5. La passione di Barabba - Quinta puntata

La passione di Barabba,

5. La passione di Barabba - Quinta puntata

da Feste dei Giovani

del 02 dicembre 2010

 

Lo sguardo di Ges√π

     La mattina successiva la situazione sembrava sotto controllo ma, al primo movimento brusco delle catene, la sottile crosta formatasi nella notte saltò via e le ferite ricominciarono a sanguinare. Il dolore era forte. Da due ore chiedevo di avere un po’di lattice da mettere all’interno delle catene strette intorno ai polsi, ma avevano fatto tutti orecchie da mercante, ora finalmente ero deciso: o mi risolvevano il problema o non avrei girato più! Per tutta risposta mi dissero che il lattice era bianco e aprendo le catene in primo piano c’era il rischio che si vedesse… Puntai i piedi, determinato.

Sisti, sempre vigile, percepì che c’era qualcosa che non andava e si avvicinò; io colsi l’occasione al volo e gli dissi a muso duro in un modo che non prevede repliche: «Guarda in che condizioni sono! Ma posso lavorare così?».

     Quello, che è un grande uomo di cinema, colse subito la gravità e la mia determinazione e con abilità e mestiere trovò la soluzione: «Ma siete pazzi!? Cercate del lattice nero, al limite dipingetelo, ma l’attore non può stare in queste condizioni».

Poi si rivolse a me paternamente, facendo leva sul cameratismo: «Pedro, capisco il tuo disagio e mi scuso. Però, per cortesia, in attesa del lattice, stringi i denti e andiamo avanti perché stiamo arrivando al cuore della scena».

     Questo era parlare da uomo! Finalmente qualcuno che sapeva relazionarsi. Motivato a rispettare un accordo, mi misi in posizione, pronto per il ciak successivo. La scena era composta da tutti i personaggi e vedevo, dal mio discosto punto di partenza, l’attore che interpretava Gesù, intento a prendere posto davanti alla colonna alla destra di Pilato, quella opposta alla mia.

Non sapevo chi fosse e mi rendo conto che, anche sul set regnava una sorta di riservatezza sull’argomento, non mi ero minimamente preoccupato di sapere chi fosse l’attore che interpretava il protagonista. In qualche momento avevo anche pensato che lo avrebbe interpretato lo stesso Mel Gibson, cosa tipica di tante produzioni dove la stessa persona è produttore, regista e protagonista, spesso a discapito del risultato finale, salvo rare eccezioni.

     Erano anni che vivevo, con grande amarezza, la difficoltà di fare cinema e teatro bene, per un attore bravo ma onesto e senza raccomandazioni. Mi rendevo conto che col passare del tempo il mio spirito artistico e sognatore, il mio fuoco sacro, si erano trasformati in un cinismo sterile e rancoroso; possibile che tutta la mia profondità poetica, acquisita lavorando con grandi maestri del teatro come Kantor, Grotowsky, Barba e tanti altri, non ultima la grande esperienza fatta con Daniele Finzi del Teatro internazionale Sunil, con cui ho girato il mondo recitando per tanti anni, possibile che tutto fosse andato perso, cancellato dal rancore del non essere valorizzato, ma anzi spesso tradito?

Mentre riflettevo e mi perdevo in questi dolorosi bilanci, l’urlo di Enzo Sisti ruppe il silenzio e mi riportò alla realtà: «Action!»

     Mi ritrovavo, per l’ennesima volta, trascinato dai soldati romani, con dentro al cuore la mia tempesta di uomo, da sempre costretto a subire le angherie che il destino mi aveva riservato. Mentre mi stavo avvicinando, la mia attenzione venne attratta dall’esile figura di Gesù in lontananza.

     Arrivai alla colonna, dove fui incatenato; Pilato stava parlando alla folla e io mi trovai di fronte Gesù, suo alter-ego improbabile. Lo osservai. Non era il solito Gesù cinematografico, rimasi impressionato dalla verosimiglianza e dalla perfezione dell’immagine: lacero e sofferente, non era stato ancora fustigato, ma già portava i segni dei primi maltrattamenti. All’attore non era stato risparmiato nulla, né lui stesso si era risparmiato per calarsi profondamente nella parte: non aveva ridicole pantofoline come le mie; tra una scena e l’altra non faceva pause; non usciva ed entrava continuamente dal personaggio, come invece facevo io parlando, lamentandomi o bevendo tè caldo. Insomma, viveva con grande dignità il disagio e il dolore del suo personaggio.

     Mi colpì quest’esempio educativo, fortissimo, che mi veniva dal protagonista il quale, forte della sua posizione, avrebbe potuto pretendere ogni comfort, ogni privilegio e invece, stoicamente, stava lì fermo, scalzo e dolente al freddo.

Con la sua forza eroica, con la sua determinazione, mi portò a una sorta di risveglio etico, una risposta concreta a quella tempesta che avevo nel cuore pochi momenti prima. Decisi di colpo di mettere in gioco tutta la purezza assopita in fondo al mio cuore, per meglio interpretare questo Barabba. Tutta l’amarezza e il rancore che mi distraevano decisi di usarli come sensazioni proprie del personaggio, d’altronde iniziavo a sentirmi molto vicino a Barabba e alla sua richiesta, violenta, di giustizia.

     Tutto cambiò prospettiva: tutto il lavoro che avrei dovuto fare prima, sul personaggio, lo stavo facendo allora. Lo sguardo dolente di Maria, lo sguardo impotente di Claudia, il grande sforzo di Pilato nel contenere con freddezza, e senza mostrare incertezze, un intero popolo in escandescenza: ero circondato da grandi prove recitative che mi spingevano a dare il meglio in assoluto; tutti i personaggi che mi circondavano avevano un tale spessore e una tale verità da apparirmi come fossero quelli veri.

Raramente avevo incontrato una qualità professionale così alta, era affascinante lavorare così e volevo essere all’altezza.

Tra una scena e l’altra riflettei e, di colpo, ebbi un’altra illuminazione: vuoi vedere che Mel Gibson ha visto in me lo spirito di Barabba? Lo spirito dell’uomo giusto che pretende giustizia, ma nel modo sbagliato, l’uomo vessato che si ribella abbruttendosi… Forse per questo ha voluto che lo interpretassi io!

     Il mutismo di Barabba, il mutismo dell’uomo ormai bestia, quanto si sovrapponeva al mio mutismo di rifiuto della società, alla mia aggressività, al mio non voler andare alle feste o alle premiazioni, al mio chiudermi e al mio non perdonare… La cosa mi sorprendeva, e non poco! Avevo conosciuto un Mel Gibson regista affascinante e cordiale, ma mi spiazzava l’idea che in lui ci fosse anche un uomo tanto ricco di sensibilità e umanità, al punto di percepire l’animo degli attori e cercarli perfettamente sovrapponibili agli animi dei personaggi.

I polsi mi sanguinavano. Arrivarono un paio di persone della troupe e mi dissero che avevano trovato dei cerotti e della gommapiuma nera e che in poco tempo avrebbero potuto sistemare tutto. Mi veniva da sorridere. Così sono quelli del cinema: forti con i deboli e deboli con i forti, erano due giorni che chiedevo aiuto, ma tutto era impossibile; poi era bastato un urlo del primo aiuto regista Enzo Sisti, e tutto era divenuto possibile.

Sorridendo, li guardai, facendo capire che non avevo più bisogno del loro aiuto: mi stavano bene quelle ferite e quel sangue; lo presero con l’ennesimo, incomprensibile capriccio, io mi scusai e tentai di spiegare: «Il dolore mi aiuta nell’immedesimazione» e in più, pensai tra me, mi faceva sentire più vicino all’esempio di professionalità e di etica che mi stava dando l’attore che interpretava Gesù. «Anzi, se portate via anche le pantofole e il tè, mi fate una cortesia!»

Mi guardarono sorpresi, ma fu un attimo, ci vuol altro per stupire la gente del cinema. Poi se ne andarono via accontentandomi.

Ero talmente motivato che i soldati romani e l’attore che interpretava Abenader facevano fatica a trattenere la mia veemenza tanto che, messi alle strette, iniziarono a usare veramente le catene come mezzo di contenimento.

Mel finalmente mi sembrava soddisfatto, mi venne vicino e mi disse: «bene, Pedro, siamo sulla strada giusta. Vedi, Barabba, a causa delle vessazioni subite in carcere, è diventato come un cane rabbioso, un cane pazzo. Mad dog! Mad dog!».

     Mi ripeteva con energia questo concetto del Mad dog, mentre rientravo nella mia postazione di partenza. In quel momento mi sovvenne una scena drammatica a cui avevo assistito da ragazzo a Lauria, il paese d’origine di mio padre, quando un grosso cane affetto da rabbia venne catturato dall’addetto comunale, con non poca fatica: l’animale reso pazzo dalla malattia, era ingestibile e alla fine per bloccarlo ci vollero più persone; uno di questi incastrò la testa del povero animale con un forcone contro il muro, e solo allora, schiumando e latrando, l’animale si fermò.

Decisi d’ispirarmi a quell’impressionante ricordo d’infanzia.

Ai soldati e ad Abenader che continuavano a lamentarsi per la mia ingestibilità, dissi: «Se non volete prenderle, bloccatemi la gola alla colonna, altrimenti io vi aggredirò fino a che avrò fiato in gola!».

Barabba finalmente riviveva, di una verità dolorosa e animalesca.

Mel Gibson era davvero soddisfatto, mi diede consigli su come relazionarmi con gli altri personaggi e poi mi chiese di non guardare Ges√π fino a quando, libero, avrei iniziato a scendere gli scalini del Sinedrio; solo allora avrei dovuto guardarlo, ma in modo naturale, avrei dovuto sentire il momento giusto.

     Feci e rifeci la scena tante volte. Questo è il cinema: mille cose devono armonizzarsi e combaciare, non è facile che accada con semplicità, per cui si fa e si fa di nuovo alla ricerca della perfezione, e ogni volta la scena è un po’più bella e un po’più vera.

Talmente vera che quando arrivai al momento di scendere dalle scale del Sinedrio, con 500 persone che gridavano: «Scezi Barabbas! Scezi Barabbas!» cioè «Barabba libero», ero talmente coinvolto a livello emozionale che mi dimenticai lo sguardo a Gesù, feci uno scalino e sentii come una leggera scossa mista a una sensazione di calore sulla spalla destra, mi girai d’istinto e i miei occhi per la prima volta incontrarono davvero quelli del Gesù interpretato da Jim Caviezel.

     Rimasi spiazzato dalla profondità dello sguardo: mi aspettavo dolore, rabbia, delusione, paura o tante altre emozioni che sarebbero state giuste per un personaggio che aveva subito tanta violenza e che stava per essere mandato a morte al mio posto, invece nulla di tutto questo, in quello sguardo c’era una dolce rassegnazione e forse un velo d’amore e preoccupazione per me e per la mia condizione di degrado!

     L’istinto dell’attore, appena mi ero girato, mi aveva portato a prevedere il tipo d’emozione che avrei potuto incontrare, per replicare con pronta corrispondenza, ma non trovai niente di quello che mi aspettavo: negli occhi che stava morendo per me non c’erano né odio né rancore, non c’erano amarezza né recriminazione, bensì un’armonica rassegnazione, quasi una dolce accettazione.

Sono un esperto di psicoterapia e psicodramma, avendo lavorato per anni al fianco di psicoterapeuti; ho giocato con i sentimenti per 25 anni sul palcoscenico dello spettacolo e su quello della vita, non sono una persona ingenua facile al plagio o un fragile attore della ricerca dell’ennesima esperienza metafisica, sono un forte figlio della terra, che ha combattuto tutta la vita, vincendo e perdendo, ho attraversato il deserto di Douz a piedi, ho vissuto da solo in Amazzonia e ho raggiunto il Tibet, sempre a piedi, partendo dall’India, ho girato mezzo mondo all’avventura senza mai perdermi. Eppure ero completamente perso in quello sguardo enorme e soave.

Ripetemmo la scena molte volte. E ogni volta era un’emozione forte, ogni volta un po’diversa, ma capace di cambiarmi, improvvisamente, il cuore.

 

 

Pedro Sarubbi

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