33. 1855: I PICCOLI “DELINQUENTI” DELLA GENERALA

33. 1855: I PICCOLI “DELINQUENTI” DELLA GENERALA

 

Il 1855 vide un nuovo scontro durissimo tra Stato e Chiesa.

Primo Ministro, al posto di Massimo D'Azeglio, nell'ottobre 1852 era diventato Camillo Cavour. Questo inquieto e ricchissimo discendente di famiglia aristocratica stava dando una sferzata al sonnacchioso Piemonte. I piccoli avvocati di provincia abituati a declamare sui banchi del Parlamento versi di Dante e di Mameli, venivano chiamati a discutere di deficit e di bilanci, di svincoli doganali e di capitali di investimento. Le ferrovie raggiunsero la lunghezza di 850 chilometri, pari alla somma delle ferrovie di tutto il resto d'Italia. Nacquero in Liguria il complesso industriale Ansaldo (il maggiore d'Italia), i cantieri Oderò e Orlando. Si diede impulso alla canalizzazione nel Vercellese. L'agricoltura fu sollecitata dall'abolizione del dazio sul grano.

Il 28 novembre del 1854, camuffato come manovra economica, fu presentato alla Camera un progetto-legge dal ministro Urbano Rattazzi, “un preciso disegno - scrive lo storico Francesco Traniello - tendente a ridurre l'influenza della Chiesa”. Esso proponeva lo scioglimento degli ordini religiosi contemplativi, che cioè non si dedicavano all'istruzione, alla predicazione o all'assistenza degli infermi, e l'incameramento di tutti i loro beni da parte dello Stato “che avrebbe così potuto provvedere alle parrocchie più povere”.
Era un'intromissione dello Stato nella vita della Chiesa - scrive Traniello -, specialmente grave perché lo Stato si arrogava il diritto di decidere quali ordini religiosi potevano essere ancora utili alla società, secondo un criterio produttivistico. Anzi, Cavour giunse ad affermare che gli ordini disciolti non erano neppure più utili alla Chiesa. Le forze cattoliche, capeggiate dai vescovi, poterono così sostenere che la cosiddetta legge sui frati violava proprio quei principi di separazione tra Chiesa e Stato che Cavour aveva detto più volte essere alla base della sua politica.

Si prevedeva che, nonostante la forte opposizione cattolica, la legge sarebbe passata alla Camera, e di stretta misura anche al Senato. Solo il re l'avrebbe potuta bloccare.

 

“Grandi funerali a Corte!”

In un pomeriggio gelido del dicembre 1854 (i testimoni ricordavano che don Bosco aveva alle mani dei guanti vecchi e sdrusciti, e stringeva in mano un mazzetto di lettere) don Bosco raccontò a don Alasonatti, Rua, Cagliero, Francesia, Buzzetti e Anfossi di aver fatto un sogno strano: era in mezzo al cortile, e a un tratto aveva visto venire avanti un valletto di Corte, vestito di rosso, che gridò: “Gran funerale a Corte! Gran funerale a Corte!”. Disse ai suoi chierici che, appena sveglio, aveva preso la penna e aveva scritto al re raccontandogli il sogno.

Cinque giorni dopo, il sogno si ripetè. Il valletto rosso entrò a cavallo nel cortile, e gridò: “Annuncia: non gran funerale a Corte, ma grandi funerali a Corte!”. All'alba, don Bosco scrisse una seconda lettera al re, suggerendogli “che pensasse a regolarsi in modo da schivare i minacciati castighi, mentre lo pregava di impedire a qualunque costo quella legge”.

5 gennaio 1855. La regina madre Maria Teresa si ammala gravemente. Dopo un rapido declino muore il 12 gennaio. Ha 54 anni. I suoi resti vengono portati nella cripta dei Savoia a Superga il giorno 16, in una giornata rigidissima.

20 gennaio. Vengono dati gli ultimi Sacramenti alla regina Maria Adelaide, moglie del re. Essa ha dato alla luce un bambino dodici giorni prima, e non si è più ripresa. Muore nello stesso giorno. Ha soltanto 33 anni.

11 febbraio. Dopo venti giorni di grave malattia, muore il principe Ferdinando di Savoia, duca di Genova, fratello del re. Ha 33 anni.

I chierici dell'Oratorio (che soli conoscevano i sogni e le lettere di don Bosco al re) “erano esterrefatti nel vedere avverate in modo così fulmineo le profezie di don Bosco - scrive don Lemoyne -. Nemmeno in tempo di pestilenza si erano aperte tre tombe reali nel giro di un mese”.

Don Francesia affermava che re Vittorio Emanuele II era sceso due volte a Valdocco per incontrare don Bosco, e che era furioso contro di lui.

Ad ogni modo la legge di soppressione passò alla Camera (95 voti contro 23) e al Senato (53 voti contro 42). Il re la firmò il 29 maggio. Vennero così soppresse 331 case religiose che ospitavano 4540 persone. Da Roma fu annunciata la “scomunica maggiore” (il cui scioglimento è riservato al Papa) contro “autori, fautori, esecutori della legge”.

Il 17 maggio, intanto, era morto l'ultimo figlio del re, Vittorio Emanuele Leopoldo, di appena quattro mesi.

Santo o menagramo (a seconda da che parte si guardava), don Bosco aveva purtroppo previsto esattamente.

 

Il primo salesiano.
Ogni settimana, don Bosco ha continuato a riunire senza chiasso i suoi chierici. Ha parlato della povertà, della castità e dell'obbedienza, le tre virtù che la Chiesa ha sempre considerato come “strada per arrivare a Dio”. Ha loro spiegato che chiunque diventa religioso “fa voto” di queste virtù, cioè promette solennemente a Dio di praticarle nella sua vita.

Al termine del primo anno di conferenze, gli pare che il più preparato sia Michele Rua. Gli dice: “Te la sentiresti di fare i voti di povertà, castità e obbedienza per tre anni?”. Michele - lo dirà poi - crede che si tratti soltanto di “legarsi maggiormente a don Bosco”, e accetta.

25 marzo 1855, festa dell'Annunciazione. Nella povera cameretta di don Bosco si svolge una cerimonia senza solennità. Don Bosco, in piedi, ascolta. Michele Rua, in ginocchio davanti al Crocifisso, mormora una formula: “Faccio voto a Dio di essere povero, casto, obbediente, e mi metto nelle sue mani, don Bosco”. Non c'è nessun testimonio. Eppure in quel momento nasce una Congregazione religiosa. Don Bosco è il fondatore. Michele Rua è il primo salesiano.

Da quel tempo, tanto per lui come per Cagliero e per Francesia, la cosa più difficile fu dormire. Non che non ne avessero voglia: a volte cascavano dal sonno anche in piedi. Ma non riuscivano proprio a trovarne il tempo.

Dovevano continuare i loro studi e dare tutti gli esami che a quel tempo erano frequenti e durissimi. Contemporaneamente don Bosco affidava loro la scuola di religione, l'assistenza nel refettorio e nei laboratori, la scuola degli orfani.

Alla domenica li mandava negli oratori. Quello dell'Angelo Custode, nel 1855, si trovò improvvisamente senza direttore. Don Bosco nominò Michele Rua, 17 anni. Era frequentato specialmente dai piccoli spazzacamini. Ragazzi che scendevano in autunno dalla Valle d'Aosta, con in spalla la corda e la raspa. Giravano per le strade lanciando un grido caratteristico, e aspettavano che qualche famiglia li invitasse a spazzare l'interno dei camini prima che cominciasse la stagione invernale, quando i focolari avrebbero dovuto “tirare bene” per scaldare gli appartamenti.

Erano ragazzi molto piccoli, perché le canne fumarie lungo le quali dovevano arrampicarsi erano strette. Avevano faccia e mani nere di fuliggine.

Michele la domenica mattina, molto per tempo, arrivava nell'oratorio, spazzava le stanzette, metteva in ordine la chiesa. Quando arrivavano i primi ragazzi li aiutava a fare la confessione dal sacerdote che veniva per dir Messa. Alle 9 c'era già un centinaio di giovani, e Michele “faceva da don Bosco” per tutta la giornata. Iniziava i giochi, parlava con i ragazzi, s'informava delle loro pene, faceva lezione di catechismo.

La sera, mentre per le vie si accendevano i fanali a gas, i ragazzi se ne andavano. Alcuni lo accompagnavano verso Valdocco. “Ci rivediamo domenica, Michele!”.

Rua rientrava sfinito. Un boccone di cena lasciata al caldo per lui, per Cagliero, Francesia, Anfossi che tornavano dagli altri oratori, sfiniti come lui. Poi si arrampicavano fino agli abbaini del sottotetto, dov'erano i loro letti. Michele, ricordava, si addormentava di colpo, come folgorato. Cagliero si svegliò un lunedì mattino sulla sedia, con le calze in mano. Non ce l'aveva fatta a raggiungere il letto, s'era addormentato lì.

La sveglia, al mattino, suonava presto, spaventosamente presto: alle quattro. Giovanni Cagliero ricordava: “L'inverno a Torino non è uno scherzo. Nel nostro abbaino, che s'affacciava sul tetto, non c'era né riscaldamento né acqua corrente. Per lavarci, alla sera riempivamo le bacinelle d'acqua. Ma al mattino il gelo aveva trasformato l'acqua in ghiaccio. Per lavarci dovevamo aprire l'abbaino, raccogliere la neve sul tetto, e farci energiche frizioni sulle mani, la faccia, il collo. Dopo pochi minuti, la pelle fumava! Allora ci ravvoltolavamo in una coperta e cominciava il tempo di studio: Rua studiava ebraico, Francesia cesellava versi latini, io componevo esercizi di musica”.

Nel novembre 1855 ebbe inizio il ginnasio interno. Francesia, a tutte le altre occupazioni, aggiunse quella di professore di lettere, Rua di matematica, Cagliero di musica.

A volte viene da pensare: ma era matto don Bosco a lasciare che i suoi giovani aiutanti si ammazzassero così tra studio e lavoro? Poi si pensa a come sono finiti: Giovanni Cagliero, cardinale, morì a 88 anni; Michele Rua, capo della Congregazione Salesiana, visse fino a 73; Giovanni Francesia, latinista di fama europea, campò fino a 92 anni. Don Bosco “sapeva” che il lavoro, anche durissimo, non li avrebbe ammazzati tanto presto.

 

Testa a testa con il ministro.

I caricaturisti politici di quegli anni, quando raffiguravano il governo, disegnavano Camillo Cavour con il corpo di gatto e i baffi lunghi, e Urbano Rattazzi (ministro dell'Interno) come un grosso topo. “Gatàss e Ratàss” erano i soprannomi correnti a Torino.

Da Rattazzi (nonostante la posizione nettamente contraria su quasi tutte le idee politiche) don Bosco aveva libera entrata. Il ministro dell'Interno lo stimava perché “lavorava per il bene della gente”, e raccogliendo i ragazzi poveri toglieva un sacco di fastidi al governo.

Nel 1845, sulla strada per Stupinigi, era stata aperta una nuova prigione in Torino: la Generala. Era il “riformatorio dei ragazzi”, ne poteva contenere trecento. Don Bosco lo frequentava regolarmente, e cercava di farsi amici quei ragazzi condannati (al solito) per furto o per vagabondaggio.

I giovani erano divisi in tre categorie: i “sorvegliati speciali” che di notte venivano chiusi in cella, i “sorvegliati semplici” che venivano fatti rigare solo con i mezzi normali di un carcere, e i “pericolanti” che si trovavano lì solo perché qualcuno, stufo di loro, se n'era disfatto consegnandoli alla polizia. Occupavano il tempo in lavori agricoli e in laboratori interni.

Nella quaresima del 1855 don Bosco fece per tutti un accurato corso di catechismo, poi addirittura tre giorni di Esercizi Spirituali, che si conclusero con una confessione veramente generale.

Don Bosco fu così colpito della loro buona volontà che promise “qualcosa di eccezionale”. Andò dal direttore, e gli propose di organizzare per i ragazzi (intristiti dalla chiusura) una bella passeggiata fino a Stupinigi.

- Ma lei parla sul serio, reverendo? - fece quell'omino stupito. - Con la più grande serietà del mondo.
- E lo sa che io sarò responsabile di tutti quelli che fuggiranno? - Non fuggirà nessuno. Do la mia parola.

- Senta, è inutile che sprechiamo il fiato. Se vuole un permesso simile si rivolga al Ministro.

Don Bosco andò da Rattazzi, e gli espose con tranquillità il suo progetto.
- Va bene - disse il Ministro -. Una passeggiata farà certamente del bene ai giovani prigionieri. Darò gli ordini necessari perché lungo la strada si trovino carabinieri in borghese in numero sufficiente.
- Ah no - intervenne deciso don Bosco -. La sola condizione che metto è che nessuna guardia ci “protegga”. E lei deve darmene la parola d'onore. Il rischio me lo prendo io: se qualcuno scappa, metterà in prigione me.

Risero insieme. Poi Rattazzi si fece serio:
- Don Bosco, ragioni. Senza carabinieri lei non ne riporterà a casa nemmeno uno.
- E io invece dico che glieli riporterò tutti. Scommettiamo. Rattazzi ci pensò qualche secondo. Poi:
- Va bene, accetto. Mi fido di lei, e mi fido anche dei gendarmi che in caso di fuga non ci metteranno molto a riacciuffare quattro ragazzotti.

 

Una giornata di libertà.

Don Bosco tornò alla Generala e annunciò la passeggiata. Urlarono di gioia i piccoli prigionieri. Riavuto un attimo di silenzio, don Bosco continuò:

- Ho dato la mia parola che dal primo all'ultimo vi comporterete bene, e che non cercherete di scappare. Il Ministro mi ha dato la sua parola che non manderà nessuna guardia, né in divisa né in borghese. Ma adesso la parola dovete darmela anche voi: se uno solo fugge, io sarò disonorato. Non mi permetteranno certo di rimettere piede qui. Posso fidarmi di voi?

Confabularono un po' tra loro. Poi i più grandi gli dissero:
- Le diamo la nostra parola. Torneremo tutti, e ci comporteremo bene.
Il giorno dopo fu una giornata di sole tiepido, primaverile. Partirono per Stupinigi lungo i sentieri della campagna. Saltavano, correvano, gridavano. Don Bosco era in mezzo alla piccola truppa, scherzava, raccontava. Davanti a tutti andava l'asino carico delle provviste.

A Stupinigi don Bosco disse la Messa, poi fecero pranzo sull’erba, e si scatenarono in gare e giochi lungo il fiume Sangone. Visitarono il parco e il castello reale. Merenda, e al tramonto ritorno. Il somaro era scarico, e don Bosco un po' affaticato. I ragazzi lo fecero salire in groppa, e tirando le briglie e cantando arrivarono. Il direttore si affrettò a contarli: c'erano tutti.

Fu un addio triste davanti al cancello della prigione. Don Bosco li salutò a uno a uno. Tornò a casa con il cuore stretto, per averli potuti liberare per un giorno solo.

Il Ministro, quando gli fu fatto rapporto, era invece gongolante come di un trionfo.
- Perché lei riesce a fare queste cose e noi no? - domandò un giorno a don Bosco.
- Perché lo Stato comanda e punisce. Non può fare di più. Io invece voglio bene a quei ragazzi. E come prete ho una forza morale che lei non può capire.

 

Nove pagine per spiegare il suo “sistema”.

Molte volte qualcuno domandò a don Bosco di spiegare in un libro il suo “sistema di educazione”. La mancanza di tempo, l'impossibilità di fermarsi per riflettere organicamente sulle linee portanti del suo atteggiamento educativo, impedirono a don Bosco di darci un'opera “scientifica”.

Nel 1876 prese il coraggio a due mani, e tirò giù uno “schizzo” del sistema educativo “in uso nelle case salesiane”. Sono nove pagine che i Salesiani trovano nell'appendice delle loro Regole, e con le quali sono invitati a confrontarsi sovente.

Le condensiamo ripetendo che non si tratta di un'opera “scientifica”, ma di appunti condizionati dalla fretta, dalle urgenze, dai grossi problemi di quell'anno. Da essi però traspare qualcosa di vivo, la “carica” che don Bosco si portava dentro, e che probabilmente nessuna pagina avrebbe mai potuto esprimere in maniera adeguata.

Don Bosco inizia schematizzando (piuttosto grossolanamente, credo sia lecito dirlo) le maniere di educare in due settori:

- il sistema repressivo (usato nello Stato, nell'esercito). “Consiste nel far conoscere la legge ai sudditi, poi sorvegliare per conoscere i trasgressori e punirli. In questo sistema le parole devono essere severe; il superiore deve evitare ogni familiarità con i dipendenti, trovarsi di rado tra i suoi soggetti”;

- il sistema preventivo (che egli vuole usato nelle sue opere). A questo punto, don Bosco spiega il “sistema preventivo” come lo intende lui, come lo ha sempre applicato all'oratorio.

“Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione, e sopra l'amorevolezza. Esclude ogni castigo violento e cerca di tenere lontani gli stessi castighi leggeri.

Il direttore e gli assistenti sono come padri amorosi: parlano, servono di guida, danno consigli e amorevolmente correggono.

L'allievo non resta avvilito, diventa amico, nell'assistente vede un benefattore che vuol farlo buono, liberarlo dai dispiaceri, dai castighi, dal disonore.

L'educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà seguirlo anche da adulto, consigliarlo e anche correggerlo.

La pratica di questo sistema è tutta appoggiata sopra le parole di san Paolo che dice: " La carità è benigna e paziente; soffre tutto, ma spera tutto e sostiene qualunque disturbo ". Perciò soltanto il cristiano può con successo applicare il sistema preventivo. Ragione e religione sona gli strumenti di cui deve costantemente far uso l'educatore.

Il Direttore quindi deve essere tutto consacrato ai suoi educandi, trovarsi sempre con i suoi allievi quando essi sono in tempo libero”.

Di qui in avanti don Bosco tiene in evidenza specialmente i collegi, che monopolizzavano la gran parte delle forze salesiane nel 1876. Non sempre traspare il “don Bosco degli oratori”.

“I maestri, i capi d'arte, gli assistenti devono essere di moralità conosciuta. Studino di evitare come la peste ogni sorta di affezione o amicizie particolari con gli allievi. Per quanto è possibile gli assistenti precedano gli allievi nel luogo dove devono raccogliersi, non li lascino mai disoccupati.

Si dia ampia libertà di saltare, correre, schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, la declamazione, il teatrino, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina, giovare alla moralità e alla sanità. " Fate quello che volete, diceva san Filippo Neri, a me basta che non facciate peccati ".

La frequente confessione, la frequente comunione, la messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio educativo. Non mai obbligare i giovanetti alla frequenza dei santi sacramenti, ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di approfittarne.

L'educatore è un individuo consacrato al bene dei suoi allievi, perciò deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione dei suoi allievi.

L'educatore cerchi di farsi amare se vuole farsi temere (altre volte don Bosco ha scritto: " piuttosto che farsi temere ", " prima di farsi temere "). La sottrazione di benevolenza è un castigo, ma un castigo che eccita l'emulazione, dà coraggio e non avvilisce mai. La lode quando una cosa è ben fatta, il biasimo quando vi è trascuratezza, sono già un premio o un castigo.

Eccettuati rarissimi casi, le correzioni non si diano mai in pubblico, ma privatamente, lontano dai compagni, e si usi massima prudenza e pazienza per fare che l'allievo comprenda il suo torto colla ragione e la religione.

Il percuotere in qualunque modo si deve assolutamente evitare, perché irrita grandemente i giovani e avvilisce l'educatore”.

 

Il sogno dell'antico oratorio.

Se don Bosco scrive con difficoltà trattati, è un mago nel comunicare la vita vissuta, nel raccontare. Per questo, molti esperti hanno affermato che mentre il Trattatello sul sistema preventivo è piuttosto scarso, il “sogno” che don Bosco narrò in una lettera del 1884 è l'espressione più viva e affascinante della sua sensibilità educativa.

Don Bosco si trovava a Roma nel maggio di quell'anno per trattare affari importanti per la sua Congregazione. Di notte “sogna” l'antico oratorio (quello in cui vivevano Domenico Savio, Michelino Rua, Giovanni Cagliero) e lo può confrontare con quello che in quel momento vive a Valdocco. Detta allora una lettera con la data del 10 maggio 1884. “Può essere considerata come uno dei più efficaci e dei più ricchi documenti pedagogici di don Bosco”, afferma Pietro Stella. La condensiamo.
“Mi pareva di essere nell'antico oratorio nell'ora della ricreazione. Era una scena tutta vita, tutta moto, tutta allegria. Chi correva, chi saltava, chi faceva saltare. Qui si giocava alla rana, là alla barrarotta e al pallone. In un luogo era radunato un crocchio di giovani, che pendeva dal labbro di un prete, il quale narrava una storiella. In un altro luogo un chierico che in mezzo ad altri giovanetti giocava all'asino vola e ai mestieri. Si cantava, si rideva da tutte le parti, e dovunque chierici e preti, e intorno ad essi i giovani che schiamazzavano allegramente. Si vedeva che fra i giovani e i superiori regnava la più grande cordialità e confidenza. Io ero incantato a questo spettacolo, e il mio accompagnatore mi disse:

- Vede, la familiarità porta affetto e l'affetto porta confidenza. È ciò che apre i cuori, e i giovani palesano tutto senza timore ai maestri, agli assistenti e ai superiori. Diventano schietti in confessione e fuori di confessione, e si prestano docili a tutto ciò che vuol comandare colui dal quale sono certi di essere amati.

In quell'istante si avvicinò a me un antico allievo, Giuseppe Buzzetti, e mi disse:

- Vuole vedere i giovani che sono attualmente all'oratorio? Vidi tutti voi che facevate ricreazione. Ma non udivo più grida di gioia e canti, non più quel moto, quella vita come nella prima scena. Nel viso si leggeva noia, spossatezza, diffidenza. Molti giocavano con spensieratezza, ma altri se ne stavano soli, appoggiati ai pilasti, su per le scale, altri davano attorno occhiate sospettose: san Luigi si sarebbe trovato a disagio in loro compagnia.

- Quanto sono differenti da quelli che eravamo noi una volta! - esclamò Buzzetti.
- Purtroppo! Ma come si possono rianimare questi miei cari giovani?
- Con la carità.
- Ma i miei giovani non sono amati abbastanza? Tu sai gli stenti e le umiliazioni che ho sofferto e soffro per dare loro pane, casa, maestri, e specialmente la salvezza dell'anima. E i direttori, prefetti, maestri, assistenti consumano i loro anni giovanili per loro.

- Ci manca il meglio - insistette Buzzetti -. Che i giovani non solo siano amati, ma che conoscano, vedano di essere amati.

- Ma non vedono che quanto facciamo è tutto per loro amore? - No.

- Che cosa ci vuole dunque?
- Che sentendosi amati in quelle cose che loro piacciono, vedendovi partecipare ai loro gusti infantili, imparino a vedere l'amore anche in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco: la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi. Mi spiego meglio: guardi, guardi i ragazzi in ricreazione. Dove sono i nostri salesiani?

Osservai, e vidi che pochi preti e chierici si mescolavano tra i giovani e ancor più pochi prendevano parte ai loro divertimenti. I superiori non erano più l'anima della ricreazione. La maggior parte di essi passeggiavano tra loro parlando, senza badare agli allievi; altri sorvegliavano alla lontana; qualcuno avvertiva ma con atto minaccioso. Qualche salesiano avrebbe voluto entrare in qualche gruppo, ma i giovani cercavano di allontanarsi da lui.

Allora Buzzetti continuò:
- Negli antichi tempi lei stava sempre in mezzo a noi, specialmente in tempo di ricreazione. Si ricorda di quei begli anni? Era un pezzo di Paradiso, un'epoca che ricordiamo sempre con amore, perché l'affetto era una cosa normale, e noi per lei non avevamo segreti.

- Certamente. E allora tutto era gioia per me. Ora però vedi come gli affari moltiplicati e la mia sanità mi impediscono di comportarmi come allora.

- Ma se lei non può, perché i suoi salesiani non prendono il suo posto? Devono amare ciò che piace ai giovani, e i giovani ameranno ciò che piace ai superiori. Ora i superiori sono considerati come superiori e non più come padri, fratelli e amici; quindi sono temuti e poco amati. Perciò se si vuol fare un cuor solo e un'anima sola, per amore di Gesù bisogna che si rompa la barriera di diffidenza e sia sostituita dalla confidenza cordiale. L'obbedienza guidi l'allievo come la madre guida il fanciullino. Allora regnerà nell'oratorio la pace e l'allegria antica.

- Come fare per rompere questa barriera?

- Familiarità coi giovani specialmente in ricreazione. Senza familiarità non si dimostra l'affetto, e senza questa dimostrazione non ci può essere confidenza. Chi vuol essere amato bisogna che faccia vedere che ama. Gesù Cristo si fece piccolo coi piccoli e portò le nostre infermità. Ecco il maestro della familiarità! Il maestro visto solo in cattedra è maestro e niente più, ma se va in ricreazione coi giovani diventa come fratello. Chi sa di essere amato, ama. E chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani. Questa confidenza mette una corrente elettrica fra i giovani e i superiori. Questo amore fa sopportare ai superiori le fatiche, le noie, le ingratitudini, i disturbi, le mancanze, le negligenze dei giovanetti. Gesù Cristo non spezzò la canna che stava per rompersi, non spense il lumino che vacillava. Ecco il vostro modello. Allora non si vedrà più chi lavorerà per vanagloria, chi punirà solamente per vendicare l'amor proprio ferito, chi si lascia rubare il cuore da una creatura e per far la corte a quella trascura tutti gli altri ragazzi, chi per rispetto umano ha paura di ammonire chi va ammonito. Perché si vuole sostituire alla carità la freddezza di un regolamento?”.

Don Bosco concludeva quella lunga lettera con queste parole che dettò piangendo (secondo la testimonianza del segretario):

“Basta che un giovane entri in una casa salesiana, perché la Vergine SS. lo prenda subito sotto la sua protezione speciale. O miei cari figliuoli, sì avvicina il tempo nel quale dovrò staccarmi da voi e partire per la mia eternità. Sapete che cosa desidera da voi questo povero vecchio che per i suoi cari giovani ha consumato tutta la vita? Nient'altro fuorché ritornino i tempi felici dell'oratorio: i giorni dell'affetto e della confidenza tra i giovani e i superiori; lo spirito di condiscendenza e sopportazione, per amore di Gesù Cristo, degli uni verso gli altri; i giorni dei cuori aperti con tutta semplicità e candore; i giorni della carità e della vera allegrezza per tutti”.

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