L'ultimo film vincitore a Cannes è dedicato alle cinquecentomila donne morte di aborto clandestino in Romania durante il regime comunista di Ceausescu. Cristian Mungiu ha spiegato «di averci pensato molto prima di farlo. Era essenziale provocare lo choc, indugiando sull'attimo in cui la cosa astratta, il problema da risolvere di cui però nessuno parla mai, si mostra per quello che è: un bambino piccolo...
del 13 settembre 2007
Otilia e Gabjta sono due studentesse universitarie che alloggiano nel dormitorio di una città romena. Siamo negli anni che precedono la caduta del regime di Ceausescu e Gabjta affitta una stanza d'albergo in un hotel di bassa categoria. Ha un motivo preciso: con l'assistenza dell'amica ha deciso di abortire grazie anche all'intervento di un medico che però rischia l'arresto, essendo l'interruzione procurata della gravidanza un reato. Otilia resta a fianco dell'amica soffrendo intimamente per quanto sta accadendo e scoprendo progressivamente la fragilità della sua condizione umana.
 
Fonte : Mymovies
 
 
Il problema da abortire
Storia di un bambino che avrebbe potuto essere 
«L'ho espulso. È di là, in bagno». Fino a quel momento Gabita e Otilia non hanno avuto il cuore di nominarlo. Il problema, l'impiccio, lo scandalo da evitare, era rimasto tra le faccende da sbrigare, come l'esame della prossima sessione, i lei da racimolare per il praticone sfrontato, il telo cerato per non macchiare le lenzuola, il pacchetto di Kent utile per corrompere qualche anima micragnosa. Adesso è di là, come un clandestino a bordo di un mondo squallido, riverso sul pavimento della stanza d'albergo, infagottato in un asciugamano bianco rosso sangue. Un feto, un viso, un mezzo corpo. Un accenno di testa, un abbrivio di occhi, un tratto di labbra, un accento di naso. Il regista Cristian Mungiu ha spiegato «di averci pensato molto prima di farlo. Era essenziale provocare lo choc, indugiando sull'attimo in cui la cosa astratta, il problema da risolvere di cui però nessuno parla mai, si mostra per quello che è: un bambino piccolo». Che non ha nemmeno un nome, ma solo una data: quattro mesi, tre settimane, due giorni.
L'ultimo film vincitore a Cannes è dedicato alle cinquecentomila donne morte di aborto clandestino in Romania durante il regime comunista di Ceausescu. Ma il dittatore non è mai nominato e l'asfissia cui costringe il regime solo sussurrata. Ci sono i muri sbucciati dei palazzi bigi, stanze dignitosamente squallide, luci fioche di neon intermittenti, mugugni di fidanzati che vogliono fare l'amore ma «venire fuori», e due amiche, studentesse squattrinate, la bionda Otilia e la mora Gabita, terrorizzate da una minuscola presenza che sfiata i loro vent'anni. Gabita porta in grembo una gravidanza indesiderata, di cui non c'è visibile sentore all'esterno su quella sua pancia ancora piatta. È la Romania del 1987 e abortire significa prigione, un sacco di guai e maldicenze. E allora è meglio, come spiega Bebe, il lurido medico improvvisato, assoldato per sbrigare la pratica, che una volta successo, si stia attenti a non «buttarlo nel water perché lo intaserebbe, neanche a pezzi, non fatevi venire delle idee, non seppellitelo perché i cani razzolando lo troverebbero. Prendete l'autobus, cambiate quartiere, salite al decimo piano di un palazzo qualsiasi e gettatelo dalla tromba della spazzatura, così è più sicuro».
L'opera decadente e senza musica di Mungiu non è solo un film su un aborto clandestino, anche se, avendo splendidamente molto narrato e poco moraleggiato, certo ci si potrà attardare in analisi sociologiche e storiche su quanto siano stati terribili quegli anni, sull'aborto come forma di ribellione, sulla, in fondo, migliore situazione di oggi, quando la stessa cosa si può fare all'ospedale, gratis, asetticamente, con tutte le misure d'igiene a norma di legge e con l'illusione di non portarne più il marchio nero sulla coscienza. Ma la scena mozzafiato che ha lasciato afasici i nostri critici cinematografici («è un colpo basso» ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera), così abituati allo splatter dei sentimenti e dei corpi, esplode come un big bang dopo una lunga teoria di chiacchiere e perversioni dell'anima, cannule infilate nella vagina, mercimoni di corpi e martirii del cuore. Perché, come scandisce sempre Bebe, «voi lo sapete che a questo mondo ogni cosa ha un prezzo». E il prezzo della routine è l'occultamento dei suoi segreti.
Il 21 luglio l'Autorità britannica preposta all'Embriologia e alla fertilizzazione umana (Hfea) ha accettato la domanda di una coppia fertile di ricorrere alla diagnosi preimpianto per selezionare un embrione esente dal gene che predispone al cancro della mammella e dell'ovaio, due malattie curabilissime durante il corso della vita. In questi giorni s'è venuto a sapere che Arthur Miller, autore di Morte di un commesso viaggiatore, luminoso paladino dell'intelligenza liberal americana, in prima fila contro il maccartismo e la guerra in Vietnam, tacque per tutta la vita l'esistenza di Daniel, figlio down avuto dalla terza moglie. È stato su tutti i giornali italiani il caso dell'aborto selettivo praticato all'ospedale San Paolo di Milano, dove per errore i medici hanno eliminato la gemellina sana, anziché quella 'difettosa'. Di aborto, del suo dramma, di bambini senza nome si continua a parlare senza però mai vederli. Coloro che avrebbero potuto venire dopo sono sotterrati da cumuli di parole, cancellati da sentenze che rendono le vittime colpevoli e i carnefici innocenti. E se proprio la realtà si prende le sue rivincite crudeli e da voltastomaco, potremo sempre affermare che «sono surrettizi gli argomenti di chi propone un tagliando sulla legge 194» (Rosy Bindi). Quattro mesi, tre settimane, due giorni è un film che non spiega nulla, ma ha il merito di porre sul tragitto dei nostri sensi di colpa il corpo del reato. Ha detto Mungiu che «dopo i divieti di abortire in epoca comunista, negli anni Novanta si è abusato di questa libertà. Abbiamo avuto circa un milione di aborti nel primo anno dopo la caduta del comunismo. Non sapevamo come comportarci. Si pensava: se la legge ti autorizza va bene. Ma bisogna anche pensare al tipo di libertà che ti viene concessa».
 
 
Ti prego, non parliamone più 
L'Osservatore Romano ha scritto che il film è «squallido e verboso». Non siamo d'accordo. Otilia dopo l'epifania dell'innominato sul pavimento del bagno lo raccoglie e lo nasconde nella borsetta. Gabita la prega di «seppellirlo» (si seppelliscono gli uomini, non le cose). Otilia esce tra il buio irrespirabile di Bucarest, vaga per le vie della città, vomita agli angoli delle strade. Poi sale su un palazzo e sta lì, incerta, davanti alla tromba della spazzatura. Un abbaiare improvviso di cani l'aiuterà a decidere. Quindi torna all'albergo dove tutto s'è svolto e trova Gabita seduta al tavolo del ristorante, intenta a consumare i resti di una festa di matrimonio. L'hai seppellito? Facciamo un patto, non parliamone più. Lei guarda lo spettatore come a chiedere: e voi dimenticherete? E voi? E voi come tacerete quest'onta?
 
Emanuele Boffi
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