Adolescenza: 'slegami' in libertà.

Contatti, esclusività e contagio: queste proprietà predominano nei gruppi e nelle compagnie di ragazzi. Se essi tendono a allontanare i genitori, tuttavia, sarebbe auspicabile la presenza di un ragazzo più grande. Lo stare insieme non sia una regressione ma una opportunità per crescere.

Adolescenza: 'slegami' in libertà.

da Quaderni Cannibali

del 09 febbraio 2007

C’è qualcosa che accomuna ogni percorso adolescenziale: ed è il tentativo di svincolo dalla famiglia naturale. Svincolo più o meno traumatico, ma sempre difficile, perché mette in discussione aspetti familiari assodati, il già noto, i giochi fatti.

   

Quattordici anni e diritto al Pin sul telefonino: «La mia amica del cuore ce l’ha e voi non potete negarmelo». I genitori sono costernati, così espulsi dal 'privato' della figlia. L’unica reazione che pare loro spontanea è un indagatore: «Ma cos’hai da nascondere?», che non è – come parrebbe – una domanda, ma un’accusa. E poi non capiscono quella full immersion della figlia negli sms: dalla fine delle medie, epoca in cui ha ricevuto il telefonino-premio, lei è immersa nel bagno comunicativo che agli occhi dei genitori pare non comunicare niente. «Una volta, dicono, non avevamo bisogno di tutti questi messaggini!». E magari oggi questi genitori hanno non uno, ma due telefonini a testa (uno per il lavoro e uno per famiglia e amici, dicono). I figli li battono: abbiamo detto altrove che non c’è come un adolescente in casa per «rinnovare la faccia della terra», per rimettere in questione rapporti che parevano consolidati.

C’è qualcosa che accomuna ogni percorso adolescenziale: ed è il tentativo di svincolo dalla famiglia naturale. Svincolo più o meno traumatico, ma sempre difficile, perché mette in discussione aspetti familiari assodati, il già noto, i giochi fatti. Non si può non ridefinire le distanze, rinegoziare i rapporti, ristabilire nuove forme di legame, non ricalcato sui modelli precedenti già collaudati. Tutto ciò offre nuove prospettive sul sé dell’altro, il figlio/a, fino al classico «non ti riconosco più», che può definirsi sia come una sorta di allontanamento/rifiuto, sia come una sensata registrazione da parte genitoriale del nuovo che appare.

Ma qui ci occupiamo, in ordine al tema di questo numero di Famiglia Oggi, del nesso tra legami e affetti in questo tempo cruciale. E annuncio subito una tesi: l’adolescente cerca disperatamente il legame proprio attraverso quello che agli occhi della generazione adulta appare uno 'slegame', una frammentarietà da vertigini, cui contribuiscono potentemente le tecnologie che abbiamo messo loro in mano. Sono i figli dell’instant messaging che socializzano in rete con una velocità impensabile, che si scambiano messaggi (agli occhi degli adulti) monotoni, ripetitivi, privi di lessico creativo. I messaggisti (gli imers) invece si capiscono benissimo, e contemporaneamente si rendono impermeabili al mondo adulto (salvo, come vedremo, con quegli adulti che sanno «guardarli negli occhi», per usare una splendida metafora di Nouwen); hanno contatti tra loro alla velocità della luce, sono perennemente in connessione always on; costruiscono le loro nicchie che sono i blog, dove si raccontano, quasi prescindendo dalla possibile identità dell’ascoltatore (si calcolano in rete oggi 4 milioni di blog a cui partecipano adolescenti dai 13 ai 17 anni). Sembrano consegnati al virtuale, all’effimero, a una comunicazione per così dire 'disincarnata', non palpabile, che pare avere la meglio nei contatti concreti con cui si esprimono 'modello messaggino'. Pronti a difendere d’ufficio l’amico/a di turno, quali che siano i suoi difetti, e subito dopo a 'innamorarsi' di un altro/a, altrettanto amico/a del cuore, per cui perfino la differenza di genere può apparire un optional. Insomma, agli occhi della generazione adulta (e in ispecie dei genitori) questi adolescenti paiono consegnati al nonlegame, allo 'slegame' del tutto intercambiabile con tutto.

E se non fosse così? Non condivido l’idea che questi giovani seguano l’abbaglio del legame debole, provvisorio, deteriorabile, del tipo 'finché dura'... La verità è che ogni legame ogni volta è un legame forte, così forte da richiedere loro tutto, compreso l’asciugare all’altro/a le lacrime infantili e il fargli da contrappeso all’ansia fagocitante di mamma o papà. È un legame così sovraccarico che non dura. E allora loro ci riprovano, accanitamente. Mai come in questi casi appare così chiaro che gli umani procedono per prove ed errori. Occorre dunque guardare con rispetto questi 'affamati di legami' e tentare non di giudicare in forza delle nostre precomprensioni o incomprensioni, ma di guardarli e ascoltarli. Guardiamo dunque le caratteristiche della 'famiglia sociale' in questa fase dell’adolescenza, per poi esplorare come si costituisce la 'compagnia' esposta al bivio di 'mettere al mondo' oppure trattenere regressivamente. Ma, come vedremo nella nostra analisi, questo sguardo o questo ascolto non significano mettersi democraticamente da parte: gli adolescenti hanno bisogno di tutto fuorché di adulti che spariscano dal loro orizzonte. Stanno costruendo (passi la metafora) il loro cordone ombelicale con il mondo, stanno uscendo verso la nascita sociale: solo che questo cordone è fatto di infiniti fili, tenuti stretti o mollati a seconda delle esigenze affettive (ma non è stata la nostra cultura che li ha ridotti ai loro bisogni?) quasi che l’insieme (provvisorio) di fili possa costituire l’altro, cui non sono abituati (ma non sono state le famiglie mono figlio o con due figli troppo distanti d’età a rubar loro la complicità della fratrìa?) che occorre lasciar emergere in una sorta di confusione creativa.

 

 

Tre caratteristiche della 'famiglia sociale'

 

La prima caratteristica che balza agli occhi di questa speciale famiglia (altrimenti detta 'gli amici', 'il gruppo'; successivamente 'la compagnia' e/o 'la banda') è la fame di contatti (ore e ore di telefonate, e messaggini, di Smemoranda scambiati, letti, riletti, firmati, controfirmati): un fiume di contatti (persino solo con uno squillo) per dire «ci sei - ci sono», per scambiarsi verbi («sto ok», «sono fuori») quasi che la comunicazione si sia 'rappresa' secondo i primi tempi della nascita del linguaggio, la cosiddetta parola-frase.

La seconda è l’esclusività: il ragazzo non si sente più (non deve sentirsi più) trasparente allo sguardo dei genitori e va a confidarsi altrove, nel gruppo dei pari; lì circolano ammiccamenti, segreti, parole che non devono giungere all’orecchio dei genitori; anzi, tanto più sono 'parole nostre' quanto più sono inaccessibili ai genitori; è una prima, rudimentale forma di intimità, per cui ci sono cose nostre e non di altri; ci sono nuovi confini, più o meno labili e spesso esclusivi del gruppo dei maschi e del gruppo delle femmine.

Sanamente, perché questi ex bambini allevati alla più generosa promiscuità (già alla scuola materna devono avere il morosetto o la morosetta) passano fasi in cui l’antica legge 'femmine con femmine, maschi con maschi' ha parziali e provvisorie prevalenze; in cui un maschio per esempio, nel gruppo delle femmine che dibattono accanitamente se l’amichetta A. è più amica di B. o di C. ed esclude D.; o se la B. non sa che farsene di A., mentre piange perché D. non la guarda ecc..., con inesausti patemi d’animo, un maschio – dicevamo – si sentirebbe un pesce fuor d’acqua e nemmeno sarebbe gradito. E viceversa per il gruppo dei maschi, s’intende. Salvo poi scoprire che queste coalizioni provvisorie sono in funzione dell’altro sesso e che in ogni caso si sciolgono e/o si rinsaldano in attività comuni di gruppo.

Permettiamoci un’annotazione di marca pedagogica: questo fenomeno di 'esclusivismo' non può e non deve escludere l’adulto. Può (deve) escludere i genitori, ma non può (non deve) escludere un ragazzo/a più grande, che diventa una sorta di 'mediatore culturale'. Se volevamo una prova della non-autosufficienza della famiglia, qui la tocchiamo con mano: centri giovanili, gruppi scout, associazioni varie fanno da mediazione là dove i genitori non possono entrare; ovviamente tutto questo non può spuntare dal nulla, non si può chiedere a un tredicenne/quattordicenne che tutte le domeniche è stato sempre trascinato dai nonni o che è stato sempre intruppato nella compagnia di amici dei genitori o infilato soltanto in attività strutturate (lezioni di nuoto, di musica, di catechesi e così via) di trovare un gruppo di interessi guidato da giovani adulti; è molto meglio che vi sia avviato prima; e ancor meglio che i genitori si siano dati da fare per creare simili gruppi per... i figli degli altri.

Una piccola osservazione sugli spazi-genitori democratici che si dileguano la sera, perfino per un intero weekend, perché il figlio ha invitato gli amici a fare una festa, sono semplicemente genitori dimissionari e di poco buon senso: e forse sono ancora lì intestarditi sulla nostalgia di ciò che non è stato loro permesso e che non è e non può essere esattamente quello che i figli – diversi! – desiderano ora; i ragazzi hanno bisogno di presenze non ingombranti: per essere espliciti, non è necessario stare nello stesso spazio, ma in casa a porte aperte sì! E pagando qualche pedaggio, come musica sgradita e a tutto volume. Di più, occorre mettersi in contatto con i genitori presso i quali il figlio si ritrova con i coetanei e magari chiedere che non spariscano a loro volta, perché certe assenze – provvisoriamente comode! – possono essere pagate care. 

È solo un esempio: dov’erano i genitori quando i figli di buona famiglia durante una festa in casa, tagliano i libri della biblioteca, sporcano quadri, se proprio non distruggono gli oggetti? Uno dei loro padri, avvocato, osservò che bisognava inventare una nuova forma di assicurazioni contro... le feste giovanili! Tutti risarciti e tutti contenti?! Ma perché non viene in mente a qualcuno di questi genitori progressisti che proprio questi disastri siano un’invocazione di presenza, della loro presenza?

Una terza caratteristica della famiglia sociale è il contagio, o perlomeno quello che appare tale agli occhi dei genitori: non soltanto lo stesso gergo, ma la stessa 'divisa' (dai capelli colorati, ai jeans tagliuzzati, ai pantaloni bassi, al piercing, ai tatuaggi); gli stessi gusti, gli stessi comportamenti per tutti.

Il contagio è dunque appariscente, palpabile ma... sovrastimato da genitori angosciati che trattano i figli esclusivamente da pecoroni incalliti. In genere non chiedono con generosa ironia: «Ma come hai fatto a inventare una simile moda insieme ai tuoi amici?». Al contrario si accaniscono cupi: «Perché fai tutto quello che fanno gli altri?! Ma non hai personalità!», contribuendo a produrre proprio ciò che temono.

Ancora un’annotazione pedagogica, vi sono genitori che si spaccano il cervello su domande di questo tipo: «ma perché il nostro bambino va proprio a scegliere i peggiori? Quelli da cui ha tutto da disimparare? Perché lui così fine e ragionevole si imbarca con amici che non gli assomigliano per niente?» E ancora: «Ma perché quello che dicono loro è oro colato e quello che diciamo noi non vale più niente?»; in altre parole, i genitori tendono a vivere il proprio figlio/a come succube delle cattive compagnie e sono i primi a non fidarsi delle sue capacità di discernimento e di autonomia e così il figlio/a finirà per dar loro ragione. Lo spingono così verso una sottomissione a quello che gli studiosi psicosociali chiamano 'branco' o baby gang, dove il comportamento del leader negativo o della leadership di pochi diventa il diktat per gli altri: condizione per essere ammessi, rituali, imposizioni e veri e propri tribunali con relative sentenze di condanna.

Ma non tutti gli amici e non tutti i gruppi si trasformano in branco, anzi vi si infila proprio quella minoranza di ragazzi lasciati a sé stessi, che non sono stati fermati nei loro comportamenti auto e etero distruttivi. Fermati non dai soli genitori, s’intende, ma da coloro che hanno responsabilità sociali come scuola, polizia, tribunali.

 

 

Mettere al mondo o trattenere

 

C’è una seconda fase della nascita sociale, quando gli amici diventano una vera e propria compagnia, non sono più così labili, così eterogenei. Vi sono maggiori scelte che indirizzano questa 'nuova madre' come si può definire la compagnia che può mettere al mondo oppure contenere, trattenere, in modo regressivo. È la differenza che vale la pena scrutare nei suoi segnali, perché 'ne va della vita' di quelli che saranno, tra poco, i giovani adulti.

Ho tra le mani una significativa lettera di una diciannovenne che ruba alla madre (separata e con altri tre figli minori da crescere) le chiavi dell’appartamento vuoto della nonna dove passa una giornata con amici. Dal contesto della lettera si evince che la figlia Carla non solo è stata scoperta dalla madre, ma che il fattaccio è stato totalmente posto a carico dell’amica della figlia, Anna, sulla quale si riversano le accuse materne ansiose e senza appello. Stralci della lettera sono significativi: «Tu non puoi giudicare una persona senza sapere veramente com’è. Sto parlando della Anna, non è lei che mi trascina a fare cose stupide, sono io! Come non è lei ad aver deciso di prenderti le chiavi dell’appartamento, ma l’ho fatto io... Hai la mente perversa se riesci a capire quello che faccio... Mi chiedo cosa pensassi che stavamo facendo a casa della nonna. Sicuramente avrai pensato: oh, stanno commettendo peccati; e invece no, tu puoi credermi o no, volevamo solo passare insieme una giornata parlando, conoscendoci meglio, senza fare sesso o cose strane che tu credi; spero che tu chieda scusa alla Anna perché lei non c’entra niente veramente e poi tanto resta la mia migliore amica e tu non puoi farci niente...».

Questa lettera ci dà piste preziose. Prima: la compagnia che sta nascendo non ha espliciti fini trasgressivi (i giovani hanno altro per la testa che il sesso) e anzi può porsi fini buoni come «volevamo solo passare insieme una giornata parlando»: avventura, bisogno di relazione, con un misto di disobbedienza/trasgressione come rubare le chiavi che pare dare sale al tutto. Ciò questo non allarma, anzi, il gruppo pare stia costruendo un proprio capitale emozionale che non è più solo individuale, ma collettivo: parlarsi e conoscersi è un compito di crescita, ineludibile; pena il precipitare nel silenzio relazionale, fatto di frasi stereotipe.

Ormai sono in molti a essere convinti che i giovani oggi sono 'analfabeti emozionali' (Goleman) e questo non li aiuta per niente a far fronte alle inevitabili pulsioni interne che finiscono con l’essere agite senza spessore emotivo ed espressivo. Una compagnia dove ci si parla veramente è perciò un prezioso contributo all’essere sé stessi.

Ma ecco apparire la seconda pista: essere sé stessi o essere il gruppo? Essere sé stessi è un compito della vita, cui ciascuno di noi è chiamato; ma non si può essere sé stessi se non con qualcuno, con cui ci si lega, con cui si fa storia. Essere con il gruppo è perciò sano e auspicabile: essere il gruppo invece no, perché indica proprio il processo opposto, quello di depersonalizzazione. Dalla lettera di questa giovane non abbiamo elementi per sapere quale china prenderà la sua compagnia; ma noi adulti abbiamo una chiave preziosa da passare di mano: «Che succede se nella tua compagnia esprimi un parere diverso da quello degli altri? Ti senti lo stesso pienamente parte del gruppo?». Un capitale emozionale di gruppo, così prezioso perché offre registri per così dire già collaudati per leggere il proprio mondo interno, è formato da apporti diversi, non da un unico e monocorde 'parere prevalente'.

Abbiamo così raggiunto il crinale che fa della compagnia una madre che o 'mette al mondo' oppure assorbe fino alla morte.

 

 

La compagnia come 'cuore caldo'

 

La compagnia sana indica che ci si può sottrarre al pensiero unico e che anzi le diversità sono ben accette; la compagnia può essere il 'cuore caldo': non ci si riunisce solo per uno scopo esterno, ma per stare insieme, per scambiarsi contatti, relazioni. Ma se si sta insieme solo ed esclusivamente per ammazzare il tempo, perché non si sa cosa fare, per una sorta di rassicurazione reciproca contro il mondo (i genitori, la scuola, la società, il lavoro) allora la compagnia è madre regressiva, bada solo a contenere, trattenere, consolare. «Com’è che esci così di fretta e così presto la domenica mattina?», chiede la mamma alla figlia diciassettenne che ha gli occhi gonfi di sonno per le ore piccole della sera prima. «È che dobbiamo consolare Gian perché il moroso l’ha lasciato...». «Il moroso?!», chiede allibita la madre. «E adesso non fare la scandalizzata: noi lo consoliamo e basta. Non aspettarmi per pranzo e stasera farò tardi». La madre pare ritirarsi impotente, non sa dove va la figlia, non conosce gli altri del gruppo; non ne parla con il marito («tanto non capirebbe») né con la figlia il giorno dopo: e la compagnia pare diventare una madre totalizzante, esclusiva, assorbente.

In simili compagnie pare non succedere niente di nuovo, per anni, il «si sta bene insieme» è la legge; ho conosciuto una compagnia dove non si poteva portare il partner, il convivente, perché «rovina l’atmosfera del solo noi ci capiamo». In una simile compagnia ciò che è nuovo, disturbante, dirompente viene ovattato e negato; e così diviene un utero a buon mercato dove si nega la vita.

Io mi chiedo se tante compagnie, magari formate da coppiette più o meno provvisorie, non siano che posticce somme di inaccessibili solitudini. «Il mio ex sta ancora nella compagnia – mi diceva una venticinquenne – io mi sono fatta un altro ragazzo del giro e in fondo mi sta bene, anche se mi secca quando fa il carino con le altre». La legge implicita è ormai divenuta palese. No emozioni forti, no conflitti aperti: la rassicurazione della compagnia si paga con una dose più o meno grave di deprivazione dell’io.

La compagnia sana invece ammette cesure (e dopo un po’ di tempo il ragazzo/a può rientrare insieme a quello/a con cui 'sta assieme'): essa è mobile, ammette cambiamenti, talora si prolunga anche dopo le nozze di alcuni e allora il grande cambiamento è rappresentato dai neonati che vi hanno il diritto di cittadinanza.

 

 

Gilberto Gillini - consulente formatore e docente presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia.

 

   

BIBLIOGRAFIA

·         Colombo G., Questa casa non è un albergo. Contestazione e devianza dei figli adolescenti, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004.

·         Caprara G.V., Fonzi A., L’età sospesa. Itinerari del viaggio adolescenziale, Giunti, Firenze 2000.

·         Garbellini M., Il dialogo nella famiglia: aspetti centrali della comunicazione tra genitori e figli, in Brex G., Fiorentino Busnelli E. (a cura di), Adolescenti a rischio tra prevenzione e recupero: un impegno per tutti, Franco Angeli, Milano 1994.

·         Gay R., Ti amerò fino alla fine. Emozioni e paure guardando un figlio negli occhi, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004.

·         Goleman D., Intelligenza emotiva, trad. it. Rizzoli, Milano 1996.

·         Gottman J., Intelligenza emotiva per un figlio, Rizzoli, Milano 2003.

·         Tonolo G., Adolescenza e identità, Il Mulino, Bologna 1999.

·         Zattoni M., Gillini G., Il grande libro dei genitori, Un manuale per il ciclo di vita della famiglia, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2004.

Gilberto Gillini

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