A Sylvia

La fragilità accettata, e quindi prima accolta e amata da chi ci dà la vita e ci educa, è la fessura attraverso cui l’amore entra e diventa fondamento, perché solo l’amore dà all’io le radici per slanciarsi...

A Sylvia

del 24 settembre 2018

La fragilità accettata, e quindi prima accolta e amata da chi ci dà la vita e ci educa, è la fessura attraverso cui l’amore entra e diventa fondamento, perché solo l’amore dà all’io le radici per slanciarsi...

 

«Sta a me scegliere: scappare dalla vita e annientarmi definitivamente perché non sono in grado di essere perfetta da subito, senza fatica e fallimenti, o affrontare la vita a modo mio». Così scriveva, nei suoi Diari, la grande poetessa americana Sylvia Plath nel 1957. Aveva 25 anni e gliene restavano solo cinque prima che decidesse di porre fine a un’esistenza divorata dall’ossessione della perfezione: «Non posso neppure sopportare l’idea di essere mediocre». Era attanagliata dalla paura di non essere mai abbastanza, frutto di angosce perfezioniste scaturite da un’infanzia e un’adolescenza complesse, segnate dalla perdita — a 8 anni — di un padre troppo silenzioso, e dal rapporto simbiotico — quasi soffocante — con la madre, che Sylvia amava e temeva, perché moltiplicava le sue ansie da prestazione e i suoi forti sensi di colpa per fragilità e cadute. Il copione che Sylvia era convinta di dover interpretare per essere amata le imponeva di essere bella, brillante, impeccabile: «Frustrata? Sì. Perché non posso essere Dio — o la donna-uomo universale — o una qualsiasi cosa che conti». Era quindi competitiva fino allo stremo: «Invidio quelle che hanno pensieri più profondi dei miei, che scrivono meglio, che disegnano meglio, che sciano meglio, che amano meglio, che vivono meglio, che sono più belle di me».

Così se nel 1953, quando frequentava l’università, aveva già tentato il suicidio, nel 1954 si era tinta i capelli di biondo platino, per affermare iconicamente e ironicamente la sua rinascita. Ma che fosse una maschera dietro la quale si macerava, lo tradivano il rapporto problematico con il cibo e il corpo, e quello con l’amore, nel quale si annullava, come nella relazione col poeta Ted Hughes. L’ansia di perfezione la lasciava in pace solo quando riusciva ad accogliere la sua umanità più autentica: «Fa male non essere perfetti. Finisce il mio primo quarto di secolo, vissuto all’ombra della paura che mi venisse a mancare una qualche perfezione astratta. Ho spesso lottato e conquistato, non la perfezione, ma l’accettazione del mio diritto di vivere nei miei termini umani, imperfetti». Sylvia cercava dentro di sé la bambina amata per quello che è, e non per quello che deve essere, ma un demone la costringeva «alla ricerca della bellezza assoluta». È questo il titolo di un racconto contenuto nel libro Il bambino perduto e ritrovato di Alba Marcoli, in cui il seme di un fiore di campo, trasportato dal vento, cade vicino a un vivaio di fiori uguali e perfetti, destinati ai banchi dei venditori. Quando il seme fa capolino, vede attorno a sé quei fiori così belli. Si sente inadeguato e decide di diventare come loro. Ma essi sono così alti e indaffarati con la loro perfezione da non ascoltare il seme, nel frattempo divenuto una piantina che, triste e umiliata, rinnova gli sforzi per imitarli in tutto. Comincia così ad amputare i suoi germogli, come fa il giardiniere con i fiori perfetti. A poco a poco, pur avendo il controllo totale di sé, perde il suo slancio vitale. Il suo stelo si riempie di ferite, mentre le altre piante del campo sono ricche di foglie e fiori, accarezzate dal vento, visitate da farfalle e api. La piantina ha nostalgia della sua origine, perché l’imitazione dei fiori di serra le ha tolto la sua anima e il suo corpo, la sua imperfetta perfezione. Una lacrima le scende lungo lo stelo e si ferma dove un germoglio è stato amputato. Bagnata dalla lacrima, la ferita comincia a guarire e proprio lì nasce una nuova gemma. La piantina sente la linfa scorrere di nuovo in lei. Non è perfetta come i fiori del vivaio, ma è piena di vita e di autentica bellezza, e rinasce, come accadeva a Sylvia in alcuni momenti: «La mia vita, il senso della mia identità, mi sembrano rimbalzare verso di me da posti sepolti e nascosti».

Un veleno si aggira nelle nostre anime, soprattutto quelle più indifese di bambini e adolescenti, la cui vita è oggi impregnata, sin dallo sbocciare, dall’ansia da prestazione e di perfezione, anche a causa del moltiplicarsi di immagini illusorie. La parola «modello/a» tradisce quest’ansia: dal latino «modus», indica una misura da rispettare. La radice è la stessa di «moda» e «moderno», termini che spesso additano certi standard da raggiungere. Post-produciamo noi stessi in comportamenti e immagini che puntano alla felice perfezione del «modello»: dal selfie in posa fino a quello per cui si rischia la vita, con esiti spesso catastrofici. Non potendo però — e per fortuna — essere perfetti, finiamo col trasformare la paura di non essere abbastanza in logorante senso di colpa, e cominciamo a post-produrre (amputare) realmente la nostra vita, convinti che il controllo totale ci procurerà ammirazione e, finalmente, amore: «Sì, voglio gli elogi del mondo, soldi e amore e ce l’ho con tutti, specialmente con chi mi ha battuta». Così scriveva Sylvia, ben prima della nascita dei social, che non sono l’origine della fame ma, come specchi, moltiplicano l’io affamato d’amore, indicandogli la perfezione come strada per ottenerlo: «Mi piacerebbe esser chiamata: la ragazza che voleva essere Dio». La nostra radicale fame di esistere un po’ di più, se non trova il nutrimento vero, finisce col risolversi in vita apparente, una messa in scena che in realtà è una morte sotto mentite spoglie, perché blocca la vita su un modello esteriore, evanescente e irraggiungibile, e così non le permette di fiorire come può. I miraggi ci fanno rimandare l’appuntamento inesorabile con la nostra fragilità. Il sano desiderio di una vita che non si rovina, anzi si rinnova, trova una via aperta solo nell’accettazione dell’imperfezione, come sperava Sylvia: «Deve esserci un rituale per nascere una seconda volta: idonea a riprendere la via». Ma se la fragilità non è accolta, la vita e il corpo diventano arena di una performance, la paura e la vergogna di non essere «di più» diventano controllo, il controllo stanchezza, la stanchezza distruzione.

Dall’illusorio dominio su di sé si scivola nell’essere dominati, come mi racconta con precisione una ragazza «amputata» dall’anoressia: «C’era un tempo in cui assaporavo la vita, ero allegra, piacevole, un po’ ribelle. Poi ho varcato le porte del Liceo e dopo soli quattro mesi sono stata ricoverata in un centro per disturbi alimentari. Non so da dove sia nato tutto, non ero consapevole di ciò che mi stava succedendo, continuavo a ripetere a me stessa di stare bene. Ho dovuto abbandonare la scuola, i compagni, la vita che una normale quattordicenne dovrebbe vivere, travolta da quel mostro così meschino e crudele da fingersi mio amico, convincendomi a seguirlo in un mondo che solo chi ha visitato può comprendere quanto sia doloroso. L’anoressia inizialmente ti fa stare bene, ti senti potente, credi di avere il controllo su tutto, sei compiaciuta dai risultati, vedi l’ago della bilancia scendere, le ossa comparire poco a poco e la gente sottolineare il dimagrimento. Potrei dire che quei giorni sono stati i più felici degli ultimi anni. Poi però arrivi a un punto in cui vuoi smettere ma non ce la fai. E capisci che la tua “amica” si è presa gioco di te, ti faceva credere di avere il controllo, ma in realtà era lei a controllare te. A questo punto le strade sono due: lottare o sottomettersi alla malattia. Io avevo scelto la seconda». Questa ragazza, come Sylvia, coglie perfettamente la posta in gioco, perché la donna, connessa alla vita più profondamente dell’uomo, della vita sente e mostra le ferite più scopertamente.

Da quando insegno ho visto aumentare nei ragazzi fenomeni distruttivi (dipendenze, disturbi dell’alimentazione, suicidi...). Che cosa cercano di dirci? Si rinuncia alla vita quando, carenti di amore profondo e relazioni sane, si fugge da un io disintegrato e si diventa preda di illusioni che promettono unità interiore: ogni dipendenza o tentativo di controllo ossessivo sono richieste di amore, mal riposto, mal cercato. Ogni amputazione allontana il dolore di non essere abbastanza, il vuoto di non aver fondamento, di non essere amati per come siamo: «Come faccio a liberarmi degli dei sempre scontenti e accusatori che premono come una corona di spine?» si chiede Sylvia, schiacciata dai demoni della perfezione, e in cerca di pace: «Ho paura di affrontare me stessa. Stanotte ho tentato di farlo. Mi auguro di cuore che ci sia un essere assoluto, qualcuno su cui contare affinché mi dica la verità». Abbiamo bisogno di una verità che ci venga incontro con tenerezza, che ci abbracci anche quando siamo insufficienti, anzi proprio quando e perché lo siamo. La fragilità accettata, e quindi prima accolta e amata da chi ci dà la vita e ci educa, è la fessura attraverso cui l’amore entra e diventa fondamento, perché solo l’amore dà all’io le radici per slanciarsi. Il letto da rifare oggi è inventare gesti e parole, semplici ma impegnativi, come dire gratuitamente a un alunno: «È un onore averti in classe, sono fortunato»; o abbracciare più spesso un figlio con un: «Non temere, vai bene così, qualsiasi cosa accada o tu faccia, continuerai ad avere il mio amore». Sylvia ne descriveva l’effetto in Lettera d’amore, una delle ultime poesie: “Non è facile dire il cambiamento che operasti./Se adesso sono viva, allora ero morta/anche se, come una pietra, non me ne curavo/e me ne stavo dov’ero per abitudine... Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:/un braccio e una gamba, un braccio, una gamba./Da pietra a nuvola, e così salii in alto”.

 

Alesandro D'Avenia

https://www.corriere.it

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