Lo studio e la zappa
Durante l'inverno, il lavoro in campagna era ridotto quasi a zero. Antonio permise che studiassi quanto volevo. Venuta però la primavera, cominciò a lamentarsi. Diceva che lui doveva logorarsi la vita in lavori pesanti, mentre io facevo il signorino. Ebbe vivaci discussioni con me e con mia madre. Alla fine, per non rompere la pace in famiglia, decidemmo che sarei andato a scuola il mattino presto. Il resto della giornata l'avrei impiegato nei campi.
Ma come avrei potuto studiare le lezioni e fare le traduzioni? Mi arrangiai così. Andando e tornando da scuola cercavo di studiare. Arrivato a casa, con una mano prendevo la zappa, con l'altra la grammatica. Lungo la strada ripetevo pronomi e verbi. Giunto sul luogo del lavoro, davo un malinconico sguardo alla grammatica, la mettevo in un angolo al sicuro, e insieme agli altri mi mettevo a zappare, a sarchiare, a raccogliere l'erba.
Quando arrivava l'ora della merenda, mi tiravo in disparte. Con una mano tenevo la pagnotta, con l'altra riprendevo la grammatica e studiavo. Stessa cosa tornando a casa. Il tempo del pranzo, della cena, qualche mezz'ora strappata al sonno erano gli unici tempi in cui potevo fare i compiti scritti. Nonostante tanto lavoro e tanta buona volontà, Antonio non era soddisfatto. Un giorno, con tono deciso, disse a mia madre e a mio fratello Giuseppe:
- E’ ora di farla finita con quella grammatica. Io sono diventato grande e grosso e non ho mai avuto bisogno di libri. In uno scatto di dolore e di rabbia risposi:
- Anche il nostro asino non è mai andato a scuola, ed è più grosso di te.
A quelle parole andò sulle furie, e a stento potei evitare scappando una pioggia di pugni e di schiaffi.
Una manciata di giorni felici
Mia mamma era costernata, io piangevo. Don Calosso, informato dei guai che mi stavano capitando in famiglia, mi chiamò e mi disse:
- Giovanni, tu hai avuto molta confidenza in me, e non voglio che rimanga deluso. Lascia quel tuo fratello violento, e vieni a stare con me.
Riferii subito quell'offerta a mia mamma, ed essa ne fu contenta. In aprile cominciai a passare tutta la giornata con il cappellano, tornando a casa solo per dormire.
Avevo una gioia che nessuno può immaginare. Don Calosso era diventato il mio idolo. Gli volevo bene come a un papà, pregavo per lui, lo servivo volentieri in tutto quello che potevo. Avrei voluto fare cose fantastiche per lui, dare anche la mia vita. Negli studi, facevo più progressi con lui in un giorno che a casa in una settimana. Quell'uomo di Dio mi voleva veramente bene. Più volte mi disse:
- Non preoccuparti per l'avvenire. Finché vivrò non ti lascerò mancare niente. E se morirò, penserò lo stesso al tuo futuro.
Don Calosso se ne va
Tutto andava molto bene. Ero pienamente felice, quando un disastro troncò le mie speranze. Una mattina di aprile don Calosso mi aveva mandato dai miei parenti per una commissione. Ero appena arrivato a casa, quando arriva una persona di corsa, e mi avverte di tornare subito da lui. Era stato colpito da apoplessia, chiedeva di vedermi.
Non corsi, volai. Il mio carissimo don Calosso era a letto, non poteva più parlare. Ma mi riconobbe, mi diede la chiave del cassetto dov'era il denaro, e mi fece cenno di non darla a nessuno.
Dopo due ore di agonia, se ne andò con Dio. Con lui moriva ogni mia speranza. Ho sempre pregato, e finché vivrò pregherò ogni mattina per quel mio grandissimo benefattore. Quando arrivarono i suoi eredi, consegnai loro la chiave e ogni altra cosa.
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