Dopo aver tracciato qualche linea di storia del collegio di Clermont, cercheremo di dare una occhiata diretta all'ambiente esterno ed interno.
Dopo aver tracciato qualche linea di storia del collegio di Clermont, cercheremo di dare una occhiata diretta all'ambiente esterno ed interno.
L'edificio si estendeva, come abbiamo detto, per circa 96 metri, a ponente, lungo la Via Saint-Jacques, e li erano allineate le aule la cui struttura era assai più moderna che in certi altri collegi rimasti arretrati: le stanze erano grandi e luminose. L'inconveniente principale, se mai, poteva consistere nel cigolio continuo dei carri e nel vocio della gente, essendo la Via Saint-Jacques una strada di fitto movimento: ma, nel complesso, i locali d'insegnamento risultavano ottimi.
Al lato opposto, cioè verso levante, era l'abitazione dei religiosi, chiamata «Collegio alto»; nell'ala sinistra, a settentrione, si trovava il pensionato, «Collegio basso», un agglomerato di casupole misere, brutte, ove tanti e tanti studenti cercavano un posto.
Per lungo tempo bisognò contentarsi di tre cappelle provvisorie, due per i Padri, una, più vasta, per gli studenti.
Il 20 aprile 1582 il Re Enrico terzo in persona venne a porre la prima pietra della chiesa da costruire; qualche tempo dopo - assai breve - lo stesso Re fece una fondazione per mantenere e istruire dodici studenti, nati da genitori poveri e onesti, nell'abbazia Saint-Victor-lez-Paris.
Possiamo calcolare che, al momento in cui Francesco entrò nel collegio di Clermont, il complesso dei religiosi professi, degli scolastici insegnanti, dei religiosi studenti di teologia (cioè prossimi alla laurea), di casistica morale, di filosofia, assommasse a una ottantina: quanto al numero degli studenti si poteva parlare di millecinquecento laici dei quali 260 interni, cioè pensionanti. Qualche anno dopo le classi erano undici, quattro di grammatica, due di umanità, tre di filosofia, una di teologia scolastica, una di casistica morale.
Nel 1580 un figlio naturale di Carlo nono si trovava nel collegio, e nel 1582 il Re Enrico terzo venne a trovarlo: in quella circostanza, conversò volentieri con gli scolari e lasciò al collegio una borsa di 1000 scudi d'oro che venne subito impiegata nell'acquisto di una casa limitrofa.
Le caratteristiche dell'insegnamento dei Gesuiti consistevano in alcuni elementi nuovi: introdurre negli studi un ordine preciso, chiaro, attuabile; stimolare l'emulazione; far collaborare attivamente la classe all'insegnamento.
L'orientamento culturale del Rinascimento ricercava appassionatamente la conoscenza approfondita degli spiriti eminenti dell'Evo antico. Si rendeva necessaria, a tale scopo, una conoscenza sicura del Latino e del Greco. Primo pensiero, dunque: preparare ottimi latinisti e, se possibile, grecisti.
Quanto alla struttura dei corsi, la Compagnia aveva seguito, fin della fondazione dei suoi primi collegi in Sicilia, in Spagna, in Portogallo, in Roma, il metodo già esistente nella Università di Parigi, cioè suddivisione in classi, precisazione degli orari, esercizi didattici coordinati in gradazione crescente, e così via. Ignazio di Loyola e i suoi primi compagni avevano studiato a Parigi, e si erano mantenuti fedeli a ciò che avevano appreso nella più celebre Università del mondo di allora. Troppo note - e impossibili anche a riassumersi qui- furono le vicende che gradualmente trasformarono il dettame iniziale delle Costituzioni del 1541: «No estudios ni lecciones» nella Compagnia, nel risultato opposto: cioè nel fatto che la Compagnia stessa divenisse il più grande Ordine insegnante dell'Età moderna.
È certo che, fin dai primi collegi che Ignazio di Loyola approvò - prendiamo, come esempio, quello di Messina, nel 1548 – tenne presente egli stesso, e permise che altri attuassero lo schema generale usato nella Università di Parigi.
Nota: Basta dare un'occhiata all'architettura delle classi e degli studi nel collegio di Messina per renderci conto della conformità, nelle grandi linee, con le strutture universitarie parigine. Fine Nota.
Tuttavia, l'insegnamento dei Gesuiti rivelò subito la preoccupazione di accantonare quanto prima possibile tutte le sottigliezze grammaticali e le astruserie sintattiche e ancor più quelle filosofiche le quali appesantivano l'insegnamento delle lingue antiche.
In altre parole, era importante insegnare soprattutto il Latino in modo esatto, rapido e pratico, tale da rendere agevole allo scolaro l'uso di quella lingua.
Venivano poi gli anni di «umanità», durante i quali, nell'insegnamento dei Gesuiti, si cercava di stabilire un contatto più intimo col genio, con l'anima dei grandi poeti e scrittori dell'antichità, tramite lo studio, in presa diretta, dei loro capolavori: altrettanto veniva fatto per i maestri della eloquenza durante l'anno successivo chiamato della «retorica». Nel collegio di Clermont, l'anno della retorica poteva venire raddoppiato, ciò accadde per Francesco di Sales.
Si puntava, cioè, verso una formazione puramente letteraria durante gli anni di umanità. Quanto alla «dialettica», che fino allora aveva sempre fatto parte della retorica, essa venne trasferita, nella nuova prassi strutturale gesuitica, al primo anno della filosofia, chiamato della «Logica».
Da questo punto in poi avevano inizio le classi veramente superiori e «universitarie» di Filosofia e di Teologia, con la frequentazione dell'Aula Magna, ove ciò convenisse, per mantenersi nella piena irradiazione di quella che era, ormai da secoli, la celebre facoltà di teologia della Sorbona.
Nel complesso, possiamo tener conto che il collegio di Clermont, sviluppatosi dal 1564 in poi, ebbe modo di profittare di tutti i migliori risultati conseguiti negli ormai numerosi collegi fondati dalla Compagnia, prima e dopo la morte del Santo. Di particolare rilievo risultò l'istituzione che Ignazio di Loyola stesso chiamò «la più splendente opera che sia in Roma», il «Collegio Romano», seguito a brevissima distanza dal «Collegio Germanico» in Roma stessa.
A sua volta il collegio di Clermont contribuì molto, come abbiamo detto, con le sue attuazioni ed esemplificazioni pratiche, ai risultati finali della Ratio Studiorum. Questo insigne e decisivo monumento della pedagogia europea, verrà pubblicato e promulgato nel 1598; ma esso era già in formazione attraverso il vasto e cosmopolita fermento dell'insegnamento gesuitico nei diversi paesi e nazioni, si che il succo migliore di tutte le esperienze venne a costituire il più famoso codice didattico dal Cinquecento in poi.
Per l'orario, il collegio di Clermont non si differenziò molto da quello già in uso in tutta l'Università.
Alle quattro prima dell'alba si sonava la campana di ciascun collegio. Al segno dell'Ave Maria si aprivano le porte dei collegi per gli esterni; e la puntualità era obbligatoria anche per chi abitasse in fondo alla città.
Alle cinque, tutti in classe.
Alle sei, la Santa Messa. Alle sette, la colazione, composta generalmente di pane ed acqua, o pane e vino, e consumata in silenzio: e dopo, circa un'ora di ricreazione.
Dalle otto alle dieci, lezioni: dalle dieci alle undici, dissertazioni, interrogazioni, ripetizioni.
Alle undici, suono di campana, e gli esterni potevano andar via per mangiare. Gli interni andavano a tavola ciascuno nel proprio collegio: tavole lunghissime, sgabelli e panche, tovaglie di canapa che venivano cambiate due volte la settimana: le salviette, invece, ogni due giorni.
Prima di cominciare, il «Benedicite» e, durante la refezione, lettura di libri spirituali.
Non erano in uso le forchette, in pratica si mangiava con le dita. Soltanto i coltelli erano a disposizione per certe pietanze e i cucchiai in caso di liquidi.
Il «menu» si componeva di un vigoroso piatto di carne, di un altro di legumi e di frutta abbondante.
Dopo colazione, ringraziamento, e due ore di riposo e di ricreazione.
Le aule si riaprivano alle tre e da quell'ora si succedevano lezioni e dissertazioni.
Alle diciotto aveva inizio la cena. Alle venti, tra le ombre già dense della sera, la campana chiudeva la parte attiva della giornata e gli studenti, sul far della notte, cantavano l'inno «Christus qui lux es et dies».
Gli ultimi tocchi della campana si diffondevano nei cortili, nelle viuzze e nelle stanze alle nove di sera, e al suono di essi le finestre illuminate si spegnevano a poco a poco, come occhi sui quali passasse una mano invisibile.
Per quanto concerne gli studi personali di Francesco, la tradizione gli attribuisce come professori di umanità Bernardino Castori e, di retorica, Jacques Sirmond. Queste indicazioni non sono facilmente accertabili. Può darsi, comunque, che Francesco abbia avuto come professore di umanità Jacques Sirmond, il quale insegnò per due anni quella materia prima di professare retorica nel 1586-87; quei due anni pare siano stati dal 1578 al 1580, ciò che quadrerebbe con l'esordio di Francesco. Il Sirmond era uno splendido latinista, «infinitamente dotto».
D'altra parte, Bernardino Castori fu professore di retorica nel 1580: e si suppone che Francesco abbia frequentato, probabilmente, due anni di retorica. Se, dunque, il Castori continuò nell'insegnamento di quella materia dopo il 1580, potè essere lui il maestro di Francesco; altrimenti, è difficile farci delle idee chiare.
Dal 1582 al 1585 Francesco dovette frequentare anche quella che potremmo chiamare: «l'accademia di cavalleria», detta anche «della nobiltà», la quale, sotto un nome che può lasciar dubbiosi, costituiva un faticoso e talvolta rude esercizio: cavallo, scherma ed esercizi ginnici: oltre a ciò, tutto quello che rendeva edotto un giovane riguardo al codice di cavalleria e al contegno in società. Il signor di Boisy aveva dato ordine perentorio al Déage che Francesco seguisse quei corsi. Evidentemente, conoscendo che il figlio non aveva nessuna inclinazione verso un tal genere di applicazione, ne consegnò al precettore l'ordine munito del sigillo morale dell'ubbidienza.
E Francesco obbedì. Si adattò ad imparare seriamente impegni fisici e morali dei quali ben sapeva che non si sarebbe mai servito. Anche questo, tuttavia, non doveva andar perduto nel disegno che la Provvidenza stava tracciando per lui: un giorno, divenuto importante maestro dello spirito e confessore proprio in mezzo a un mondo regolato dal codice di cui parliamo, egli potrà, con molta maggior conoscenza, valutare e dirimere nodi e responsabilità.
La Provvidenza voleva per lui una preparazione completa fino in quei settori ai quali normalmente non arrivava, nemmeno allora, il tirocinio dei consueti seminaristi. È questo un particolare che ci lascia pensosi nel vasto arco di grazia che segna la formazione di un prossimo uomo straordinario.
È chiaro che simili corsi di «cavalleria» (modellati in certo modo su quelli che le Accademie militari offrono a chi le frequenta) lasciavano tempo assai largo per dedicarsi ad altri studi, e risulta che Francesco profittò di quel periodo per addentrarsi nella matematica, nell'astronomia, nell'ebraico e nella teologia. Durante l'anno 1583-84 frequentò il corso di Genebrard sul Cantico dei Cantici, e questo ultimo studio fu, per lui, di notevole rilievo. Genebrard seguiva, in fatto di interpretazione del testo sacro, il metodo del Bellarmino, riusciva a far scaturire dalle parole scritturali uno zampillo di spiritualità vivissima la quale s'incise nell'anima del ragazzo: fu quello l'inizio di un periodo di particolare fervore del quale Francesco espresse anche a distanza di anni la sua gratitudine al maestro: «Il sapiente Arcivescovo di Aix, Gilberto Genebrard che io nomino per onore e consolazione di essere stato suo discepolo».
Ed ecco, nel 1585, l'inizio dello studio della filosofia che si protrarrà fino al 1588.
Citiamo, al solito, la tradizione: si attribuiscono al Nostro come maestri di filosofia, Gerolamo Dandini e Francesco Suarez. Il Dandini aveva acquistato larga rinomanza con i suoi «Commentari ad Aristotele»; ma egli professò filosofia a Parigi soltanto durante il biennio 1578-1580: come potè, dunque, essere il maestro di Francesco dopo il 1585?.
Più facile a sciogliersi appare la questione concernente Francesco Suarez il quale realmente insegnò filosofia a Parigi dal 1585 al 1588. Ma, riguardo a lui, sorge un curioso interrogativo: chi era questo Suarez? Il grande teologo della Compagnia?
No, perché quest'ultimo si trovava ad Alcalà per sostituire il Padre Vasquez.
Chi era, dunque, il Francesco Suarez professore al Clermont in quegli anni?.
Nota: Molti hanno creduto d'identificarlo con un Giovanni-Francesco Suares (non Suarez) originario di Avignone: ma l'ipotesi cade, perché il Suares avignonese non insegnò mai a Parigi. Fine Nota.
Diremo, con i Padri Lamalle e Testichel S.J. citati dal Lajeunie, che egli fu un omonimo del grande teologo. Più giovane di lui, nativo di Avila, del quale sappiamo ben poco, prima che insegnasse a Parigi; in compenso, i suoi corsi furono tenuti in gran conto e lasciarono una traccia.
Questo periodo degli studi di Francesco di Sales è di un interesse acuto: bisogna penetrare entro il tessuto di esso per renderci conto di quelle che furono le were scelte di lui. Si formava in quei decenni la cultura francese e non soltanto quella universitaria, scolastica, bensì quella che, dal libero maneggiamento della poesia e delle lettere negli ambienti profani e mondani, traeva conseguenze etiche e spirituali. Per capire bene, è su questa precisa operosità laica che dobbiamo soffermarci. La Francia viveva allora il trapasso e le cernite che la cultura italiana aveva vissuti un secolo prima: la scelta delle bellezze dell'eloquio classico antico posta in relazione con la sostanza della morale e degl'ideali ch'essa esprimeva e, per contrapposto, di quelli che avrebbe dovuto esprimere nell'Età moderna. Se il greco di Luciano era seducente, che cosa si doveva fare della sostanza di ciò ch'egli raccontava? Gli adulteri di Giove e le marachelle di Mercurio non si sarebbero insinuati automaticamente nello spirito dello scolaro il quale doveva imparare l'eleganza del greco da quei testi? Questo problema si moltiplicava di per sé, per una gran parte degli autori dell'antichità.
In qual modo reagire a questa ricerca graduale di un paganesimo di fondo che minacciava di farsi integrale? Ricerca mascherata quanto si voglia da forbici per escludere tale e tale brano, da bilancine etiche per pesare e contropesare tale e tale sentenza... ma era serio tutto ciò? Era genuino, in buona fede, era di verace coerenza? O piuttosto la nuova cultura non tendeva a giocare nel campo etico, mantenendo l'edificio teologico soltanto per correre intorno ad esso nelle praterie di un classicismo ispirato ad Epicuro o ad Epitteto? Non era, questo, il miglior modo per creare quella corrente libertina che farà furore a Parigi nei prossimi decenni?
Formare la propria morale sulle terrene austerità di Seneca o, se si voglia, sulla Stoa, e pretendere, al tempo stesso, mantener l'accordo con i Padri della Chiesa, era possibile?
Cercare, negli stessi ideali di Cicerone e di Virgilio, il meglio, suggere il miele etico ch'essi potevano offrire, e voler fondere questo nettare con il Vangelo, era un tentativo da farsi?
Questi erano, in realtà, i termini della questione culturale in quegli anni di riscoperta di un mondo avvincente per gli splendori formali, ma profondamente insufficiente quanto alla sostanza morale. Quale realtà di vita poteva offrire il mondo classico dissepolto nelle sue linee più splendenti, di fronte ad una società, ad una cultura le quali avevano scelto il Vangelo, le Epistole Paoline e la Patristica come punto di partenza?
Tale il problema. La Francia, l'Italia, gran parte di Europa, in quell'ora, facevano riferimento, in misura crescente, ai valori millenari di un mondo che disseppellivano nell'ebbrezza del ritrovamento del bello: il bello nell'arte, nella lingua, nella lucidità della espressione.
Ed ecco gli studenti di umanità e di retorica al gran passo: erano chiamati a conformarsi al latino e al greco dei grandi artisti e degli insigni pensatori dell'antichità. Escludere questo perfezionamento, sarebbe stato rinunciare al progresso nelle «humanités», lottare e negarsi a una miglioria lampante. Ma come sventare il pericolo di cui abbiamo parlato, che la sostanza di quegli artisti e di quei filosofi si trasferisse, insieme con il loro stile, nelle anime?
Questo interrogativo pone nella misura più precisa il problema che la cultura rinascimentale nella sua maturità era chiamata a risolvere, e che la Compagnia di Gesù affrontò con un ardimento quale non riscontriamo in altre scuole.
Da tale premessa sorge l'immenso impegno di cristianizzare l'umanesimo: la Compagnia, posta di fronte a questa necessità, scelse la via più genuina e più schietta. Quale era, in realtà, l'apporto di miglioria che la riscoperta delle antichità offriva alla civiltà cristiana?
Era lo splendore della forma che si poteva considerare in sé, cogliendo di essa il segreto di bellezza: per mezzo di questa nuova- antica estetica accettata e rivissuta, esprimere il contenuto dell'anima moderna: e tale contenuto rispettarlo, lasciarlo integro, cioè cristiano. Il Cristo costituiva, senza dubbio, la suprema, unica con quista di fronte alla morale di Catone e di Seneca, e la teologia evangelica e paolina poteva ricollegare alcuni temi salienti dell'antichità alla preparazione della Verità rivelata all'uomo nuovo, ma ciò non nel senso di Montaigne o della Plèiade. Secondo questa realtà storica si poteva e si doveva attuare l'arricchimento che le scoperte antiche offrivano, a piene mani, all'uomo moderno.
Se questa impostazione fosse mancata, il filone rinascimentale, nella ebbrezza della sua riconquista del bello, avrebbe ricondotto l'uomo del Cinquecento alla effigie che aveva un millennio e mezzo prima.
La soluzione verrà attuata in mille aspetti, in tutti i campi dell'arte, dalla letteratura all'architettura e alle arti minori, e diverrà il canone di vita e di creazione della Età moderna. Alla base di questa soluzione integrale troviamo la scelta, l'iniziativa particolare della Compagnia di Gesù, condivisa, del resto, e partecipata da tutte le vere correnti spirituali del tempo e dai grandi Ordini della Chiesa della Controriforma.
Cristianizzare l'Umanesimo significò impegnare una lotta diuturna, la quale, in certe ore e in certi casi veniva tacciata d'impossibile, di eccesso, di regresso, di oscuramento e che, invece, finiva col rivelarsi non soltanto possibile, bensì perentoria, nell'interesse dell'uomo moderno.
Tale il vero segreto della potenza dei Gesuiti. Esso ebbe la sua nascita allora nelle aule del Collegio Romano e Germanico, come in quelle di Clermont, come in tutte le aule nelle quali insegnasse un gesuita.
La grandezza della Compagnia si rivelò, tra l'altro, nella compattezza dei suoi membri non soltanto nella disciplina concreta concernente l'apostolato e le conquiste dell'Ordine e le sue missioni... bensì nella unità consapevole, accettata, dello spirito culturale della Compagnia stessa.
Di questo spirito si trovò a partecipare Francesco di Sales negli anni decisivi della sua formazione. Se, invece di accogliere la sua richiesta di essere mandato a Clermont, l'umore aulico e cavalleresco del signore di Boisy l'avesse costretto a stabilirsi nel «Navarra», avremmo avuto poi - la risposta appartiene, naturalmente, a Dio solo - il grande pensatore dell'ascetica nella Età moderna?
Francesco di Sales si trovò così tra le dottrine di Epicuro, gli incanti di Virgilio, l'austerità di Seneca e le deduzioni che da essi facevano i suoi contemporanei, il circoscritto moralismo del Montaigne, l'ideale cantato dal Ronsard di una virtù che aveva molti più canali di sfocio che non briglie di correzione: citiamo soltanto due o tre nomi, dovremmo citarne una cinquantina.
In mezzo a questo carosello di idee rimase cristiano: diciamo di più: fu l'uomo moderno nella sua essenza cristiana. Le sue scelte non dovettero essere senza travaglio profondo, senza sofferenze acute. Un giorno, era carnevale: domenica di quinquagesima: le case di Parigi e le strade pullulavano di figure mascherate. Monsieur Déage trovò il suo pupillo solo, nella sua stanza, con l'aria intensamente pensosa. Gli parve malinconico.
«Beh? Che fate qui? Andiamo fuori, a vedere un po' tutta questa brava gente che impazzisce».
Francesco non rispose. Volse in alto il viso e disse:
«Domine, fac ut videam».
«Che cosa volete vedere?» domandò il Déage, ignaro di ciò che stava accadendo nel giovane.
«Signore, fate che io veda» ripetè Francesco, e declinò l'invito del precettore.
Si. Vedere la verità. Quella Parigi mascherata che gli scorreva intorno, era un camuffarsi momentaneo, oblioso, ebbro, ma non era la verità: e Francesco, in quel momento, rivelava tutta la sua stanchezza di fronte al travestimento diffuso che egli avvertiva, un fermento non soltanto nell'ora del carnevale e nelle strade, bensì negli scrittori in voga, nei poeti letti avidamente, nei «moralisti» considerati come punti di riferimento nuovi e rispettabili. Che egli, in sostanza, vedeva come costume di vita in crescente affermazione, nel quale Cristo non c'era più.
Di fronte al vero, sapiente, affinato travestimento della cultura che egli avvertiva intorno a sé, provava più che mai il bisogno di vedere Cristo. «Domine, fac ut videam». Di fronte alla dirompente mascherata della cultura, vedere il Vangelo.
Giorgio Papasogli
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