Imparare a proprie spese
Nelle prime quattro classi dovetti imparare a mie spese a trattare con i compagni.
Li avevo divisi mentalmente in tre categorie: buoni, indifferenti, cattivi. I cattivi, appena conosciuti, li evitavo assolutamente e sempre. Gli indifferenti li avvicinavo se ce n'era bisogno e li trattavo con cortesia. I buoni cercavo di farmeli amici, li trattavo con familiarità.
All'inizio, in città non conoscevo nessuno. Tenevo quindi una certa distanza con tutti. Dovetti tuttavia lottare per non diventare lo schiavetto di nessuno. Qualcuno voleva portarmi in un teatro, un altro a giocare a soldi, un terzo a nuotare nei torrenti. Un tizio voleva arruolarmi in una banda che faceva man bassa di frutta negli orti e nella campagna. Un tale fu così sfacciato da invitarmi a rubare un oggetto prezioso alla mia padrona.
Mi sono liberato da tutti questi squallidi compagni evitando rigorosamente la loro compagnia man mano che scoprivo di che pasta erano fatti. A tutti dicevo che mia madre mi aveva affidato alla padrona di casa, e che per amore di mia madre non potevo andare da nessuna parte senza il permesso della signora Lucia.
Questa mia volontaria dipendenza dalla signora Lucia mi procurò anche un utile finanziario. Vedendo che poteva fidarsi di me, mi affidò suo figlio. Era di carattere irrequieto, gli piaceva moltissimo il gioco, pochissimo lo studio. Anche se frequentava una classe superiore alla mia, sua madre mi pregò di dargli ripetizioni.
Lo trattai come un fratello. Con gentilezza, giocando con lui, riuscii a portarlo in chiesa a pregare. Nello spazio di sei mesi cambiò. A scuola riuscì ad accontentare i professori e a prendere buoni voti. La madre fu così contenta che mi condonò la pensione mensile.
Ero stimato e obbedito come il capitano di un piccolo esercito. Mi cercavano da ogni parte per organizzare trattenimenti, aiutare alunni nelle case private, dare ripetizioni.
La divina Provvidenza mi aiutava così a procurarmi il denaro per i libri di scuola, i vestiti e le altre necessità, senza pesare sulla mia famiglia.
Capitano di un piccolo esercito
Quelli che avevano cercato di farmi partecipare alle loro squallide imprese, a scuola erano un disastro. Così cominciarono a rivolgersi a me in maniera diversa: mi chiedevano la carità di prestare loro il tema svolto, la traduzione fatta.
Il professore, venuto a conoscere la faccenda, mi rimproverò severamente. « La tua è una carità falsa - mi disse - perché incoraggi la loro pigrizia. Te lo proibisco assolutamente».
Cercai una maniera più corretta per aiutarli. Spiegavo ciò che non avevano capito, li mettevo in grado di superare le difficoltà più grosse. Mi procurai in questa maniera la riconoscenza e l'affetto dei miei compagni. Cominciarono a venire a cercarmi durante il tempo libero per il compito, poi per ascoltare i miei racconti, e poi anche senza nessun motivo, come i ragazzi di Morialdo e di Castelnuovo.
Formammo una specie di gruppo, e lo battezzammo Società dell'Allegria. Il nome fu indovinato, perché ognuno aveva l'impegno di organizzare giochi, tenere conversazioni, leggere libri che contribuissero all'allegria di tutti. Era vietato tutto ciò che produceva malinconia, specialmente la disobbedienza alla legge del Signore. Chi bestemmiava, pronunciava il nome di Dio senza rispetto, faceva discorsi cattivi, doveva andarsene dalla Società.
Mi trovai così alla testa di un gran numero di giovani. Di comune accordo fissammo un regolamento semplicissimo:
1. Nessuna azione, nessun discorso che non sia degno di un cristiano.
2. Esattezza nei doveri scolastici e religiosi.
Questo avvenimento mi diede una certa celebrità. Nel 1832 ero stimato e obbedito come il capitano di un piccolo esercito. Mi cercavano da ogni parte per organizzare trattenimenti, aiutare alunni nelle case private, dare ripetizioni.
La divina Provvidenza mi aiutava così a procurarmi il denaro per i libri di scuola, i vestiti e le altre necessità, senza pesare sulla mia famiglia.
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