La passione di Barabba,
del 02 dicembre 2010
Un personaggio difficile, reso muto dal dolore
     14 gennaio 2003: era il mio primo giorno sul set, mentre loro erano già al quarantatreesimo giorno di lavorazione. Passai quasi tutta la giornata al trucco e dai parrucchieri, tre ore per mettere le extension ai miei corti capelli e poi, quando sembravo un incrocio tra Peppino De Filippo e la Gioconda, un ulteriore intervento perché questi lunghi capelli aggiunti diventassero delle matasse sporche e irregolari, poi altre ore per tutti i trucchi vari e infine la barba. Ero pronto verso le 16, giusto in tempo per mostrarmi a Mel Gibson che, entusiasta del risultato, rise divertito, coinvolgendomi nel suo entusiasmo come solo una persona davvero speciale sa fare.
Venni portato in giro e mostrato con orgoglio dagli artefici della mia trasfigurazione: le truccatrici, i parrucchieri e le costumiste, finito di «assemblare» un personaggio, amano portarlo in giro sul set per autografarsi del risultato e dei commenti; è una cosa un po’imbarazzante, ma fa parte del lavoro dell’attore e negli anni vi ho fatto l’abitudine. Rientrammo in sala trucco dove, dopo tanto lavoro di precisione, il tutto viene disfatto in poco tempo.
L’appuntamento era per il giorno dopo, sempre prestissimo: mi avevano infatti convocato alle 5 del mattino perché il trucco creato il giorno prima della sperimentazione, con calma e con spio, doveva essere fatto alla perfezione e con ritmi serrati, per essere pronti a girare intorno alle 8.30.
     Passai le mie tre ore al trucco, tra risistemare i capelli, rincollare la barba, applicare la lente per l’effetto occhio cieco, la cicatrice, i denti corrosi e sangue ovunque. Finalmente ero pronto. E per una volta non avevo neppure l’assillo della memoria del copione.
Finalmente oggi toccava a me girare! Nel buio che precedeva l’alba, centinaia di comparse si aggiravano tra le ombre fantastiche e inquietanti di Cinecittà, personaggi che sembravano tratti da antichi dipinti girovagavano indisturbati, mossi da vita propria, come fantasmi tornati da duemila anni prima per reclamare ancora un po’di esistenza.
     Cinecittà, regina degli inganni, li faceva sembrare reali, dando a chi non fosse avvezzo l’impressione di viaggiare nel tempo; ogni tanto però il fiammeggiare di un accendino o l’illuminarsi di un cellulare, in mano a quelle ataviche figure, tranquillizzava sulla loro contemporaneità.
Comparse, attori, tecnici: uniti dal freddo e dal comune cammino, ci avviammo tutti verso il set, distante un paio di centinaia di metri dai laboratori di preparazione.
     Ulteriore particolarità del cinema, tanto cara a Fellini, la commistione tra i generi: il gladiatore in pausa che parlottava con l’aliena, il cow-boy che amoreggiava con la giovane SS, e anche noi non ne eravamo esenti: per entrare nel Sinedrio si poteva prendere una scorciatoia passando attraverso le porte dei negozi America anni Venti, della scenografia Gangs of New York; era stridente vedere soldati romani e guardie del Tempio di Gerusalemme sparire nelle botteghe di barbiere o macellaio newyorkesi per poi riapparire, finalmente in armonia con l’ambiente circostante, nello spiazzo antistante il Sinedrio.
La particolarità di quel set era che, a differenza di tutti gli altri che avevo visto e vissuto, c’era una grande profondità, nulla di artificiale o tecnologico era visibile o esibito, fortissimo era dunque l’aiuto per l’attore che si doveva immedesimare poiché sembrava di vivere davvero in quell’epoca.
Eccessi e modernismi sembravano banditi perfino dall’abbigliamento dei tecnici; addirittura alcuni sacerdoti erano a disposizione degli attori che avevano qualche dubbio sul personaggio da interpretare o sulle reali pulsioni e motivazioni che lo muovevano.
     La gentile assistente mi condusse nel cuore del set, da Mel Gibson, l’innegabile cuore pulsante del film. Mel mi diede un’occhiata e, soddisfatto del risultato definitivo del trucco, mi sorrise carico d’energia e mi disse: «Sei un Barabba perfetto! Pedro, ancora dubbi!?».
E io, in un enorme sforzo di diplomazia, a cui non ero avvezzo, mi schermii, sorrisi e gli risposi: «Sto provando a comprendere il personaggio…».
Mel, fissandomi risoluto, intuì la mia ritrosia e i miei dubbi e, con grande pazienza, fece un cenno a un elegante sacerdote seduto in disparte: «Ehi, padre! Daresti una mano a Barabba?».
     Quello, gentile, subito si alzò e mi raggiunse; avrà avuto circa sessant’anni, era alto e slanciato, con una barba bianca assai curata che esigeva rispetto. Si presentò e mi mostrò il grosso volume che stava leggendo prima: si trattava del libro che raccoglie le visioni della mistica tedesca Katharina Emmerick: «Vedi» mi disse con un forte accento americano «qui c’è scritto tutto, l’ha scritto una donna di grande fede che, paralizzata a letto da una dolorosissima malattia, visse gli ultimi anni della sua vita pregando, alternando il dolore e la preghiera con delle visioni, appunto, che le permisero di vivere come testimone di tutta la vita di Gesù. Qui sono raccolte le visioni che raccontano tutta la passione di Cristo. Pensa che negli ultimi anni della sua vita si nutrì solo di Eucaristia e che attraverso l’interpretazione delle sue visioni gli studiosi del Vaticano sono riusciti a trovare la casa della Santissima Maria, Madre di Gesù.»
      Parlammo fitto fitto per una mezz’ora, mi spiegò bene chi fosse Barabba, mi raccontò con dovizia di particolari quello che già mi aveva spiegato Mel Gibson durante le letture del copione, per poi addentrarsi nelle descrizioni della Emmerick: era affascinante, perché sembrava di ascoltare una pagina di cronaca giornalistica, ricca di mille particolari. Barabba per esempio in aramaico vuol dire: «il figlio del padre», per cui si può pensare che Pilato abbia scelto lui per confondere il popolo di Gerusalemme, visto che Gesù si definiva «il figlio del Padre». Mi disse anche che nel catechismo consueto si fa una colpa degli abitanti di Gerusalemme per aver liberato un brutto ceffo come Barabba pur di condannare Gesù, mentre era abbastanza scontato che andasse così, visto che Barabba era un eroe di Gerusalemme che si batteva per liberare il popolo dall’oppressione romana.
Il tutto era illuminante: altro che un delinquente qualsiasi! Questo personaggio aveva tutta una sua dignità e una sua storia. Era una sorta di eroe che si era battuto con i suoi uomini per la libertà di Gerusalemme invasa dai romani e che pe questo era stato imprigionato e torturato, fino a divenire, a causa della violenta prigionia a cui era stato sottoposto, una specie di belva.
Ringraziai il padre per tutti i chiarimenti e per il calore con cui si era occupato dei miei dubbi e mi misi in un angolo a pensare un po’a tutto ciò che avevo appena scoperto, in attesa di girare.
     Certo il personaggio era bello, ma per me contava anche quanto era lungo un personaggio, ossia quanto tempo bisognava lavorare, perché più era lungo l’impegno, più si lavorava a più si prendevano un sacco di soldi.
A me interessavano i soldi, non perché ne avessi proprio bisogno o dovessi fare spese folli, ma perché in una società senza meritocrazia e senza valori morali, il dio denaro è quello che stabilisce le regole: più sei pagato, più sei bravo, amato e rispettato; le cose fatte «gratis» o «pe amore» per me non esistevano più.
      Fare lavori importanti nel mondo dello spettacolo significava notorietà, successo, inviti nelle trasmissioni televisive, andare sui giornali, popolarità, soldi facili, tutti che ti amano, tutti che vogliono essere tuoi amici e soprattutto… tante donne. Mi ricordo di quando facevo il Maurizio Costanzo Show. Arrivano dallo Zelig-cabaret di Milano dove mi pagavano 70.000 lire a serata; dopo la mia terza apparizione al Maurizio Costanzo Show mi telefonò il direttore di un locale dicendomi: «Ho avuto il suo numero dalla redazione, volevo programmare una serata nel mio locale con lei, ma l’avverto subito, io più di due milioni non posso pagare!».
Mi ricordo la fatica che feci a controllare l’emozione.
Accettai, chiedendo però che non si sapesse in giro che avevo accettato di lavorare per quella cifra.
      Un altro episodio singolare mi accadde poi ancora a Roma, dove ero appena arrivato per registrare una puntata del Maurizio Costanzo Show: una bellissima ragazza siciliana mi avvicinò e senza mezzi termini mi chiese di passare la serata con lei; io ero abituato a incontrare persone un po’“originali” in giro per locali, quindi non le diedi tanto peso, ma dopo la registrazione la trovai ancora fuori dal teatro che mi aspettava. La invitai in hotel con me, per il gusto di vederla recedere di fronte a fatti concreti, ma quella mi spiazzò, seguendom9i docilmente, poiché – mi disse – era arrivata dalla Sicilia per conoscermi. Giunto in camera mi feci una doccia e intanto controllai bene il bagno per evitare che fosse una trappola del programma Scherzi a parte – a cui spesso avevo preso parte come «provocatore»; uscito dalla doccia, la invitai a rinfrescarsi a sua volta per poter controllare la camera: tutto era a posto. Mi sembrava impossibile: avevo avuto tantissime avventure nella mia vita, dieci anni da animatore turistico mi avevano offerto di incontrare bellissime ragazze, ma mai una così affascinante e così facilmente. In quel momento tornò dalla doccia e la sua prorompente bellezza, appena celata da un piccolo asciugamano, mi tolse ogni dubbio. E fu una notte di passione e di trasgressione.
     La mattina seguente si accomiatò raccontandomi che era sposata e aveva voluto vivere un sogno: si era innamorata di me guardando la televisione ed ero divenuto per lei un’ossessione che aveva voluto così esorcizzare. Tornato alla realtà fatta di cose concrete, andai alla cassa per pagare tutti gli extra che avevano impreziosito la mia notte di bagordi e il portiere, strizzandomi l’occhio da complice, mi fece capire che la signorina non l’avevano registrata per cui fiscalmente non esisteva e che tutta la sontuosa cena in camera era stata distribuita sui conti di una colorata comitiva giapponese in partenza per Roma; aveva ragione Flaiano quando diceva: «Gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso del vincitore!».
     Queste erano dunque le cose che m’interessavano: in sintesi, l’approvazione e le coccole del pubblico. Per cui se il personaggio era breve, anche se intenso, non sarebbe servito a niente; se poi contiamo che Barabba era senza battute… ormai però era tardi per dire di no, l’unica speranza era che Gibson, vedendo quanto ero bravo come attore, mi allungasse la parte. In fondo, mi era già capitato con tanti registi che mi avevano incontrato per caso e poi, comprese le mie qualità, mi avevano utilizzato al meglio o per lo meno si erano stupiti del fatto che avessi ruoli secondari.
 
 
Ciak! Si gira
     Mentre ero ancora preso dalle mie riflessioni e dai miei bilanci sulla vita, mi chiamarono perché toccava me. Mi portarono in alto nel Sinedrio, salendo le scale mi spiegarono che alla sinistra di chi sale c’era l’abitazione di Pilato, sotto l’alloggiamento delle sue guardie personali, a destra il percorso che portava alle prigioni e al centro il trono che rappresentava il potere romano e dove Pilato dava udienza al popolo.
Mi condussero verso le prigioni, da cui a tempo debito, come da copione, sarei dovuto uscire. C’erano persone della regia, della produzione e dei costumi, tutti intorno a me… ah, se fosse stato sempre così!
     Mentre Enzo Sisti, il primo aiuto regista, uomo di cinema di grande esperienza, mi aiutava a comprendere tutte le indicazioni della regia, un addetto ai costumi con un addetto all’attrezzeria mi posizionavano intorno alla vita una pesante e arrugginita catena, una di quelle che sarebbero bastate a contenere l’impeto di un elefante. Mi lamentai e loro mi spiegarono che anticamente si usavano così grosse perché il peso serviva a sfiancare i prigionieri più ribelli. Mentre ero ancora dubbioso sulla questione, mi assicurarono ai polsi le due estremità della catena.
Il ferro delle polsiere era stato forgiato artigianalmente, nel modo più grossolano possibile, per essere attinenti alla realtà dell’epoca, e il metallo impietosamente mordeva le mie carni. Ma nessuno sembrava intenzionato ad ascoltare le mie lamentele.
Iniziammo a girare, il popolo era impressionante nella sua verità urlante, i soldati romani che dovevano condurmi non erano attori ma stunt-man, più avvezzi quindi all’azione che alla riflessione, facevano bene il loro lavoro e i miei polsi ne erano testimoni.
Il primo giorno girammo solo la scena dell’uscita dalle prigioni e il mio riluttante percorso fino alla cima delle scale del Sinedrio. Chi non è mai stato in un set cinematografico non può credere all’enorme quantità di tempo che ci vuole per girare anche una sola scena di un film!
     La sera, stanco e distrutto, dopo aver fatto almeno venti volte l’uscita delle prigioni e l’arrivo al trono di Pilato, e dopo la sfibrante seduta di strucco, rientrai in albergo e decisi di ordinare una cena cinese in camera. Ero veramente stanco. Solitamente mi piaceva uscire e andar per feste, soprattutto quando stavo facendo un lavoro importante, con la cui narrazione potevo impressionare qualche giovane attrice da concupire. Ma mi piaceva anche mangiare tranquillo, davanti al televisore, nel caldo e lussuoso ozio di una suite di un hotel a 5 stelle.
     Una cosa strana del cinema è che talvolta sono pronti a rinunciare a un attore per 100 euro di differenza e poi ti ospitano in una suite a 5 stelle: questo non l’ho mai capito! Mi verrebbe da dire: prendetemi una stanza qualsiasi in una pensioncina appena dignitosa e la differenza di costo me l’aggiungete al cachet… ma non si può fare.
Ancora oggi mi dispiace, quando mi danno una splendida suite, non poterla condividere con Maria, la mia compagna sempre così umile e in secondo piano, una donna meravigliosa, che mi è sempre di conforto e di sostegno e che meriterebbe di più.
     Mi piacerebbe diventare famoso anche per questo: essere rispettato, non dover sempre accettare le regole, ripartire ogni volta da zero, dover dimostrare per ogni lavoro quanto valgo; è come se un impiegato o un tecnico o un professore, ogni quattro cinque giorni di lavoro dovesse fare un nuovo colloquio di assunzione, dimostrare il proprio valore professionale e magari essere messo in discussione: una persona normale non reggerebbe per molto a quella che è la prassi per un artista.
Mi piacerebbe fare il protagonista di un film, arrivare sul set con tutta la famiglia e condividere con loro i pochi ed effimeri vantaggi di questo mestiere, ma almeno in Italia è impossibile.
      Mi ricordo quando John Madden, il regista inglese che ha vinto 7 oscar con il film Shakespeare in love, cercava attori con facce italiane per i suoi soldati italiani nel film Il mandolino del capitano Corelli: fece incetta di splendide facce, appartenenti a bravissimi attori italiani, di cui poi fu entusiasta sul set; io ero tra quelli selezionati dalla grande ed esperta casting director Shaila Rubin per la parte dei soldati, ma la mia faccia e la mia umanità affascinarono John Madden che mi volle per interpretare uno dei 10 primi attori del film, Velisarios.
Fui convocato quindi al cast dei numero uno, tra cui cercava il protagonista, un bravo attore italiano che facesse il capitano Corelli.
Mi ritrovai tra un piccolo e agguerritissimo esercito di volti e noti figli di politici importanti. Grande fu la mia soddisfazione quando mi accorsi che nessuno rimaneva nella stanza delle audizioni per più di cinque minuti: esclusi dalla loro stessa pochezza. Io rimasi un’ora nella stanza, creando i presupposti per un incredibile esperienza lavorativa.
     Quando uscii dalla stanza mi circondarono, quasi aggressivi, domandandosi come mai fosse rimasto tanto tempo dentro e come avesse osato un plebeo come me surclassarli. Mi misero talmente in imbarazzo che io stupidamente, per non ferirli, dissi che si era scaricata la batteria della telecamera e che avevamo dovuto attendere la ricarica. Poi però io partii per la Grecia per fare le riprese del film e quelli, una volta tanto, rimasero al palo.
Quando a Madden, che mi spiegava che per lui prendere un italiano come me per interpretare un greco era stata una grande trasgressione, io chiesi come mai allora per fare Corelli aveva preso Nicolas Cage, lui mi rispose: «Di tutti gli attori italiani protagonisti che mi hanno proposto, non è ho trovato uno che soddisfacesse la mia ricerca di verità e umanità!».
Era una piccola soddisfazione in pi√π per me che, comunque, il film lo avrei fatto.
La mattina dopo si ricominciò a girare. Sveglia alle 4 per essere pronto alle 4.30, alle 5 ero al trucco a Cinecittà. Aveva piovuto tutta la notte, Roma era grigia e melanconica e il freddo di fuori con facilità entrava nel cuore.
      Prima del trucco, in verità, passai velocemente in camerino dove, con l’aiuto di un addetto ai costumi, mi vestii, in modo da essere poi truccato senza problemi. Mi lamentai mentre indossavo il costume per il fatto che Barabba era sempre scalzo, ma era gennaio e aveva pure piovuto: non potevo stare scalzo, un giorno intero scalzo! In realtà avrei potuto, ci sono delle tecniche di respirazione e di meditazione che ho appreso in India che mi permetterebbero di stare un giorno intero anche in mezzo alla neve, ma non avevo voglia d’impegnarmi.. che si impegnassero un po’loro!
Poco dopo, al trucco, mi raggiunse uno del reparto costumi, con un paio di improvvisate pantofole, da usare quando non ero in scena. Ma erano pantofole da piscina, per cui mi lamentai ancora: ci voleva qualcosa che desse ristoro ai piedi freddi, durante le riprese. Dopo un paio d’ore arrivarono delle calde muffole in feltro cotto. Credo di essere stato l’unico del set con i piedi così curati e protetti.
     Alla fine arrivai sul set. Quel giorno c’erano tanti attori importanti. Maia Morgenstern, dolce e bellissima, interpretava la Madonna. L’avevo conosciuta al trucco, durante le prove iniziali e mi aveva confidato di essere felicissima perché, nonostante non fosse più giovanissima, durante l’inizio del percorso di costruzione del personaggio, quando pensava fortemente a come meglio interpretare il personaggio della madre in assoluto, la mamma di tutte le mamme, complice dell’atmosfera romana, affascinante per lei che viene dall’est Europa, era rimasta incinta. Ora si portava in giro il frutto dell’amore che tanto la rendeva felice, quanto preoccupava i costumisti e i truccatori per il continuo cambiamento del suo fisico.
     C’era Hristo Naumov Shopov, carismatico attore, anche lui dell’est europeo, che interpretava in modo magistrale un concreto Pilato; poi, affacciata a una delle finestre dell’abitazione di Pilato, c’era Claudia Gerini, nel ruolo di Claudia, la moglie di Pilato: era la prima volta che la vedevo lavorare in un ruolo drammatico ed era sorprendente per bravura e abilità. Poi c’era la Bellucci, che per noi italiani è una vera e proprio icona sexy: ero curioso di vedere come se la sarebbe cavata in un ruolo drammatico come quello della Maddalena.
      Tra i tanti personaggi famosi, brillava sempre Mel Gibson: entusiasta e carismatico, creava intorno a sé un vortice di energia e simpatia, dirigendo la troupe e preparando le scene con profondità davvero coinvolgente. Fra tutti, io mi sentivo così poco importante, col mio personaggio orribile a vedersi senza battute, che per darmi un tono iniziai a fare i capricci. Dapprima chiesi che ci fosse qualcuno che si occupasse delle mie pantofole: avrei dovuto discendere le scale del Sinedrio scalzo e così attraversare tutto lo spiazzo dov’era riunito il popolo di Gerusalemme, là avrei dovuto trovare le pantofole con cui tornare alla postazione di partenza, da dove qualcuno avrebbe dovuto poi prendere le pantofole per riportarle dove le avrei ritrovate al rifacimento della scena.
Poi, mi portarono il caffè, ma io, sdegnato, lo rifiutai, dicendo che bevo solo tè verde deteinato… che non sapevo neanche che esistesse! Sapevo però di essere odiato, ma era un fragile tentativo di essere notato, una non chiara richiesta di attenzioni.
      Altri due giorni andarono avanti così, io borbottavo, mi lamentavo un po’per tutto, ma nessuno ci faceva caso: le produzioni sono abituate ai capricci insulsi degli attori. Ho visto di molto peggio nella mia carriera e i capricci, spesso, sono esponenziali al valore dell’attore, come se, anche arrivato al successo, un dolore retroattivo, dovuto alla precedente mancanza di notorietà, fosse da risolvere attraverso richieste assurde.
      Nel frattempo le catene, tirate e strattonate dai soldati romani in preda all’adrenalina della scena, iniziarono a lacerarmi le carni, una ferita sempre più profonda su entrambi i polsi: mi lamentai con veemenza, ma la questione – questa volta seria – si confuse con le precedenti infantili rimostranze e nessuno mi diede ascolto, un po’come se fossi stato il protagonista della favola Pierino e il lupo, che tante volte ho narrato ai miei figli: dopo tanti «Al lupo! Al lupo!», ora non mi credeva più nessuno, benché il dolore fosse vero.
La sera mi medicarono il meglio possibile all’infermeria del set.
Pedro Sarubbi
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