Nel 1870 don Bosco ha compiuto 55 anni. La sua vita, che nei primi decenni è stata vivace e nervosa come un torrente di montagna, si allarga, diventa un fiume maestoso. Gli ultimi 18 anni della sua esistenza, registrati minuziosamente su quintali di documenti e di testimonianze, sono stati condensati in 9 volumi di Memorie Biografiche, due dei quali superano le 1000 pagine.
È chiaro che ogni biografo di don Bosco deve usare decisamente il verbo “scartare”. I fatti, gli incontri, le narrazioni ai giovani, i sogni sono toccanti, umanissimi. Rincresce metterne da parte decine e decine. Eppure, fatto il calcolo con le pagine, anche noi dobbiamo rassegnarci a tagliare e a potare vigorosamente.
In questo capitolo, però, ci prendiamo una piccola rivincita. Narriamo a ruota libera alcuni tra i fatti e gli incontri di questi anni che più ci hanno colpito, domandando scusa se non riusciamo a collegarli con un filo “logico”. La vita, d'altra parte, non usa sempre la “logica” come sua strada maestra.
“Ho rubato due pani”.
Agosto 1872. La campana squillò, e una turba immensa di ragazzi si precipitò fuori dalle aule e dai laboratori gridando: “La merenda! La merenda!”.
Due panettieri, in fondo al cortile, avevano piazzato quattro enormi cestoni di vimini, ricolmi di pagnotte fresche e fragranti. “Una ciascuno, non di più!”, gridavano.
Francesco Piccollo, un ragazzo di 11 anni arrivato poco tempo prima da Pecetto Torinese, guardava tutta quella ressa e attendeva il suo turno. Aveva mangiato molta minestra a mezzogiorno, ma poi, col passare delle ore, l'appetito si era ridestato. Pensava però che una pagnotta sola era poco a confronto dell'appetito. Avrebbe voluto almeno raddoppiare la razione. Ma l'oratorio era povero, e anche il pane non era a volontà in quel 1872.
Mentre pensava così, vide che alcuni suoi compagni, dopo aver intascato una prima pagnotta, si rimettevano tranquillamente in fila, e ne prendevano una seconda e una terza senza che nessuno se ne accorgesse.
“Anch'io - raccontò poi Francesco - mi lasciai allora vincere dall'appetito, rubai due pagnotte e fuggii dietro il porticato, a mangiarle con avidità. Ma poi ne provai rimorso.
- Ho rubato - pensavo -. E domani come oserò fare la Comunione? Devo confessarmi! Ma il mio confessore era don Bosco, e io sapevo come si sarebbe addolorato al sapere che avevo rubato. Come fare? Non tanto per la vergogna, quanto per non dispiacere a don Bosco, scappai dalla porta della chiesa, e difilato corsi al santuario della Consolata, poco lontano.
Entrai nella chiesa semibuia, scelsi il confessionale più nascosto, e cominciai la mia confessione:
- Sono venuto a confessarmi qui perché ho vergogna di confessarmi da don Bosco! (Era una cosa che potevo non dire, ma ero talmente abituato alla sincerità che mi parve importante). Una voce mi risponde:
- Di' pure. Don Bosco non saprà mai niente.
Era la voce di don Bosco! Misericordia! Sudavo freddo. Ma se don Bosco era all'oratorio, come poteva essere? Un miracolo? No, niente miracolo. Don Bosco era stato invitato, come al solito, a confessare alla Consolata, e io mi ero imbattuto precisamente in colui che volevo fuggire.
- Parla, caro figliuolo. Cosa ti è successo? Tremavo come una foglia.
- Ho rubato due pani!
- E ti hanno fatto male?
- No.
- E allora non tormentarti. Avevi fame?
- Sì.
- Fame di pane e sete di acqua, buona fame e buona sete. Guarda: quando avrai bisogno di qualche cosa, chiedilo a don Bosco. Ti darà tutto il pane che vorrai. Ma ricordati bene: don Bosco preferisce la tua confidenza a crederti innocente. Con la tua confidenza ti potrà aiutare, invece con la tua innocenza potresti scivolare e cadere, e nessuno ti darebbe una mano. La ricchezza di don Bosco è la confidenza dei suoi figli. Non dimenticartelo mai, Francesco.
L'anno seguente mi trovavo in seconda, e un giorno, a pranzo, mi dicono che mia madre mi attende in parlatorio. La trovo che piange:
- Mamma, cos'è successo?
- Niente, Cecchino, niente. Ma vedi, noi siamo poveri, e l'economo mi ha detto che se • continuiamo a non pagare la pensione, dovrà rimandarti a casa.
Essa piangeva per quella minaccia, e io dovendo andare a scuola la lasciai in pianto. Ma alla ricreazione del pomeriggio rividi la mamma che mi aspettava ancora in portineria, stavolta lieta e sorridente. Mi disse:
- Senti, Cecchino, io ora non piango più. Sono stata da don Bosco, e mi ha detto: buona donna, dite al vostro ragazzo che se l'economo lo manda via dalla porta, rientri dalla chiesa e venga da me. Don Bosco non lo manderà via mai.
Poi la mamma mi baciò e partì. Quella sera stessa l'economo mi fece chiamare e io, spaventato, prima di presentarmi a lui scappai da don Bosco. Bussai alla sua porta:
- Chi è?
- Sono io, Piccollo Francesco.
- Vieni, vieni pure. Dunque, Francesco - e prese un foglio di carta - quanti mesi di pensione deve la tua mamma?
Gli dissi il numero, e don Bosco, con delicatezza, scrisse la ricevuta della pensione per tutto l'anno, apponendovi la sua firma. Nessuno si accorse della sua generosità, nemmeno l'economo a cui portai la ricevuta. Rimasi commosso più del modo delicato con cui ero stato aiutato che per la stessa opera di carità.
Passarono altri tre anni. Ero ormai in quinta. Un giorno noi più grandicelli attorniavamo don Bosco, passeggiando sotto i portici. Io avrei voluto parlare da solo con lui, ma non osavo. Ma come sempre, egli se ne accorse, e senz'altro mi prese da parte e mi disse:
- To vorresti dirmi qualcosa, vero?
- Ha indovinato. Ma non vorrei che gli altri sentissero -. Nel dire così gli sussurrai all'orecchio:
- Voglio farle un regalo. Credo che le farà piacere.
- E che regalo vuoi farmi? - Prenda me!
Don Bosco sorrise:
- E cosa vuoi che me ne faccia di un bel tomo così? •-. Ma subito si fece serio, e mi disse:
- Grazie, Francesco. Non potevi farmi un regalo più gradito. Io lo accetto, non per me, ma per offrirti e consacrarti tutto al Signore e all'Ausiliatrice”.
Francesco Piccollo divenne salesiano e sacerdote, lavorò per 30 anni in Sicilia, come insegnante, direttore e poi ispettore delle opere salesiane. Visse fino al 1930.
Eusebio Calvi, di Palestro.
Nello stesso 1872, un altro bravo ragazzo, Eusebio Calvi di Palestro, era preoccupato perché i suoi non potevano più pagare la pensione. Don Bosco lo vide triste, e gli domandò:
- Che cos'hai Eusebio?
- Ah, don Bosco. I miei non possono più pagare la pensione e io sono costretto a interrompere gli studi.
- Ma tu non sei amico di don Bosco?
- Oh sì!
- E allora la cosa si aggiusta facilmente. Scrivi a tuo papà che del passato non si prenda più fastidio, e per l'avvenire paghi ciò che può.
- Ma mio padre vorrebbe sapere la cifra precisa, perché vuole impegnarsi a dare tutto ciò che può.
- Quanto era la pensione fino a oggi?
- Dodici lire al mese.
- Scrivigli che la fissiamo a cinque. E che pagherà se potrà. Vieni nel mio ufficio che ti faccio io il bigliettino per l'economo.
Anche Eusebio Calvi divenne salesiano e sacerdote, lavorò in Calabria e in Sicilia, e visse fino al 1923. “Quante migliaia di ragazzi - scrive don Amadei - ricevettero questi segni di affetto da don Bosco!”.
Don Bosco ci rimase male.
Quando don Bosco arrivò a Lu nelle passeggiate autunnali (l'abbiamo narrato nel cap. 37), nel cortile di casa Rinaldi fece una carezza a un affarino di 5 anni, Filippo.
Quando quel ragazzo compì 10 anni, il nome di don Bosco tornò a rimbalzare sulla sua vita. Nel paese di Mirabello, a un tiro di schioppo da Lu, don Bosco aveva aperto il “piccolo seminario”. Il signor Cristoforo Rinaldi pensò di mandarvi Filippo.
Il ragazzino robusto e mite prese sotto il braccio il suo fagottino, baciò la mamma, e sul biroccio di papà andò in collegio. Aveva il cuore un po' stretto come tutti i ragazzi che lasciano la casa per la prima volta. Ma era serio e riflessivo, e capiva che quel sacrificio poteva spalancare alla sua vita altri orizzonti che non fossero i campi e le vigne di papà.
Ebbe per insegnante il chierico Paolino Albera. “Per me don Albera - scriverà - fu un angelo custode. Fu lui incaricato di vigilarmi, e lo fece con tanta carità che mi stupisce ogni volta che ci penso”. Ma non c'era solo don Albera, purtroppo. Un altro assistente aveva maniere grossolane che offendevano.
Don Bosco venne due volte da Torino a visitare il “piccolo seminario”, e parlò a lungo con Filippo. Divennero amici.
In primavera, purtroppo, il fattaccio. Filippo era stanco per gli studi intensi dei mesi invernali, l'occhio sinistro aveva cominciato a dargli seri fastidi. Un giorno che era particolarmente teso, l'assistente dal fare grossolano lo urtò in maniera particolare. Filippo non perse le staffe. Andò dritto dal Direttore a dirgli che voleva tornare a casa. Sembrava il capriccio di un momento, ma non fu così. Filippo aveva deciso, e non ci fu nessuno capace a fargli cambiare parere.
Quando don Bosco quell'anno giunse per la terza volta a Mirabello, fu informato che Filippo Rinaldi era tornato in famiglia. Ci rimase male. Gli scrisse una letterina a Lu, in cui lo pregava di ripensare alla sua decisione.
Di lettere di don Bosco, Filippo ne riceve parecchie negli anni che seguono. In ognuna c'è l'invito a ripensarci, a tornare: “Le case di don Bosco, ricordati Filippo, sono sempre aperte per te”.
Raramente don Bosco ha insistito tanto con un ragazzo. Sembra quasi che egli veda qualcosa di preciso nel suo avvenire. Ma il ragazzo, pur rimanendo amico di don Bosco, non se la sente.
1874. Filippo ha 18 anni, e don Bosco è venuto a trovarlo a Lu. Proprio in casa sua si presenta una povera donna. Cammina con le stampelle e ha un braccio ammalato. È venuta per supplicare don Bosco di guarirla. Il Santo le dà la benedizione di Maria Ausiliatrice, e quella donna, sotto gli occhi di Filippo, getta le stampelle e torna a casa guarita. Il giovanotto è molto emozionato, ma a un ennesimo invito di don Bosco a seguirlo a Torino, risponde di no. Questo “no” gli peserà per tutta la vita: “Facciano il Signore e la Madonna che, dopo aver tanto resistito alla grazia in passato - dirà un giorno con umiltà -, non abbia più ad abusarne in avvenire”. Quel “no” detto a don Bosco diventa per Filippo il primo di una fila. Comincia a dire di no alle preghiere, alla madre che lo rimprovera di frequentare amicizie pericolose, al parroco che lo invita a frequentare di più la chiesa. Una vera “crisi religiosa” che supererà grazie alle preghiere di sua madre.
Quando don Bosco diede battaglia.
1876. Filippo Rinaldi compie vent'anni. I genitori di una brava ragazza sono venuti da papà Cristoforo ad avanzare una proposta di matrimonio. Ma da Torino arriva anche don Bosco, deciso a dare battaglia per portare Filippo con sé.
C'è un colloquio lungo, decisivo. Con la semplice tenacia dei contadini, Filippo espone tutte le sue difficoltà. Ma don Bosco è un contadino anche lui, e le ribatte con calma a una a una. Ha scoperto in quel ragazzone la stoffa di un grande salesiano, e non vuole lasciarselo scappare. “Mi guadagnò a poco a poco - scriverà Filippo -. I genitori mi lasciavano libero, e la mia scelta cadeva su don Bosco”.
Novembre 1877. Filippo Rinaldi giunge a Sampierdarena, dove don Bosco ha aperto una casa per le “vocazioni adulte”. A 21 anni il contadino di Lu riapre la grammatica italiana e quella latina. I primi tempi sono durissimi. Sul primo compito, insieme a un cimitero di croci rosse e blu, c'è un voto mortificante. Eppure, con la stessa tenacia con cui ha resistito tanti anni alla voce di don Bosco, Filippo s'arrampica giorno per giorno per la dura strada degli studi.
Direttore a Sampierdarena è quel don Paolino Albera che l'aveva incantato a Mirabello. Nei momenti ingrati trova conforto in lui. “Un giorno gli dissi che temevo di farne una delle mie fuggendo. Egli mi rispose: E io verrò a prenderti”.
13 agosto 1880. Inginocchiato ai piedi di don Bosco, Filippo pronuncia i voti di povertà, castità, obbedienza. È salesiano. Ha 24 anni.
Nell'autunno comincia la sua salita verso il sacerdozio. Riceve gli ordini minori, il suddiaconato, il diaconato. C'è un particolare che fa sorpresa: Filippo va avanti non perché lo voglia, ma perché glielo comanda don Bosco, in cui ha la massima fiducia. Racconterà: “Don Bosco mi diceva: Il tal giorno darai il tal esame, prenderai il tal Ordine. Io obbedivo di volta in volta”. Mai don Bosco si era comportato così con un'altra persona: esortava, invitava, ma lasciava che fosse l'individuo a decidere. Con Filippo, don Bosco ordina. Doveva leggere molto chiaramente nel futuro di quel giovane uomo.
La vigilia del Natale 1882 don Filippo Rinaldi celebra la sua prima Messa. È presente don Bosco che abbracciandolo gli domanda: “Ora sei contento?”. La risposta è da far cascare le braccia: “Se mi tiene con lei, sì. Se no, non saprei che cosa fare”.
Ma qualche mese dopo torna dalle missioni d'America don Costamagna, e don Filippo, travolto per la prima volta dall'entusiasmo, chiede a don Bosco di partire missionario. Questa volta è don Bosco a dire di no:
- Tu starai qui. In missione manderai gli altri.
Il primo successore di don Bosco alla testa della Congregazione Salesiana sarà don Rua. Il secondo don Paolino Albera. Il terzo sarà don Filippo. Il vecchio don Francesia dirà di lui: “Di don Bosco gli manca soltanto la voce. Tutto il resto ce l'ha”.
Il canonico che si riposava.
Nel 1872 don Bosco si recò per una breve visita a Genova. Racconta don Amadei:
“Tra gli altri si recò a visitarlo il canonico Ampugnani, che abitava a Marassi e l'aveva aiutato a comprare il collegio di Alassio. Don Bosco gli domandò:
- E adesso che cosa fa?
- Io? Niente, mi riposo.
- Come, si riposa? Lei è sano, è ancora giovane.
- Ho lavorato molti anni in America, e ora mi riposo. Don Bosco divenne molto serio:
- E non sa che il riposo del prete è il paradiso? E che renderemo a Dio strettissimo conto del tempo perduto?
Il canonico rimase così colpito da quelle parole, che non sapeva da che parte voltarsi per uscire. Il giorno dopo, tornò alla casa salesiana, e disse al direttore che lo facesse suonare, far scuola di musica, predicare:
- Don Bosco - esclamò - mi ha detto delle parole terribili! S'incontrò anche con il Superiore Generale dei Minimi di san Francesco da Paola, uomo dottissimo, che faceva il parroco. Salutatolo rispettosamente, don Bosco gli disse:
- Chissà quanto avrà da fare come Generale dell'Ordine. - Veramente poco o nulla. Siamo pochi, sa?
- Quanti novizi avete? - Nessuno.
- E quanti studenti?
- Nessuno.
- Come? - il volto di don Bosco divenne serio e grave, la parola vibrata -. E lei non si dà d'attorno per impedire che cada un Ordine tanto benemerito della Chiesa, che ancora non ha compiuto il fine per cui lo eresse il suo fondatore, e che possiede ancora tante profezie gloriose che devono compiersi?
- Ma non si trovano vocazioni!
- E lei, se non trova vocazioni in Italia, vada in Francia, in Spagna, in America, nell'Oceania. Lei ha una gravissima responsabilità, un conto grande da rendere a Dio. Quante fatiche, quanti dolori ha dovuto sopportare san Francesco da Paola per fondare il suo ordine. E lei permetterà che vadano perdute tante preghiere, tante fatiche, tante speranze?
Il buon Padre Generale era come annichilito. Promise che avrebbe fatto del suo meglio per trovare nuove vocazioni”.
Piccoli muratori all'oratorio festivo.
Chi segue la vita di don Bosco in questi anni, può avere l'impressione che l'oratorio festivo di Valdocco, che con lui ha vissuto tante giornate gloriose, sia sparito dall'orizzonte. Non è così. Don Bosco, certo, è assorbito al 90% dalla grande casa per studenti e artigiani che ospita 800 ragazzi, dalle altre opere salesiane che si stanno moltiplicando. Ma non dimentica il “suo” oratorio. Le testimonianze non sono molte, ma sufficienti a fotografarlo anche in questo settore.
“Venni a Torino nella quaresima del 1871 - racconta Enrico Angelo Bena -. Venivo da Magnano Biellese e mi consumavo per lavorare con i muratori. Alla prima festa, come aveva raccomandato a me e agli altri ragazzi partenti il parroco, mi recai all'oratorio di don Bosco. Mi piacque. Ogni anno, tornando a Torino da marzo a novembre, continuai a frequentarlo, finché non andai soldato.
L'entrata dell'oratorio in quegli anni era a sinistra del santuario di Maria Ausiliatrice. L'ingresso era un portone rozzo di assi. C'erano con noi tre o quattro sacerdoti e parecchi chierici. Don Bosco veniva ordinariamente al mattino per la Messa, al pomeriggio per il catechismo.
Il secondo anno che venni a Torino feci all'oratorio la prima Comunione. Tutti avevano un vestito pulito. Chi non lo poteva avere dalla famiglia, lo riceveva da don Bosco. Fu lui stesso a celebrare la Messa nella chiesa di San Francesco e a darci la Comunione. Dopo, uscendo dalla chiesa, c'era una tavola preparata per noi: pane, formaggio, salame. Don Bosco passò a dare un misurino di vino, che versava a ciascuno nel bicchiere. Distribuì pure dei biscotti.
Quando un giovane aveva giacca, calzoni, scarpe rotte, don Bosco dava vestiti o scarpe, magari rattoppate ma buone. All'oratorio ci attirava la giostra, il passo volante, i doni che ricevevamo. Anche la musica della banda era una bella attrattiva”.
Nello stesso 1871 cominciò a frequentare l'oratorio festivo di Valdocco Francesco Alemanno, un giovane operaio di Villa Miraglio. Si era trasferito a Torino con la famiglia. Il primo giorno che vi andò incontrò don Bosco. Dopo le funzioni ci fu una piccola lotteria e Alemanno vinse una cravatta. Don Bosco gliela mise al collo, e gli domandò:
- Come ti chiami?
- Francesco Alemanno.
- Vieni da molto all'oratorio?
- È la prima volta.
- E conosci don Bosco?
Il ragazzo rimase impacciato, poi alzò timidamente gli occhi:
- Don Bosco è lei.
- Ma tu conoscerai bene don Bosco se ti lascerai far del bene all'anima.
- È appunto quello che cerco, un amico che si prenda cura di me.
- Che bellezza! Tu stasera hai guadagnato una cravatta, e io con questa ti legherò all'oratorio in maniera che non ti allontanerai mai più!
Francesco divenne davvero amico di don Bosco. Dall'oratorio passò alla Congregazione salesiana.
Piccoli muratori, distribuzione di vestiti ai più poveri, dialoghi a tu per tu con i ragazzi: è sempre l'oratorio di don Bosco, che continua a vivere e a prosperare all'ombra del santuario.
Don Bosco ne affidò la direzione per qualche anno a don Barberis. Poi, per moltissimi anni, a don Pavia coadiuvato dal leggendario coadiutore Giovanni Garbellone. Quest'uomo, con un temperamento un po' eccentrico e bizzarro, fu una prova vivente della straordinaria potenza formativa di don Bosco, che seppe esaltare le doti naturali anche dei temperamenti più poveri.
Per cinquant'anni Garbellone fu l'anima dell'oratorio festivo. In un quadernetto teneva seimila nomi di ragazzetti preparati da lui alla prima Comunione. Dal 1884 divenne maestro della banda, che diresse con portamento fierissimo fino al 1928, quando morì.
Don Bosco se ne guadagnò l'amicizia con un gesto di grande fiducia. Gli mise in mano trentamila lire perché andasse a pagare un debito. Qualcosa come cinquanta milioni di oggi. Garbellone aveva 28 anni, ed era un povero spiantato. Quel gesto lo commosse talmente che da quel momento per don Bosco si sarebbe gettato nel fuoco.
Michele Unia, contadino.
Il 19 marzo 1877 all'oratorio arrivò un contadino di 27 anni. Si chiamava Michele Unia. Disse a don Bosco che avrebbe voluto studiare per farsi prete, ma non salesiano.
- Vorrei tornare a Roccaforte di Mondovì, il mio paese.
- Ma se il Signore ti volesse per una missione più grande?
- Se il Signore mi fa capire che questa è la sua volontà.
- Se Dio mi rivelasse il tuo interno, e io te lo dicessi qui a te, ti sembrerebbe un segno sufficiente che egli ti vuole prete salesiano?
Michele Unia non sapeva se prendere la cosa sul serio o come uno scherzo. Ci pensò su, poi:
- Ebbene, mi dica quello che vede nella mia coscienza.
Don Bosco gli disse tutto. Gli elencò buone opere e peccati, fin nei minimi particolari.
Unia credeva di sognare:
- Ma come fa a sapere tutte queste cose?
- E so di più ancora. Tu avevi undici anni, e una domenica eri nel coro della tua chiesa, ai vespri. Un tuo compagno vicino a te dormiva con la testa in su e la bocca aperta. Tu avevi delle prugne in tasca. Cercasti la più grossa, e la lasciasti cadere nella bocca aperta di quel poveretto. Sentendosi soffocare, balzò in piedi e si mise a correre di qua e di là come un matto. Si dovettero sospendere i vespri. Tu ridevi a crepapelle, ma il prete ti appioppò mezza dozzina di scapaccioni.
Michele Unia rimase con don Bosco. Fu il primo missionario salesiano a recarsi tra i lebbrosi della Colombia, in una località sperduta chiamata Agua de Dios. Visse tra 730 colpiti dalla terribile malattia, e con un lavoro estenuante che alla fine lo stroncò, ridiede un volto alla loro dignità di uomini e di figli di Dio.
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