Dimenticavo: chiaramente non festeggio l'8 marzo, non vorrei trovarmi in quei locali dove branchi di donne si strappano i capelli davanti al solito gruppo di spogliarellisti. Ci siamo arrivate, dunque, alla parità (intesa come omologazione): una volta questo era il peggio dell'uomo, adesso ci vantiamo di averlo noi, questo peggio, essendo finalmente libere. Contente voi.
del 08 marzo 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Quando ero adolescente e poi giovane, simpatizzavo fortemente con l’estrema sinistra e con l’indissociabile corollario femminista. Ho respirato un femminismo che a me, adolescente di provincia, insegnava l’antagonismo con il mondo maschile e mi intossicava di idee del tipo: il maschio è sempre aggressione, la donna è oppressa e deve scuotere il giogo della tirannìa di un maschilismo che nell’istituto della famiglia trova il suo massimo potere e giustificazione. Inutile negarlo: avevamo di mira la famiglia, convinte che fosse un territorio di lotta nel quale, evidentemente, noi donne avremmo dovuto sostituire, con la nostra, la supremazia del maschio.
          L’idea di un mondo “al maschile” e uno “al femminile” si coniugava con l’idea che vi fossero i cattivi e le buone così come per il fatto di essere donne, dovevamo “per forza” essere solidali tra noi perché, ne ammiccavamo, eravamo superiori agli uomini piuttosto primitivi. Bisognava essere uguali, il che significava “poter fare tutto quello che può fare un uomo” compreso avvitare bulloni e guidare un bisonte della strada. Compreso assumerne i vizi peggiori: la bestemmia, l’alcool, il fumo, vissute come vere e proprie scelte eversive di libertà. Il corpo seppure rivendicato come “proprio”, in realtà diventava la chiave di accesso al mondo maschile, merce di scambio nel mercato delle relazioni, una promiscuità alla quale si dava il nome di libertà.
          Poi nella mia vita è entrato un Uomo, Uno differente dagli altri, non tanto perché “gli altri” fossero, secondo la pubblicistica femminista, brutti e cattivi, quanto perché quest’Uomo mi ha scombussolato gli stereotipi balordi sul mio essere donna e sul genio virile. La conversione è stata la risposta a questo sguardo del Signore. Il Verbo fatto uomo mi ha rivelato il Padre, l’esperienza di entrare nella vita trinitaria dove l’identità e la differenza che diventano, che sono, relazione, ha progressivamente strutturato in me la conoscenza (fatta di mente e di cuore) della identità personale che scaturisce da una relazione nella quale la differenza è costitutiva di ciò che sono.
          Come comprendermi senza l’identificazione con il femminile ma, al contempo, la differenza rispetto al maschile che mi vede e, in questo specchio, mi è dato di riconoscere cosa non sono per dire, anche, chi sono? Come pensare al femminile in antagonismo con il maschile quando sono stati invece creati per una relazione di reciprocità nella quale la differenza non vuol dire disuguaglianza, ma ricchezza da donare all’identità dell’altro? Il punto che il femminismo, in gran parte di matrice atea, non poteva comprendere, abituato a ragionare in termini quantitativi dove il concetto di uguaglianza ha difficoltà a coniugarsi con quello di differenza. Non il femminismo, ma l’amore della trinità e la Donna forte che è stata ed è Maria, la Madre di Dio, mi hanno detto chi sono. Perché sì, in fondo la spallata definitiva a quell’accozzaglia di idee materialiste e disperate, l’ha data la Madonna, Colei che nei primi anni di conversione l’avevo lasciata come nell’ombra, tesa com’ero alla relazione io-Tu con suo Figlio, è diventata con mitezza e con tenacia (da donna, appunto!) la donna nella quale specchiarmi. E Maria mi è stata consegnata, lo devo riconoscere, da un uomo, dallo stesso uomo che, da uno sguardo al maschile, ha saputo raccontare la bellezza del femminile più di quanto avesse potuto fare una donna stessa.
          Sto parlando, evidentemente, di Giovanni Paolo II, le sue catechesi sull’amore umano e, soprattutto, la Mulieris dignitatem che è la bellezza femminile fatta parola. Solo così, uscendo dall’antagonismo materialista, ed entrando nella antropologia cristiana dell’identità e della differenza, scaturisce la bellezza del matrimonio, della famiglia, ma anche, nel mio caso, della relazione sponsale con il Signore scelto come Tu, come Sposo.
Un’ultima cosa mi preme sottolineare: quando si argomenta della famiglia come luogo di violenza, e lo si fa ad ogni nuovo omicidio compiuto da un marito, da un ex fidanzato, da un padre nei confronti di una donna di famiglia, si dimentica colpevolmente di dire che non è il matrimonio che è marcio, ma che questa violenza che è nell’essere umano ferito dal peccato, è oggi anche il frutto di un femminismo che ha stravolto l’idea di donna, di uomo, di corpo. Il sesso libero, come segno di emancipazione, altro non ha fatto che rinserrare la donna in una spirale di violenza e di solitudine, facendo credere a lei e all’uomo, di essere un oggetto liberamente a disposizione, l’ha esposta a quel dominio frutto della violenza del peccato originale. Per quello che mi riguarda, nel mio lavoro, non accetto mai di parlare ad una conferenza sul femminile o sul maschile che non sia strutturata in un parlare dei due, un capirli a partire dello sguardo l’uno per l’altro.
          Dimenticavo: chiaramente non festeggio l’8 marzo, non vorrei trovarmi in quei locali dove branchi di donne si strappano i capelli davanti al solito gruppo di spogliarellisti. Ci siamo arrivate, dunque, alla parità (intesa come omologazione): una volta questo era il peggio dell’uomo, adesso ci vantiamo di averlo noi, questo peggio, essendo finalmente libere. Contente voi.
Roberta Vinerba
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