A cosa siamo chiamati noi cristiani e missionari

L'offensiva “gender”, la violenza islamista, la possibilità della persecuzione e la testimonianza. L'esortazione di un sacerdote...

A cosa siamo chiamati noi cristiani e missionari

 

Quella che segue è la riflessione proposta da don Paolo Sottopietra in vista di sabato 27 giugno, giorno delle prossime ordinazioni della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo, della quale Sottopietra è il superiore generale.

 

Pensando ai giovani che quest’anno chiedono di essere consacrati nella Fraternità san Carlo, mi tornano alla mente due episodi di cui ho sentito recentemente raccontare da persone a me vicine. Li cito perché descrivono qualcosa del mondo in cui i nuovi sacerdoti iniziano il loro ministero.

Il primo fatto è accaduto a mia nipote Beatrice. Nella sua classe di liceo un giorno si è presentata una donna a cui la scuola aveva affidato tre lezioni di approfondimento su temi letterari. Prima di iniziare ha chiesto all’insegnante di uscire e poi ha esordito con queste parole: «Ragazzi, il sesso è un dato puramente anatomico, che oggi la scienza permette di cambiare. È dunque una questione risolta. Dobbiamo piuttosto porre attenzione a ciò che noi sentiamo di essere, perché sono queste sensazioni che determinano il nostro vero gender». Non si trattava di letteratura, evidentemente, ma di una sorta di corso di orientamento per la vita degli studenti.

Iniziative come questa sono ormai frequenti nelle scuole italiane. Mia nipote ha 15 anni, ma ci sono migliaia di bambini più piccoli a cui viene offerta questa nuova istruzione, spesso ad insaputa dei loro genitori. Spesso a questi mini-corsi sulla teoria del gender si affiancano lezioni di una “nuova educazione sessuale”, che insegna ai bambini a considerare normali, e anzi necessarie per il proprio benessere fisico, le esperienze sessuali e li invita a provarle.

Al fine di giustificare ogni tipo di comportamento, anche il più irragionevole e innaturale, si arriva a insidiare l’innocenza dell’infanzia e dell’adolescenza, che dovrebbe essere custodita come qualcosa di sacro. È il sintomo di un inquietante processo di corrosione interno alla civiltà in cui siamo nati, a cui non è estranea la tendenza totalitaria di una mentalità anticristiana, che assume sempre più palesemente le forme persecutorie proprie di ogni ideologia.

 

Un secondo episodio si è verificato in un carcere minorile. «Mi farei saltare in aria, tanto la mia vita non vale niente», ha detto un ragazzo musulmano di 16 anni a uno dei nostri sacerdoti che visita tutte le settimane i giovani detenuti.

Dall’oriente e dal sud del mondo sentiamo avvicinarsi la minaccia dell’estremismo islamico. Al Qaeda, Boko Haram, Is, sono sigle ormai familiari, associate alle stragi che hanno insanguinato l’inizio del nuovo millennio. Nigeria, Kenya, Iraq, Egitto, Pakistan sono luoghi che di frequente occupano le pagine dei nostri giornali. E i morti sono spesso cristiani. Uccisi perché cristiani.

 

Di fronte a tutto questo, la reazione dell’uomo occidentale non è solo lo spavento, o l’irrisione ad oltranza della religione. Sono sempre più numerosi coloro che provano fascino per i protagonisti dell’avanzata islamica. Molti sono attratti dalla loro dedizione totale alla causa, da una fede in un Dio più grande dell’uomo, dalle promesse di un aldilà felice. Le conversioni all’Islam si moltiplicano infatti proprio in Europa, come reazione ad un nichilismo ateo di cui ormai si è fatta fin troppo amaramente l’esperienza. E in molti partono per arruolarsi nell’esercito del nuovo califfato. Nella vita di questi attentatori-vittime il nichilismo occidentale e quello islamico si incontrano.

 

Mi sono chiesto a che cosa siamo chiamati, noi cristiani e noi missionari, attraverso queste circostanze. E in particolare che consapevolezza deve avere il sì di chi oggi, come i nostri giovani, consacra la sua vita a Dio.

Tornano in me due risposte.

Di fronte al disgregarsi della civiltà di cui facciamo parte, possiamo portare la certezza che viviamo grazie all’incontro con Cristo. Siamo chiamati a dire al mondo che la parola finale non è il nulla. Possiamo testimoniare che la bellezza esiste, che la felicità è possibile, che Dio è vivo e presente. Che desidera la salvezza di tutti.

Di fronte alla violenza, poi, possiamo portare la speranza che l’altro cambi, chiunque egli sia. Dio ci manda a incontrare i ragazzi nelle scuole, per essere al loro fianco nella battaglia a cui sono esposti, ma ci manda anche a coloro che contribuiscono a diffondere un’ideologia aggressiva che li danneggia.

Ho cercato spesso di immaginare il volto della donna che è entrata nella classe di Beatrice. Ha un nome e una storia. Forse è convinta di fare del bene ai ragazzi che incontra. L’ideologia è sempre qualcosa di irrazionale, ma è resa viva da uomini e donne che possiamo incontrare, a cui possiamo mostrare con la nostra esistenza che c’è una speranza più vera, per la quale possiamo spenderci a testa alta, senza violenze e sotterfugi.

Anche il ragazzo del carcere minorile è una persona, con un nome e un dramma alle spalle. È un giovane che cerca qualcosa di vero per cui vivere, esattamente come i suoi coetanei che frequentano il liceo. Ha bisogno di incontrare qualcuno che gli dica che la sua vita vale, che c’è un Dio a cui importa di lui e di quello che fa, che esiste il vero e il falso, il bene e il male. Che anche la sua vita ha un senso e può essere bella.

Chiamandoci a questo compito, Dio ci chiede oggi la disponibilità alla persecuzione: morale, mediatica, legale e anche fisica. Cristo ha previsto le persecuzioni, quando ha inviato i suoi discepoli. I tempi che viviamo riportano in primo piano queste sue parole, ce le fanno sentire di nuovo come una possibilità che ci riguarda. Il sì che diciamo a Lui nel sacerdozio e per la missione contiene questa consapevolezza.

Ma Cristo ci ha promesso anche la consolazione di tanti cuori che si convertiranno, di tante famiglie che apriranno le porte della loro casa per accoglierci. Ci ha promesso che troveremo ovunque padri e madri, fratelli e sorelle, campi del cui frutto potremo sfamarci, case in cui riposare. E soprattutto ci ha già donato la dolcezza di un’amicizia che si fonda sulla fede in Lui, e che è più forte di ogni oscura possibilità di rifiuto.

 

 

Paolo Sottopietra

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