L'acedia...È una sorta di asfissia o soffocamento dell'anima che condanna l'uomo all'infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione in cui vive e a sognarne una irraggiungibile, lo rende preda di paure svariate...
del 01 gennaio 2002
«Atonia dell’anima.» Così Evagrio Pontico, monaco vissuto nel IV secolo, definisce l’akedia, quel male il cui nome è praticamente intraducibile in una lingua moderna e che indica la situazione dello spirito afflitto da un malessere le cui sfumature comprendono disgusto della vita, noia, scoraggiamento, pigrizia, sonnolenza, malinconia, nausea, riluttanza, tristezza, demotivazione... Giovanni Cassiano (IV-V secolo) l’ha trasmesso all’Occidente nella traslitterazione latina acedia e più tardi Gregorio Magno l’ha identificato, nella sua lista dei vizi capitali, con la tristitia. Malessere che secondo Evagrio affligge particolarmente gli anacoreti (coloro che fanno una vita monastica piuttosto solitaria e ritirata), in realtà l’acedia è soltanto stata osservata e riconosciuta con acutezza e lucidità negli ambienti monastici, ma è «un fenomeno comune a tutta l’umanità, anzi è il prezzo dell’essere uomo», afferma padre Gabriel Bunge, eminente studioso di Evagrio.
L’acedia si manifesta come un’instabilità che rende incapaci di un rapporto equilibrato con lo spazio e con il tempo: non si sopporta di rimanere in solitudine nella propria cella, non si riesce ad abitare il proprio corpo, ad habitare secum, e si percepisce con pesantezza immane il trascorrere del tempo. Scrive Evagrio: «L’acedia fa sì che il sole appaia lento a muoversi o addirittura immobile, e che il giorno sembri di cinquanta ore». È una sorta di asfissia o soffocamento dell’anima che condanna l’uomo all’infelicità portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione (di lavoro, affettiva, sociale) in cui vive e a sognarne una irraggiungibile, lo rende preda di paure svariate (per esempio, di malattie più immaginarie che reali), inefficiente sul lavoro, intollerante e incapace di sopportazione verso «gli altri» (che diventano spesso il bersaglio su cui scaricare frustrazione e aggressività), impotente a governare i pensieri che si affollano nella propria anima e che lo gettano nello scoramento, in una tale insoddisfazione di sé che egli si interroga se non abbia sbagliato tutto nella propria vita. Essa può divenire un vero e proprio stato depressivo (il Catechismo della Chiesa Cattolica la definisce «una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, a un venir meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore») in cui l’uomo è tentato di azzerare la propria vita passata (rompere il vincolo matrimoniale o abbandonare i voti religiosi o comunque «cambiare») o addirittura di darsi la morte. L’acedia, scrive Isacco il Siro, «fa gustare l’inferno».
Nelle antiche descrizioni monastiche essa è il «demone meridiano» che colpisce soprattutto a metà del giorno, durante le ore più calde e pesanti della giornata (fra le dieci e le quattordici) prima dell’unico pasto che i monaci prendevano intorno alle quindici. Troviamo poi descrizioni analoghe, almeno parzialmente, in Pascal e Baudelaire, Kierkegaard e Guardini, Bergson e Jankélévitch; inoltre sono stati rilevati i contatti con forme depressive descritte dalla psicologia. È interessante notare che si è vista un’analogia fra questo male che di preferenza colpisce l’uomo nel mezzo del giorno, con la crisi del superamento della metà della vita, che si abbatte sull’uomo appunto fra i trentacinque e i quarant’anni. «Sembra che vi sia una causa biologica alla base di quel senso di apprensione, di quei tormentati interrogativi, della mancanza di entusiasmo in uomini e donne poco dopo la trentina. È forse questo lo stato d’animo che i dotti medievali chiamavano accidia, il peccato capitale di pigrizia dello spirito? lo credo di sì» (Richard Church). Le svariate forme di reazione di fronte a questa crisi sono del resto molto simili a quelle di chi è preda dell’accidia: diniego, rimozione, svalutazione di sé, arroccamento al potere, rigidismo legalista, depressione, eccessi nel bere e nel mangiare, intontimento...
Ma come combattere l’acedia? Anzitutto accettando i limiti costitutivi dell’esistenza umana: il passare del tempo e la mortalità (i Padri monastici esortavano alla memoria mortis), l’assunzione della responsabilità della propria vita passata e delle incapacità e imperfezioni che ci abitano, la perseveranza, la pazienza (che è l’arte di vivere l’incompiuto), una vita di relazioni, l’impegnare il corpo in attività lavorative, il farsi aiutare (per i Padri monastici, da un «padre spirituale»), la preghiera. Evagrio in particolare dà un consiglio: «Fissati una misura in ogni opera». Ovvero, esercitati, dandoti una regola, a divenire padrone di te stesso.
Enzo Bianchi
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