31. STUDENTI IN CAPPOTTO MILITARE

31. STUDENTI IN CAPPOTTO MILITARE

 

1° novembre 1851. Don Bosco arriva al suo paese, Castelnuovo d'Asti. Deve fare in chiesa, sul tardi, la predica per la commemorazione dei defunti.

Tra i chierichetti c'è un ragazzino che lo accompagna sul pulpito, e che rimane a guardarlo fisso per tutto il tempo della predica. Tornati in sacrestia, don Bosco vede che continua a guardarlo in silenzio. Lo chiama:

- Sembra che tu abbia qualcosa da dirmi, non è così?
- Sissignore. Io voglio venire a Torino con lei per studiare e farmi prete.
- Bene. Allora di' a tua mamma di venire dopo cena nella casa del parroco.

Quel ragazzo si chiama Giovanni Cagliero, ed è orfano di padre. La mamma arriva con Giovanni dopo cena:

- Dunque - scherza don Bosco - è vero Teresa che volete vendermi vostro figlio?

- Ah no! - risponde ridendo la donna -. Qui da noi si vendono i vitellini. I ragazzi si regalano.

- Meglio ancora. Preparategli un po' di biancheria, e domani me lo porto con me.
Il giorno dopo, all'alba, Giovanni Cagliero era in chiesa. Servì Messa a don Bosco, fece colazione con lui, baciò la mamma, e con il suo fagottino sotto il braccio disse impaziente: - Allora, don Bosco, andiamo?

“A dormire nel canestro dei grissini”.
Fecero il lungo cammino a piedi. Giovanni lo fece in pratica due volte, perché mentre parlava con don Bosco correva avanti, inseguiva i passeri nei prati, saltava i fossi. Ricordava Cagliero: “Don Bosco durante quel viaggio mi fece mille domande, e io gli diedi mille risposte. Da quel momento non ebbi mai più nessun segreto con lui. Sentendo le mie marachelle, scherzando mi diceva che adesso avrei dovuto diventare più buono. Finalmente giungemmo a Torino.

Era la sera del 2 novembre, ed eravamo stanchi. Don Bosco mi presentò a mamma Margherita dicendo:

- Mamma, ti ho portato un ragazzetto di Castelnuovo. Margherita rispose:
- Oh sì, tu non fai altro che cercare ragazzi, e io non so più dove metterli.
- Questo qui è così piccolo - scherzò don Bosco - che lo metteremo a dormire nel canestro dei grissini. Con una corda lo tireremo su, sotto la trave, come una gabbia di canarini.

Mamma Margherita si mise a ridere e mi cercò un posto. Non c'era davvero un angolo libero, e per quella sera dovetti dormire ai piedi del letto di un mio compagno.

Il giorno dopo vidi quanta povertà c'era in quella casa. I nostri dormitori, a pian terreno, erano stretti, e avevano per pavimento un selciato di pietre da strada. In cucina c'erano poche scodelle di stagno con i rispettivi cucchiai. Forchette, coltelli, tovaglioli li vedemmo molti anni dopo. Il refettorio era una tettoia. Don Bosco ci serviva a pranzo, ci aiutava a tenere in ordine il dormitorio, puliva e rappezzava i nostri abiti, e faceva tutti i più umili servizi.

Facevamo vita comune in tutto. Più che in un collegio, ci sentivamo in una famiglia, sotto la direzione di un padre che ci voleva bene, e che si preoccupava solo del nostro bene spirituale e materiale”.

Giovanni Cagliero dimostrò fin dai primi giorni ingegno vivace e umore allegro. Aveva una voglia di giocare che straripava.

Michele Rua continuava a vivere con sua mamma, ma al mattino si metteva a capo del piccolo gruppo di studenti, e insieme andavano dal professor Bonzanino. Per incarico di don Bosco, Rua doveva funzionare da “assistente”, badare che nessuno marinasse la scuola. Raramente Michele riuscì a “mettere le briglie” a Cagliero. Appena fuori dell'oratorio, Giovanni cambiava strada, di corsa raggiungeva Porta Palazzo e si fermava incantato davanti ai ciarlatani, ai baracconi. Poi via, sempre di corsa, alla scuola. Quando gli altri arrivavano era già alla porta, sudato ma felice. Michele lo guardava storto:

- Perché non vieni con noi?
- Perché a me piace fare un'altra strada, che male c'è?
- Devi essere obbediente.
- E non lo sono? Devo venire a scuola, e vengo. Devo essere puntuale, e lo sono. Cosa interessa a te se mi piace vedere i ciarlatani?
Sarebbe diventato il primo vescovo e cardinale salesiano. Accanto a don Rua sarebbe stato una delle colonne più solide della Congregazione Salesiana. Ma come temperamento, Rua e Cagliero sarebbero sempre rimasti diversissimi: diligente, costante, riflessivo Michele; estroverso, entusiasta, esuberante Giovanni. Entrambi pronti a gettarsi nel fuoco per don Bosco.

 

“Attraverserai il Mar Rosso e il deserto”.

22 settembre 1852. Michele Rua entra definitivamente come alunno interno nell'oratorio. Il giorno dopo, con don Bosco, mamma Margherita e ventisei compagni, parte a piedi per i Becchi. Don Bosco predicherà la novena del Rosario a Castelnuovo, e i ragazzi saranno ospiti di suo fratello Giuseppe.

Prima di partire, don Bosco ha chiamato Michele e gli ha detto:
- Per il prossimo anno ho bisogno che mi dia una mano sul serio a tirare avanti la baracca. Il 3 ottobre sarà la festa della Madonna del Rosario. Ai Becchi verrà il parroco di Castelnuovo, e nella cappellina ti farà indossare l'abito nero dei chierici. Tornando all'oratorio sarai assistente e insegnante dei tuoi compagni. Sei d'accordo?

- D'accordo.

La sera della festa - ricordava don Rua - sulla carrozza che li riportava a Torino, don Bosco ruppe il silenzio dicendogli:

- Mio caro Rua, adesso tu cominci una vita nuova. Ma sappi che prima di entrare nella Terra Promessa avrai da attraversare il Mar Rosso e il deserto. Se mi aiuterai, passeremo tranquillamente l'uno e l'altro, e arriveremo alla Terra Promessa.

Michele ci pensa un po' su. Non ci capisce molto. Allora rompe a sua volta il silenzio e domanda:

- Si ricorda il nostro primo incontro? Lei aveva distribuito delle medaglie, ma per me non era rimasto niente. Allora mi fece un gesto strano, come se volesse darmi metà della sua mano. Che cosa voleva dire?

- Non l'hai ancora capito? Volevo dire che noi due faremo tutto a metà. Tutto quello che sarà mio sarà anche tuo: compresi i debiti, le responsabilità, i grattacapi -. E don Bosco sorride. - Ma ci saranno anche tante cose belle, vedrai. E al termine la cosa più bella di tutte: il paradiso.

 

Garanzia per cinquant'anni.

Martedì di Pasqua 1853. Il cielo di Torino è un groviglio di nubi nere. Giovanni Francesia e Michele Rua, compagni di scuola e amici per la pelle, stanno ripassando insieme la lezione d'italiano. Michele però è distratto, assente. Sembra che una grande tristezza gli pesi addosso. Francesia, dopo avergli domandato per due volte la stessa cosa, chiude seccamente il libro e sbotta:

- Ma che cos'hai quest'oggi?
Mordendosi le labbra per non piangere, Michele mormora:
- È morto mio fratello Giovanni. La prossima volta toccherà a me.
Era l'ultimo fratello che viveva in casa. Ora la mamma, nell'alloggetto alla Fabbrica d'Armi, sarebbe rimasta sola. Don Bosco viene a sapere la notizia, e per distrarre Michele lo conduce con sé per Torino. Deve sbrigare una faccenda vicino alla chiesa della Gran Madre, in riva al Po. Camminano svelti, parlano dell'oratorio. In quei giorni Torino ha celebrato l'ottavo cinquantenario del famoso “miracolo del SS. Sacramento”, e don Bosco ha pubblicato un volumetto che è andato a ruba. A un tratto don Bosco si ferma e dice lentamente:

- Fra cinquant'anni si celebrerà il nono cinquantenario del miracolo e io non ci sarò più. Ma tu ci sarai. Ricordati allora di far ristampare il mio libretto.

Michele pensa a quella data favolosamente lontana: 1903! Scuote la testa:
- Lei fa presto, don Bosco, a dire che ci sarò ancora. Io invece ho proprio paura che la morte mi farà presto un brutto scherzo.
- Nessuno scherzo, né brutto né bello - tronca don Bosco -. Ti garantisco che fra cinquant'anni ci sarai ancora. Fai ristampare quel libretto, intesi?
(Nel 1903 don Rua c'era ancora davvero, successore di don Bosco alla testa della Congregazione Salesiana. Aveva 66 anni, e fece ristampare il libretto).

 

Signorini e pezzenti.

Mentre si dedicava ai giovani operai, don Bosco non trascurava gli studenti. Il suo scopo - l'abbiamo accennato più volte - era di prepararsi collaboratori, chierici e sacerdoti, che l'avrebbero aiutato nelle sue opere; e preparare anche vocazioni sacerdotali per le diocesi, scegliendole tra i ragazzi “che crescevano tra la zappa e il martello”, per supplire al rarefarsi dei sacerdoti.

La prima “quadretta” che aveva preparato l'avrebbe un poco deluso, come abbiamo detto. Ma Rua, Cagliero e Francesia avrebbero risposto in pieno alle sue speranze. E accanto a loro crescevano bene Angelo Savio, Rocchietti, Turchi, Durando, Cerruti.

Il convitto per studenti nacque così alla chetichella, ma si sviluppò vigoroso: 12 convittori nel 1850, 35 nel 1854, 63 nel 1855, 121 nel 1857.

Gli alunni dei primi tre anni di latino si recavano a lezione da Bonzanino, poi passavano alle classi di umanità e di retorica da don Matteo Picco, che dava lezione nelle vicinanze della Consolata.

Quelle due scuole private erano frequentate dai figli delle “famiglie bene” di Torino, che pagavano profumatamente. I ragazzi di don Bosco, invece, vi erano accettati gratuitamente.

I “signorini”, all'inizio, prendevano in giro i “pezzenti” che arrivavano a scuola indossando vecchi cappotti militari che “davano a chi li indossava un'aria di contrabbando o di caricatura”. (Quei cappotti, insieme a berretti da soldato, don Bosco li aveva avuti in regalo dal Ministero. Avevano più forma di coperta che di vestito, ricorda don Lemoyne, ma riparavano dalla pioggia e dalla neve). Bonzanino però non tollerava scherzi: “Il valore di un ragazzo - dichiarò severo - si misura sulle pagine dei compiti, e non sul colore del cappotto”. E dai voti, “pezzenti” risultarono spesso i figli di papà. I ragazzi di don Bosco studiavano. L'amore di don Bosco sapeva essere esigente, non tollerava i poltroni. Nel 1863 il professore Prieri, dell'Università di Torino, avrebbe dichiarato: “Da don Bosco si studia e si studia davvero”.

 

“Tra i ragazzi mi trovo bene”.

L'andare e venire dalla città non era l'ideale per don Bosco. Presto, poi, le aule di Bonzanino e di Picco non furono più sufficienti a contenere tutti gli studenti dell'oratorio.

Appena Giovanni Battista Francesia, 17 anni, ebbe terminato brillantemente gli studi di latino, gli fu affidata la terza ginnasiale (oggi diremmo “terza media”). Era il novembre 1855.

L'anno seguente entrarono in funzione anche la prima e la seconda, dirette da un laico amico di don Bosco, il professor Bianchi.

Nel 1861 gli alunni delle tre classi ginnasiali superavano il numero di duecento. Professori erano i giovani chierici Francesia, Provera, Anfossi, Durando, Cerruti.

Nell'appendice del “regolamento” dedicata ai giovani studenti, si prescriveva che per essere accettato all'oratorio, uno studente doveva avere tre qualità: “speciale attitudine allo studio”, “eminente pietà”, “volontà di abbracciare lo stato ecclesiastico, lasciandosi però libero di seguire la sua vocazione compiuto il corso di latinità”.

Non si insisteva drasticamente sulla condizione di orfano e di povertà totale. La maggior parte dei ragazzi studenti, però, proveniva da ambienti poveri, e l'episodio dei cappotti militari lo conferma abbastanza.

L'orario degli artigiani e degli studenti coincideva. Con la differenza evidente che le ore trascorse dai primi nei laboratori, erano impiegate dagli studenti nella scuola e nello studio.

“Fino al 1858 - ricorda don Lemoyne - don Bosco governò e diresse l'oratorio come un padre regola la propria famiglia. I giovani non sentivano grande differenza tra l'oratorio e la loro casa paterna. Non si andava in file ordinate da un luogo all'altro, non rigore di assistenti, non regole minute”.

Don Bosco si trovava tra i ragazzi ogni volta che gli era possibile. Diceva: “Senza i miei ragazzi non posso stare”. Solo un motivo grave poteva impedirgli di stare in mezzo ad essi, a conversare e a giocare. Per molto tempo si recò addirittura con loro nella sala di studio. Non perché mancassero gli assistenti, ma perché “si trovava bene”, e in un banco come quello dei ragazzi “scriveva o meditava il suo prossimo libro”.

Al termine della cena (e questo fino al 1870) una fiumana di ragazzi faceva irruzione nella stanza dove don Bosco stava finendo di mangiare. Si andava a gara per essergli più vicini, per vederlo, interrogarlo, ascoltarlo, ridere alle sue battute spiritose. I ragazzi si sedevano attorno a lui, sulle tavole di fronte, seduti, in piedi, qualcuno addirittura in ginocchio. A don Bosco piaceva molto questo incontro familiare, “il piatto migliore della sua povera cena”.

 

“Don Bosco non potè capire”.

L'atmosfera religiosa che circondava i ragazzi studenti era molto intensa. Essi erano i delicati germogli delle future vocazioni sacerdotali, e don Bosco voleva che fossero immersi in un clima di religiosità sacramentale, mariana, ecclesiale.

La confessione era un'abitudine settimanale o quindicinale per tutti. Ogni giorno, don Bosco confessava per due o tre ore. Alla vigilia delle feste anche per tutto il pomeriggio. La fama diffusissima della sua capacità di «. leggere i peccati” incoraggiava una totale confidenza. La Comunione, a pochi anni dall'inizio del convitto, era ormai un sacramento quotidiano per molti ragazzi. Pochissimi non ricevevano l'Eucaristia almeno una volta alla settimana.

La devozione alla Madonna si respirava. Raggiungerà intensità splendide negli anni di Domenico Savio, e poi nel tempo della costruzione del grande santuario di Maria Ausiliatrice.

L'amore al Papa rimase sempre un punto fisso nella mentalità cristiana di don Bosco. Lo diranno “più papalino del Papa”, e non avranno tutti i torti. Non era solo questione di parole: per obbedire all'invito di un Papa, don Bosco brucerà gli ultimi anni della sua vita. E i ragazzi assorbivano la sua mentalità.

Anche don Bosco aveva diritto di sbagliare, e secondo i moderni psicologi ed ecclesiologi sbagliò grosso nei riguardi delle vacanze in famiglia dei suoi studenti. Le voleva accorciate al massimo. Le stimava “un pericolo grave” per le vocazioni.

“Don Bosco, figlio del suo tempo - dicono oggi gli esperti -, non potè capire il valore della famiglia e della parrocchia come chiesa locale nel germinare di una vocazione”. Forse una piccola esitazione davanti a un giudizio così drastico potrebbe venire dalle cifre: solo nel 1861 nell'oratorio spuntarono 34 vocazioni sacerdotali. La sua casa fu definita dagli anticlericali “la fabbrica dei preti”. Al termine della sua vita i preti venuti fuori da Valdocco si contavano a migliaia. E non erano un esercito di repressi.

Don Bosco era persuaso che se al prete si richiede la castità, occorre difendere il giovane “chierichetto” durante il delicato periodo della pubertà. È una considerazione che, senza trascurare i valori della famiglia e della chiesa locale, occorrerà forse rimeditare.

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