Adolescenza, salto nel vuoto

L'emergenza educativa di oggi è legata al passaggio dei valori da una generazione all'altra, che una volta era normale, mentre adesso è in crisi. Per questo i ragazzi sembrano galleggiare nel vuoto, da una parte coltivando miti di successo facile, bellezza, salutismo e dall'altra messi sotto pressione dalla scuola che chiede di essere disciplinati, concentrati, attenti.

Adolescenza, salto nel vuoto

da Quaderni Cannibali

del 26 febbraio 2009

 Oltre che uno dei più apprezzati scrittori italiani, Eraldo Affinati è un insegnante. Un insegnante che cerca di essere un maestro e probabilmente ci riesce. Il suo ultimo libro si intitola Berlin  (Rizzoli 2009); il penultimo, invece è La Città dei ragazzi  (Mondadori 2008) ed è nato dalla sua esperienza nel grande centro sul raccordo anulare della Capitale, fondato da John Patrick Carroll-Abbing, per accogliere e formare ragazzi in difficoltà.

  Per Affinati, l’emergenza educativa di oggi «è legata al passaggio dei valori da una generazione all’altra, che una volta era normale, mentre adesso è in crisi. Per questo i ragazzi sembrano galleggiare nel vuoto, da una parte coltivando miti di successo facile, bellezza, salutismo e dall’altra messi sotto pressione dalla scuola che chiede di essere disciplinati, concentrati, attenti. Alla fine la scuola sembra anacronistica, anche se è l’unica figura di richiamo etico».

 

 Perché la famiglia non lo è?

 «È stata spiazzata dalla rivoluzione tecnologica. Un tempo la casa era il luogo per eccellenza di elaborazione dei valori. Oggi, oltre al padre e alla madre, l’adolescente ha una infinità di interlocutori.

  Bombardato com’è da immagini, notizie, suggestioni non riesce più a trovare una gerarchia dei valori.

  Lo smarrimento non solo dei giovani, ma anche degli adulti si misura sulla domanda: 'che cosa è più importante?'».

 Questo smarrimento si rende evidente nei fatti di violenza che, negli ultimi mesi, hanno visto come protagonisti molti giovani, stranieri e italiani.

 

  C’è qualcosa in comune?

 «Non esiste una risposta sociologica valida per tutti, io credo nell’individualità, nel fatto che ognuno è una storia a sé. Posso dire che, da insegnante, ho sperimentato che dietro a un ragazzo violento e intollerante c’è una situazione irrisolta – familiare, sociale, spirituale che sia. Questa violenza è una risposta neanche troppo sproporzionata a una situazione di partenza dolorosa. Qualcuno di questi giovani ha alle spalle quella che normalmente definiamo una 'buona famiglia', ma che, guardando bene, cela un vuoto di cui il ragazzo paga un prezzo. C’è una crescente atrofia spirituale che si diffonde nelle nostre città».

 

 Esistono ancora maestri?

 «Ci sono ancora adulti credibili. Persone che non fanno notizia, ma sono più numerose di quello che crediamo. Le trovo nella scuola e in ogni settore del lavoro.

  Hanno una cosa in comune: non si limitano ad eseguire il mansionario, ma si sentono responsabili del contesto ambientale in cui vivono.

  Reagiscono non solo all’offesa o all’ingiustizia che li colpisce personalmente, ma anche a quella che non li riguarda direttamente».

 

 Educare e insegnare le regole: è la stessa cosa?

  «Solo parzialmente.

  Senza regole non c’è scena dialettica e l’adolescente ha bisogno di ostacoli da superare, altrimenti non sviluppa il senso del limite e si gonfia di vuoto.

  Ma la regola non deve essere imposta: deve essere introiettata. Per questo l’insegnante deve camminare spalla a spalla con l’allievo, facendogli comprendere il senso della regola. E per questo, credo, anche la valutazione non deve cadere dall’altro, ma deve essere fatta insieme, tanto più che gli adolescenti spesso sono più severi di noi, più radicali».

 

 Quanto conta l’ambiente in cui un ragazzo è immerso?

 «L’ambiente sociale è importante soprattutto per i ragazzi più fragili, anche se l’ambiente frantumato delle periferie è una difficoltà in più per tutti, e la mancanza di realtà associative alimenta la paura e radicalizza le differenze. Ognuno, infatti, è spinto a fare della propria identità un fortilizio. Ma lavorando alla Città dei Ragazzi ho imparato che se parli frontalmente con un adolescente riesci a scoprire le cose comuni al di là del fatto che viene da un altro mondo, parla un’altra lingua, appartiene a un’altra generazione. Onestà e lealtà, tradimento o fiducia, amore o odio: questi sono terreni di vita comuni a tutti – italiani, afgani o slavi che siano – su cui ci si può intendere. Ma questa capacità di comunicare con franchezza va imparata, non è innata».

 

 Quali sono i valori che bisognerebbe insegnare ai giovani?

 «Che è meglio sbagliare in buona fede piuttosto che non partecipare. Che servono disciplina e concentrazione per realizzare un obiettivo. Che ogni risultato è frutto di un impegno.

  E per primo l’educatore deve comportarsi così, facendo vedere al ragazzo che ha fatto una scelta, sacrificando qualcosa di se stesso per poter fare quello che fa.

  Allora il ragazzo vede l’adulto non più come professore, ma come un maestro. E si rivela. Noi lavoriamo con ragazzi stranieri che hanno avuto incontri con poliziotti, psicologi, assistenti sociali: a tutti hanno raccontato la stessa storia, ma mai la verità. Finché non incontrano qualcuno di cui hanno deciso di fidarsi».

«Un messaggio educativo chiave: servono disciplina e concentrazione per realizzare un obiettivo. Ma è l’educatore per primo che deve sapersi sacrificare»

 

 

Paola Springhetti

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