagna e stalla da mandare avanti.
Come altre sode contadine dei suoi paesi, falciava l'erba, arava, seminava, mieteva il grano, ne faceva covoni, li trasportava sull'aia, trebbiava. Rincalzava le viti con la zappa, pensava alla vendemmia e alla svinatura.
Aveva le mani sciupate dal lavoro, ma sapeva accarezzare dolcemente i suoi bambini. Perché era una lavoratrice, ma soprattutto era mamma dei suoi figli.
Li tirò su con dolcezza e fermezza. Cent'anni dopo, gli psicologi scriveranno che il bambino, per crescere bene alla vita, ha bisogno dell'amore esigente del padre, e di quello sereno e gioioso della madre. E diranno che essere orfani significa correre il rischio di squilibrarsi affettivamente su un versante solo: nella mollezza senza nerbo per i figli di mamma, nella aridità ansiosa per i figli di papà.
Mamma Margherita trovò in se stessa un istintivo equilibrio, che le fece unire e alternare la fermezza calma e la gioia rasserenante. Don Bosco, nel suo stile educativo, dovrà molto a sua madre.
Una persona grande
“Alla base e al vertice della sua pedagogia istintiva - scrive l'Auffray - Margherita Occhiena aveva posto il senso religioso della vita”.
Dio ti vede era una delle sue parole più frequenti. Lasciava andare i bambini a scorrazzare nei prati vicini, e mentre partivano diceva: “Ricordatevi che Dio vi vede”. Se li vedeva in preda a piccoli rancori, o sul punto di inventare una bugia per cavarsi d'impiccio: “Ricordatevi che Dio vede anche i vostri pensieri”.
Ma non era un Dio-carabiniere quello che lei scolpiva nella mente dei suoi piccoli. Se la notte era bella e il cielo stellato, mentre stavano a prendere il fresco sulla soglia diceva: “È Dio che ha creato il mondo e ha messo lassù tante stelle”. Quando i prati erano pieni di fiori, mormorava: “Quante cose belle ha fatto il Signore per noi”. Dopo la mietitura, dopo la vendemmia, mentre tiravano il fiato dopo la fatica del raccolto, diceva: “Ringraziamo il Signore. È stato buono con noi. Ci ha dato il pane quotidiano”.
Anche dopo il temporale e la grandine che aveva rovinato tutto, la mamma invitava a riflettere: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Lui sa il perché. Se siamo stati cattivi, ricordiamoci che con Dio non si burla”.
Accanto alla mamma, ai fratelli, ai vicini, Giovanni imparò così a vedere un'altra persona, Dio. Una persona grande. Invisibile ma presente dappertutto. Nel cielo, nelle campagne, nella faccia dei poveri, nella voce della coscienza che diceva: “Hai fatto bene, hai
fatto male”. Una persona in cui sua madre aveva una confidenza illimitata e indiscutibile. Era padre buono e provvidente, dava il pane quotidiano, a volte permetteva certe cose (la morte del papà, la grandine sulla vigna) difficili da capire: ma “Lui” sapeva il perché, e questo doveva bastare.
La lippa e il sangue
Giovanni aveva quattro anni, quando sua madre gli assegnò le prime tre o quattro verghe di canapa macerata da sfilacciare. Un lavoro da poco, ma un lavoro. Cominciò in questa maniera a dare il suo piccolo contributo alla famiglia, che viveva per il lavoro di tutti.
Più tardi si unì ai fratelli nel fare i servizi di casa: andare a far legna, accendere il fuoco soffiando delicatamente sulle braci custodite sotto la cenere (per risparmiare le cannucce intinte nello zolfo), attingere acqua, sbucciare legumi, spazzare le stanze, pulire la stalla, portare al pascolo le mucche, sorvegliare la cottura del pane al forno.
Ma subito dopo i piccoli lavori (controllati dalla mamma), via a giocare. Lo spazio non occorre cercarlo: attorno ci sono prati a vista d'occhio. Gli amici aspettano: ragazzetti forti, vivaci, a volte rozzi e sboccati. Vanno a scovare tane di talpe, nidi di uccelli, a disputare partite interminabili.
Uno dei giochi più animati è la “lippa”, un base-ball primitivo. Un pomeriggio Giovannino rientra a casa innanzitempo, con la faccia che gronda sangue. Il cilindro di legno della “lippa” lo ha colpito violentemente su una guancia. Margherita è preoccupata, e mentre lo medica:
- Un giorno o l'altro mi torni con un occhio rovinato. Perché vai con quei ragazzi? Lo sai che qualcuno è un poco di buono.
- Se è per farvi piacere, non ci andrò più. Ma vedete, mamma, quando ci sono io stanno più buoni. Certe parole non le dicono.
Margherita lo lascia andare.
Il coraggio cresce più in fretta della statura.
Giovanni ha cinque anni, Giuseppe sette. Margherita li ha mandati a pascolare un piccolo branco di tacchini. Mentre gli animali danno la caccia ai grilli, i fratelli giocano. A un tratto, contando sulle dita, Giuseppe grida che manca un tacchino.
Cercano affannati. Niente. Un tacchino è un affare grosso, non può sparire così. Girando attorno a una siepe, Giovanni scopre un uomo. Pensa di colpo: “L'ha rubato lui”. Chiama Giuseppe e si avvicina risoluto:
- Restituiteci il tacchino.
Il forestiero li guarda meravigliato:
- Un tacchino? E chi l'ha visto?
- L'avete rubato voi. Tiratelo fuori. Altrimenti grideremo “al ladro” e vi prenderanno a bastonate.
Due bambini si possono far correre con quattro sculaccioni. Ma la risolutezza di questi due lo mette a disagio. Ci sono contadini che lavorano poco lontano, e se si mettono a urlare, può capitare di tutto. Va a tirare fuori dalla siepe un sacco, e cava il tacchino.
- Volevo soltanto farvi uno scherzo.
- Non è uno scherzo da galantuomo - rimbeccano i piccoli mentre se ne va. Alla sera, come sempre, rendiconto alla madre.
- Avete corso un bel rischio.
- E perché?
- Prima di tutto non eravate sicuri che fosse lui.
- Ma non c'era nessun altro lì vicino.
- Questo non basta per chiamare uno ladro. E poi voi siete piccoli, e lui un uomo. Se vi avesse fatto del male?
- Allora dovevamo lasciarci prendere il tacchino?
- Avere coraggio non è male. Ma meglio perdere un tacchino che venire conciati per le feste.
- Uhm - mormora Giovannino pensoso -. Sarà come dite voi, mamma. Ma era un tacchino bello grosso.
Una verga nell'angolo
Margherita era una mamma dolcissima, ma energica e forte. I figli sapevano che quando diceva no era no. Non c'erano capricci che le facessero cambiar parere.
In un angolo della cucina c'era “la verga”: un bastoncino flessibile. Non l'usò mai, ma non la tolse mai da quell'angolo.
Un giorno Giovanni ne combinò una grossa. Forse, preso dalla fretta di andare a giocare, lasciò aperta la conigliera e tutti i conigli scapparono per i prati. Una fatica nera riprenderli tutti.
Rientrati stanchi in cucina, Margherita indicò l'angolo:
- Giovanni, vammi a prendere quella verga. Il bambino si ritrasse verso la porta: - Che cosa volete farne?
- Portamela e vedrai.
Il tono era deciso. Giovanni la prese, e porgendogliela da lontano: - Voi volete adoperarla sulle mie spalle.
- E perché no, se me ne combini di così grosse?
- Mamma, non lo farò più. La madre sorrideva, e anche lui.
In una giornata di sole rovente, Giovanni e Giuseppe tornano dalla vigna con una sete da svenire. Margherita va al pozzo, tira su un secchio d'acqua fresca, e con la mestola di rame dà da bere prima a Giuseppe.
Giovanni allunga il musetto. È offeso di quella preferenza. Quando la mamma porge da bere anche a lui, fa segno che non ne vuole più. Margherita non dice niente. Porta il secchio in cucina e chiude la porta. Un istante, e dentro arriva Giovanni:
- Mamma.
- Cosa c'è?
- Date da bere anche a me?
- Credevo non avessi più sete.
- Perdono, mamma.
- Così va bene -, e porge anche a lui la mestola sgocciolante.
Otto anni. Giovannino è un fanciullo fiorente, dalla risata squillante. Piccolotto e solido, occhi neri, capelli ricciuti e folti come la lana di un agnello. Ha il gusto dell'avventura e del rischio. Non si lamenta mai delle sbucciature alle ginocchia.
È già riuscito ad arrampicarsi su qualche albero, a caccia di nidi di uccelli. Una volta gli è andata male. Un nido di cinciallegre era molto profondo dentro una fessura del tronco. Ha ficcato giù il braccio fin oltre il gomito, ma poi non è più riuscito a tirarlo indietro. Ha provato e riprovato, ma in quella specie di morsa il braccio gli si è gonfiato. Giuseppe, che lo guardava di sotto, ha dovuto correre a chiamare la mamma. Margherita è andata con una scaletta, ma non c'è riuscita nemmeno lei. Ha dovuto andare a cercare un contadino con uno scalpello. Giovanni, intanto, aveva i goccioloni alla fronte, e Giuseppe gli gridava di sotto (con più paura di lui): “Tieniti forte che adesso arrivano!”.
Il contadino ha avvolto il braccio del ragazzino nel grembiule di Margherita, poi ha cominciato a scalpellare. Sono bastati sette o otto colpi, e il braccio è scivolato fuori.
Margherita non ha avuto il coraggio di sgridarlo. Era mortificato come un cagnolino sotto la pioggia. Gli ha soltanto detto:
- Non combinarmene sempre una nuova.
Il diavolo in soffitta
Una sera d'autunno, Giovannino si trova con la mamma presso i nonni a Capriglio. Durante la cena la numerosa famiglia è attorno alla tavola, avvolta nel buio appena rotto dal lume a olio. Ed ecco un rumore sospetto sulle teste. Si ripete una, due, tre volte. Tutti guardano in su, trattenendo il fiato. Una pausa di silenzio, poi di nuovo, dal soffitto, il rumore misterioso, seguito da uno strascico lungo e sordo. Le donne si fanno il segno della croce, i bambini si stringono alle mamme.
Una vecchia comincia a raccontare con parole circospette come, in tempi passati, sul solaio si sentivano rumori prolungati, gemiti, urli spaventosi. “Era il diavolo. E adesso è tornato”, mormora segnandosi.
Giovanni rompe il silenzio dicendo tranquillo:
- Io credo che sia la faina, non il diavolo.
È zittito come un impertinente. Ed ecco ancora il tonfo, lo strascichio lungo, lamentoso.
Il soffitto di legno, dove tutti guardano impauriti, fa da pavimento a un lungo sottotetto, usato come granaio. Giovannino rompe ancora il silenzio balzando su dalla sedia e dicendo:
- Andiamo a vedere.
- Sei matto! Margherita fermalo! Col diavolo non si scherza! Ma il ragazzo è già in piedi, prende una lanterna, l'accende, afferra un bastone. Margherita gli dice:
- Non sarebbe meglio aspettare domani?
- Mamma, non avrete mica paura anche voi?
- No. Andiamo a vedere insieme.
Salgono la scala di legno. Anche gli altri si uniscono, reggendo lanterne e stringendo bastoni. Giovanni spinge la porta del solaio, alza la lanterna per vederci meglio. Ecco il grido soffocato di una donna:
- Là, in quell'angolo, guardate!
Tutti guardano: un cesto da grano capovolto ondeggia, si muove, avanza. Giovanni fa un passo avanti.
- No, attento! È un cesto stregato!
Giovanni lo afferra con una mano e lo tira su. Una gallina grossa e arruffata, prigioniera lì sotto da chissà quante ore, schizza via come una palla da fucile, schiamazzando.
Attorno a Giovanni, ora, ridono tutti come matti. Il diavolo era una gallina. Il cesto, leggero, era appoggiato al muro in equilibrio instabile. Siccome, imprigionati tra i vimini, rimanevano dei chicchi di frumento, la gallina era andata a beccarli, ma il cesto le si era rovesciato sopra, prendendola prigioniera. Stanca di star là sotto e affamata, la povera bestia cercava di uscire spingendo in qua e in là il cesto, che andava a sbattere contro gli altri oggetti del solaio provocando tonfi e lunghi strascichi sul pavimento.
La macchia d'olio si allargava
Il giovedì di ogni settimana, Margherita va al mercato di Castelnuovo. Porta con sé due fagotti con i formaggi, i polli, le verdure da vendere. Torna con la tela, le candele, il sale, e qualche piccolo regalo per i figli, che quando il sole comincia a tramontare le vanno incontro, al galoppo giù per il sentiero.
Un giovedì, durante una tiratissima partita alla “lippa”, il piccolo cilindro di legno finisce sul tetto.
- Sull'armadio della cucina ce n'è un altro - dice Giovanni -. Vado a prenderlo.
Parte di corsa. L'armadio però è alto per lui, e deve montare su una sedia. Si alza sulla punta dei piedi, tende bene il braccio, e patatrac. Il vaso dell'olio che stava sull'armadio cade sul pavimento, si rompe, l'olio si allarga sulle mattonelle rosse.
Giuseppe, non vedendo tornare il fratello, arriva lui pure al galoppo. Vede il disastro, si porta la mano alla bocca:
- Chissà la mamma, stasera.
Tentano di rimediare. Prendono la scopa. I cocci si fa in fretta a raccoglierli. Ma la macchia d'olio è sempre lì, e si allarga come la paura.
Giovanni passa una mezz'ora in silenzio. Poi tira fuori di tasca il suo coltelluccio, va alla siepe, taglia un bel ramo flessibile e si mette in un canto a lavorarlo. Intanto lavora anche con la mente: studia le parole che dovrà dire alla mamma.
Alla fine la corteccia del ramo è tutta lavorata a fregi e disegnini.
Al tramonto, vanno incontro alla mamma. Giuseppe, incerto, rimane un po' indietro. Giovanni invece corre:
- Buona sera, mamma. Come state?
- Bene. E tu, sei stato buono?
- Uhm mamma, guardate - e le porge il ramo tutto fregiato.
- Cos'hai combinato?
- Questa volta merito proprio che mi picchiate. Per disgrazia, ho rotto il vaso dell'olio.
Le racconta tutto d'un fiato, e conclude:
- Vi ho portato una verga perché le merito proprio. Prendetela, mamma.
E le porge il ramo guardandola di sotto in su, con quegli occhi mezzo pentiti e mezzo furbi.
Margherita lo guarda qualche istante, poi scoppia in una risata. E ride anche Giovanni.
La mamma lo prende per mano e vanno verso casa.
- Lo sai che mi stai diventando un furbone, Giovanni? Mi dispiace per il vaso dell'olio, ma sono contenta che non sei venuto a contarmi bugie. Però stai attento un'altra volta, perché l'olio costa caro.
Ora si avvicina anche Giuseppe, che ha visto svanire la bufera di cui aveva paura. Giuseppe, 10 anni, sta crescendo mite e tranquillo. Non ha la vivacità e la turbolenza di Giovanni. È paziente, tenace, ingegnoso. Vuole un bene dell'anima alla mamma e al fratellino, e ha un po' paura di Antonio.
“Sono la tua mamma, non la tua matrigna”.
Antonio ha sette anni più di Giovanni, e si sta rivelando un adolescente chiuso in se stesso, con manifestazioni di violenza e di grossolanità.
A volte picchia selvaggiamente i fratellini, e Margherita deve correre a toglierglieli dalle mani. Probabilmente è soltanto un ragazzo ipersensibile che le morti successive della madre e del padre hanno traumatizzato.
Prova verso Margherita un sentimento di amore-odio che lo fa passare da momenti di tenerezza a scatti impressionanti di ira. A volte, quando viene ripreso per i suoi capricci, si avanza contro di lei a braccia tese e pugni chiusi. Con voce alterata le grida: “Matrigna!”.
Margherita potrebbe ridestarlo con quattro robusti ceffoni (e le altre mamme, in questi tempi, non hanno molti scrupoli a farlo). Ma prova ripugnanza a picchiare. Non ha mai alzato le mani su di lui. Gli ripete solo con fermezza:
- Antonio, io sono la tua mamma, non la tua matrigna. Adesso calmati e ripensaci. Vedrai che hai torto a comportarti così.
Quando la rabbia sbolliva, Antonio le andava a chiedere scusa. Ma si riaccendeva facilmente, e Giuseppe e Giovanni provavano delle grandi paure a quelle scenate.
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