La spiritualità di don Bosco, negli ultimi anni, si affinava sempre più. La sofferenza può spingere al disperato cinismo o far germogliare la santità. In don Bosco questo germogliare si vedeva quasi giorno per giorno. Anche la sua umanità ne era come trasfigurata.
“Nell'ultimo decennio di vita - scrive Pietro Stella -, specialmente dopo il 1882, don Bosco appare l'uomo che ha assimilato ormai l'insegnamento offerto da una lunga esperienza. Non pare abbia più quei contrasti che dovette sostenere con Antonio, con i primi collaboratori, con mons. Gastaldi. Più che mai egli rifugge dalla polemica; non ama che si battagli, vuole che anche durante le ostilità e le vessazioni non si alzi la voce, non si controbatta, non si segua l'esempio di giornali cattolici dalla polemica aspra e corrosiva. Vuole che ci si preoccupi " di passare fra goccia e goccia sotto il temporale senza bagnarsi ". I suoi ultimi anni sono ancora di grandi contrasti e di scarsi appoggi ufficiali, spesso di vessazioni fiscali da parte di autorità amministrative e politiche, ma lui sembra penetrato più che mai da un ideale di amorevolezza, di benevolenza”.
Un pretino serio e pensoso.
Nel 1883 venne a fargli visita dalla Lombardia un pretino serio, pensoso. Si chiamava don Achille Ratti. Don Bosco parlò con lui una buona mezz'ora, gli diede tutte le notizie che desiderava. Poi gli disse:
- Adesso lei si consideri padrone di casa. Io non posso accompagnarla perché sono molto occupato, ma lei vada, venga, veda tutto ciò che vuole.
In quel momento erano presenti a Valdocco i direttori delle case salesiane, venuti per alcune riunioni. Dopo il pranzo, mentre don Bosco stava in piedi appoggiato alla tavola, essi venivano a esporgli le loro difficoltà. Don Ratti voleva ritirarsi, ma don Bosco stranamente gli disse:
- No, no, stia pure.
Quel pretino diverrà Papa Pio XI. Quarantanove anni dopo, parlando di don Bosco ai seminaristi romani, racconterà quel fatto e dirà: “C'era gente che veniva da tutte le parti, chi con una difficoltà, chi con un'altra. Ed egli, in piedi, come se fosse cosa di un momento, sentiva tutto, afferrava tutto, rispondeva a tutto. Un uomo che era attento a tutto quello che accadeva attorno a lui, e nello stesso tempo si sarebbe detto che non badava a niente, che il suo pensiero fosse altrove. Ed era veramente così: era altrove, era con Dio. E aveva la parola esatta per tutto, così da meravigliare. Questa la vita di santità, di assidua preghiera che don Bosco conduceva fra le occupazioni continue e implacabili”.
Un fiore per pensare all'eternità.
Nell'aprile del 1885 faceva alcuni passi nel giardino di una signora, che l'aveva invitato a pranzo insieme al suo giovane segretario don Viglietti. Camminando lentamente, si fermò davanti a una aiuola fiorita. Raccolse una viola e la porse alla signora:
- Lei è stata gentile a invitarci a pranzo, signora. E io voglio ricambiarla con un fiore, che è un pensiero.
- E quale pensiero, don Bosco?
- Il pensiero dell'eternità. È un pensiero che deve accompagnarci sempre. Tutto passa in questo mondo: solo l'eternità rimarrà per sempre. Lavoriamo perché la nostra eternità sia felice.
Don Bosco pensava alla morte, all'incontro con Dio. Qualche volta quel pensiero lo faceva diventare serio, pensoso. Un giorno del 1885, salutando un signore a San Benigno, gli disse:
- Preghi per me.
- Oh don Bosco! Ma lei non ne ha bisogno.
Don Piscetta che era presente testimoniò: “Allora egli si fece serio serio, sui suoi occhi spuntarono lacrime, e disse con accento di profonda sincerità: " Ne ho molto bisogno "“.
“Là Madonna è qui”.
Nell'agosto di quello stesso anno, don Bosco andò a Nizza Monferrato per la vestizione e la professione delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Era così sfinito che potè dare solamente la Comunione ad alcune suore. Alla vestizione e alla professione assistette soltanto seduto su un seggiolone. Ma volle dire alcune parole. Aveva la voce debole, e don Bonetti, al suo fianco “funzionava da altoparlante” ripetendo ad alta voce le frasi che non si capivano.
- Dunque, voi volete che vi dica qualcosa. Se potessi parlare, quante cose vi vorrei dire! Ma sono vecchio, vecchio cadente, come vedete. Voglio solo dirvi che la Madonna vi vuole molto, molto bene. E, sapete, essa si trova qui in mezzo a voi.
E don Bonetti ad alta voce:
- Don Bosco vuol dire che la Madonna è vostra madre, e che essa vi guarda e vi protegge.
- No, no - riprese don Bosco -. Voglio dire che la Madonna è proprio qui, in questa casa, e che è contenta di voi. Don Bonetti ancora:
- Don Bosco vi dice che, se sarete buone, la Madonna sarà contenta di voi.
Allora don Bosco cercò di dominare le sue forze, allargò le braccia e disse:
- Ma no, ma no. Voglio dire che la Madonna è veramente qui, qui in mezzo a voi! La Madonna passeggia in questa casa, e la copre con il suo manto.
Don Bosco e i ricchi.
Negli ultimi 25 anni, per le mani di don Bosco passarono somme ingentissime, colossali. Veri milioni (milioni del 1800!). Don Bosco fu sempre poverissimo, d'accordo, alle sue mani non si attaccò mai un centesimo. Ma qualcuno si è domandato: “I ricchi, coloro che gli davano grandi somme, don Bosco non li lisciò in maniera eccessiva? Non finì per narcotizzare la loro coscienza nei confronti della responsabilità sociale che loro incombeva?”. Una domanda legittima.
Dopo aver esplorato la vita di don Bosco, ci pare che egli usò una grande gentilezza verso tutti quelli che gli fecero del bene: il contadino e l'operaio che gli offrivano dieci centesimi e il conte Colle che gli contava uno sull'altro centocinquanta biglietti da mille.
Alcune persone ebbero con lui una generosità straordinaria; verso costoro don Bosco ebbe una gentilezza straordinaria. La contessa Callori, per esempio, ultima riserva a cui don Bosco ricorreva nei casi “impossibili” senza mai essere deluso, fu da lui chiamata “mamma”. Ci sembra un atteggiamento giusto.
Ma più che parole (specialmente quanto alla “narcotizzazione delle coscienze”) vorremmo portare fatti.
A Sampierdarena, nel 1882, andò a visitarlo un Padre cappuccino confessore di un nobile genovese molte volte milionario, già vecchio e senza figli. Don Bosco, entrato in argomento, gli domandò:
- Come mai quel signore non fa beneficenza in proporzione alle sue ricchezze?
- Lei si sbaglia, don Bosco. Ogni anno dà ventimila lire ai poveri (più di 20 milioni di oggi).
- Ventimila soltanto? Se vuole obbedire a Gesù Cristo, cioè dare nella proporzione di ciò che ha, non bastano centomila all’anno.
- Capisco. Ma io non so come persuaderlo. Come farebbe lei al mio posto?
- Gli direi che non voglio andare all'inferno per causa sua, e che se ci vuole andare lui, ci vada da solo. Quindi gli imporrei di fare beneficenza proporzionata al suo stato. Nel caso che non voglia, gli direi che non mi sento di continuare a essere il responsabile della sua anima.
- Ebbene, glielo dirò - promise il Padre. Fece come aveva promesso. Il nobile signore non gradì le sue parole, e lo licenziò.
Il capomastro Borgo, pure di Sampierdarena, aveva fatto molti favori alla casa salesiana per ragazzi poverissimi. Aveva anticipato somme notevoli senza esigere interessi, aveva eseguito gratuitamente i disegni, per due anni non aveva esigito nessun stipendio per la sua assistenza ai lavori.
Sua moglie era morta da vent'anni, ed egli conservava in casa i suoi gioielli e i suoi abiti preziosi. Un giorno, quasi per caso, disse a don Bosco che avrebbe voluto fare qualcosa in ricordo della sua signora, anche come suffragio della sua anima. Don Bosco, quasi bruscamente, gli disse:
- Se vuole agire da cristiano, perché tiene in casa tante cose preziose e inutili? - Che cosa mi consiglierebbe di fare?
- Portarle qui a questi ragazzi che non hanno nemmeno il necessario.
Il capomastro si allontanò quasi offeso. Quel sacrificio gli costava troppo. Camminò a lungo, ci ripensò. Dopo alcuni giorni tornò. Don Bosco era ancora a Sampierdarena. Gli consegnò personalmente tutti i preziosi ricordi della sua compagna.
A molti salesiani pareva troppo duro il linguaggio con cui don Bosco si rivolgeva ai ricchi, ed egli il 4 giugno del 1887 disse: “Alcune notti fa ho sognato la Madonna. Essa mi rimproverò perché qualche volta faccio silenzio sull'obbligo di fare l'elemosina. Si è lamentata perché i sacerdoti dal pulpito hanno paura a spiegare il dovere di dare il superfluo ai poveri, e così per loro colpa i ricchi accumulano l'oro nelle casseforti”.
Il 22 aprile del 1887, con don Belmonte e don Viglietti, da Sampierdarena si recò a Sestri Ponente per far visita alla signora Luigia Cataldi, sua grande benefattrice. Al termine della visita, mentre l'accompagnava alla porta, la signora domandò:
- Don Bosco, che cosa devo fare per salvarmi?
- Per salvarsi, dovrà diventare povera come Giobbe.
La signora rimase sconcertata, e anche don Belmonte che aveva sentito quelle ultime due battute. Ma don Bosco non aggiunse parola. Sulla carrozza che li riportava a casa, con la franchezza solita tra i primi salesiani, don Belmonte disse:
- Ma don Bosco, con che coraggio ha parlato così a quella povera donna? Di elemosina ne fa già molta.
- Vedi - rispose don Bosco -, ai signori non c'è mai nessuno che osi dire la verità.
Durante il suo ultimo viaggio in Francia, don Bosco fece una puntata a Hyères. Il presidente della Società marsigliese per il Commercio, signor Abeille, passò lui stesso attraverso la chiesa parrocchiale a fare la colletta per don Bosco. Alla fine si congratulò con lui, perché molti signori avevano vuotato nel vassoio i portafogli. Don Bosco gli disse:
- Io la trovo una cosa naturale. Se sono cristiani, devono dare il superfluo ai poveri. Veda, signor Abeille, quando lei ha messo da parte cento franchi al mese, e cento franchi al mese sono molti, il resto lo deve dare a Dio.
Rimase sempre dolosamente impressa nella mente di don Bosco la morte di una marchesa di 84 anni, sua benefattrice. Lo aveva mandato a chiamare, si era confessata, poi guardandolo con occhio smarrito gli aveva detto:
- Allora, devo proprio morire?
Don Bosco cercava di parlarle di Dio, ma lei si guardava intorno con angoscia e continuava a mormorare:
- Il mio bel palazzo, le mie stanze, il mio salotto così intimo, devo proprio lasciarli? -.
Aveva voluto che i servi le ponessero accanto al letto un prezioso tappeto persiano, lo accarezzava, e come fuori di sé continuava a dire: - È così bello! Perché lo devo lasciare?
A don Antonio Sala che esitava a partire in cerca di beneficenza, don Bosco disse con forza:
- Va' con coraggio. I ricchi fanno del bene a noi, ma anche noi facciamo del bene a loro, dandogli l'occasione di aiutare i poveri.
Nel 1876, passando per Chieri, don Bosco vide Giuseppe Blanchard, il giovanotto che tante volte aveva svuotato la fruttiera di casa sua per sfamarlo. Era diventato un vecchietto anche lui. Passava per la strada con in mano un piatto e una bottiglia di vino. Don Bosco, lasciando i preti con cui stava parlando, gli andò incontro festoso:
- Caro Blanchard! Come sono contento di rivederti. Come va?
- Bene, bene, signor cavaliere -, rispose impacciato. La faccia di don Bosco divenne mesta:
- Perché mi chiami cavaliere? Perché non mi dai del to? Io sono il povero don Bosco, sempre povero come quando tu mi toglievi la fame.
Si rivolse ai preti che gli si erano avvicinati:
- Signori, questo è uno dei primi benefattori del povero don Bosco. Ci tengo, sai, che lo sappiano. Perché tu hai fatto tutto ciò che potevi per me. Ogni volta che verrai a Torino, devi assolutamente venire a pranzo da me.
Dieci anni dopo, nel 1886, Blanchard seppe che la salute di don Bosco era poco buona, e si recò a Torino per trovarlo. Nell'anticamera il segretario gli disse:
- Don Bosco sta male e riposa. Non può ricevere nessuno.
- Ditegli che c'è Blanchard. Vedrete che mi riceverà.
Don Bosco, al di là della porta, riconobbe la voce. Si alzò con stento e gli venne incontro. Lo prese per mano, lo fece entrare e sedere accanto a sé:
- Bravo Blanchard, ti sei ricordato del povero don Bosco. Come va la tua salute, la tua famiglia?
Parlarono a lungo. Era quasi l'ora di pranzo:
- Vedi, sono vecchio e malandato. Non posso scendere a pranzo con te: le mie gambe non sopportano più le scale. Ma voglio che tu scenda a pranzo tra i miei salesiani -. Chiamò il segretario: - Farai accomodare questo mio amico nel refettorio del Capitolo, al mio posto. Pregherò per te, Blanchard, e tu non dimenticare il tuo povero don Bosco.
Confuso, il vecchietto di Chieri pranzò quel giorno al centro del Capitolo Superiore della Congregazione, e raccontò la sua amicizia con Giovanni a Chieri, e il suo incontro di dieci anni prima.
10 giorni per scendere a Roma.
Nel maggio 1887 si sarebbe consacrata la chiesa del Sacro Cuore in Roma, praticamente terminata. In quei muri erano sette anni di lavoro, di stenti, di salute bruciata.
Don Bosco non avrebbe potuto sopportare un viaggio fino a Roma. Si pensò di farglielo compiere a piccole tappe, con molte soste. Partì la mattina del 20 aprile. “Partì da casa - scrisse don Lazzero - che pareva non potesse resistere nemmeno fino a Moncalieri”. Lo accompagnavano don Rua e don Viglietti. Per la prima volta nella sua vita, don Bosco si lasciò adagiare in una carrozza di prima classe. Fece lunghe soste presso le case salesiane che si trovavano sul percorso, e in case di benefattori preavvisati per tempo.
A Firenze incontrò l'anziana contessa Uguccioni. Lui arrivò sorretto da don Viglietti, lei spinta su una carrozzella. Don Bosco scherzò:
- Bentrovata, signora contessa! S'ha da fare un balletto?
- Oh, don Bosco! Guardi in che stato mi trova.
- Bene, bene, non si spaventi. Il balletto lo faremo in Paradiso!
Alla stazione di Arezzo ci fu un incontro inaspettato. Il capostazione, appena lo vide, corse verso di lui, lo abbracciò, e piangendo di gioia disse:
- Don Bosco, non si ricorda di me? Io ero un ragazzaccio a Torino, senza papà né mamma. Lei mi raccolse, mi istruì, mi volle bene. Ora, se ho una bella famiglia e questo posto, lo devo a lei.
Arrivò a Roma nel pomeriggio del 30 aprile. Fu portato a visitare il Seminario Lombardo. Vollero che rivolgesse una parola ai chierici. Riuscì a dire una frase sola:
- Pensate sempre a ciò che di voi potrà dire il Signore, non a quello che di voi, in bene o in male, diranno gli uomini.
Fu ricevuto dal Papa, che lo fece sedere accanto a sé e gli mise sulle ginocchia una larga pelliccia di ermellino.
- Sono vecchio, Padre Santo - mormorò don Bosco -, e questo è il mio ultimo viaggio e la conclusione di tutto per me. C'è tanto da fare, ma non ho bisogno di raccomandare ai miei figli il lavoro. Piuttosto - e ammiccava verso don Rua che gli stava accanto - devo raccomandare la moderazione. Ce ne sono molti che si logorano la salute, non lavorano soltanto di giorno, ma anche di notte.
- Padre Santo - disse allora don Rua -, chi ci ha dato scandalo in questo è stato don Bosco.
Il Papa sorrise. Poi diede un consiglio sapiente:
- A voi e al vostro vicario mi preme di raccomandare che non siate tanto solleciti del numero dei salesiani, quanto della loro santità. Non è il numero che aumenta la gloria di Dio, ma la virtù, la santità. Perciò siate cauti e rigorosi nelle accettazioni.
Mentre scendeva lo scalone, le guardie svizzere si misero sull’attenti. Don Bosco ridendo disse loro:
- State tranquilli. Non sono un re. Sono un povero prete tutto gobbo.
Il pianto grande.
La solenne consacrazione fu compiuta il 14 maggio.
Il giorno 15 don Bosco volle scendere in chiesa, e celebrare la Messa all'altare di Maria Ausiliatrice. Aveva appena iniziato, quando don Viglietti che lo assisteva lo vide scoppiare a piangere. Un pianto lungo, irrefrenabile, che accompagnò quasi tutta la Messa. Alla fine, dovettero quasi portarlo in sacrestia. Don Viglietti gli sussurrò preoccupato:
- Don Bosco che ha? Si sente male? Don Bosco scosse la testa:
- Avevo dinanzi agli occhi, viva, la scena del mio primo sogno, a nove anni. Vedevo proprio e udivo mia mamma e i miei fratelli discutere su ciò che avevo sognato.
In quel lontano sogno la Madonna gli aveva detto: “A suo tempo tutto comprenderai”. Ora, guardando indietro nella vita, gli pareva di comprendere proprio tutto. Valeva la pena fare tanti sacrifici, tanto lavoro, per la salvezza di tanti ragazzi.
Il 18 maggio don Bosco ripartì da Roma per l'ultima volta.
Luigi Orione: tre quaderni di peccati.
Anche in quegli ultimi anni, consumati dai viaggi e dai debiti, don Bosco non si staccò mai dai suoi ragazzi. Vederli, sentirli, fare dieci passi con loro, gli ridava la vita anche dopo giornate massacranti.
Nell'ottobre del 1886 era stato accettato un ragazzo di 14 anni di Pontecurone. Si chiamava Luigino Orione. Era figlio di un povero selciatore di strade. Si era inginocchiato anche lui accanto a papà, ore e ore con le ginocchia nella sabbia umida, a porre i sassi uno dopo l'altro, e spingerli nel terreno con piccoli colpi di martello. Aveva cercato di diventare frate a Voghera, ma si era ammalato e aveva dovuto tornare a casa. L'avevano accettato i salesiani di Valdocco.
Luigino rimane affascinato, incantato da don Bosco. Quando scende in cortile (“Sempre più raramente, ormai”, ricorda) i giovani a decine, a centinaia si stringono attorno, si contendono i posti più vicini, felici di ricevere da lui una parola.
Luigino si spinge avanti più che può. Don Bosco lo fissa, gli sorride, gli domanda se la luna al suo paese è grande come a Torino, e quando lo vede ridere gli dice scherzando: “T'ses prope 'n fa fiòche” (Sei proprio un “fa nevicare”, un sempliciotto). Ha un grande desiderio, Luigino Orione: vorrebbe confessarsi da don Bosco. Ma come fare?
Don Bosco è allo stremo di forze. Confessa soltanto alcuni salesiani e gli alunni di quinta ginnasio, che si preparano a entrare nel noviziato. In modo quasi inspiegabile, Luigino ottiene questo singolarissimo privilegio. Bisogna che si prepari seriamente.
Narrò don Orione stesso: “Nell'esame di coscienza che feci, riempii tre quadernetti”. Per non tralasciare niente, aveva consultato alcuni formulari. Ricopiò tutto, si accusò di tutto. A una sola domanda aveva risposto negativamente: alla domanda “Hai ammazzato?”. “Questo no!” scrisse. Poi, con i quadernetti in tasca, una mano sul petto, occhi bassi, si accodò agli altri attendendo il suo turno. Tremava per l'emozione.
- Che dirà don Bosco quando leggerà tutti questi peccati? - e con la mano tastava i quadernetti. Toccò a lui. Si inginocchiò. Don Bosco lo guardò sorridendo.
- Dammi i tuoi peccati -. Il ragazzo tirò fuori il primo quadernetto. Don Bosco lo prese, sembrò soppesarlo un attimo, poi lo stracciò.
- Dammi gli altri.
Anche gli altri due fecero la stessa fine. Il ragazzo stava a guardare disorientato.
- E adesso la confessione è fatta - disse don Bosco -. Non pensare mai più a quanto hai scritto.
E gli sorrise. Luigino non dimenticherà mai più quel sorriso. A quella confessione riuscì a farne seguire altre. Un giorno don Bosco lo guardò fisso negli occhi:
- Ricordati che noi due saremo sempre amici.
Luigi Orione non dimenticò quella promessa. Quando saprà che don Bosco è in fin di vita, offrirà a Dio la sua in cambio. Quando diventerà padre di una Congregazione con oratori e case per i ragazzi poverissimi, dirà pensando a don Bosco:
- Camminerei sui carboni ardenti per vederlo ancora una volta e dirgli grazie. Chiamerà i tre anni passati a Valdocco “la stagione felice della mia vita”.
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