Affettività come vocazione (2/4)

Sedurre significa attrarre a sé ed è l’esatto contrario dell’educazione che invece consiste nell’affrancare, quindi nel consegnare alla responsabilità di ciascuno.

Affettività come vocazione (2/4)

di Giuseppe Mari

 

L’affettività è un “passivo”?

L'affettiva a che cosa rimanda? Al senso, alla sensorialità, e perché la sensorialità è per noi così importante? Perché noi siamo intelligenze incarnate! Il nostro corpo ci appartiene sostanzialmente, il nostro corpo non è un veicolo estrinseco, il nostro corpo siamo ancora noi. Come dice Isidoro di Siviglia, “L’essere umano interiore è l’anima, [e] l’essere umano esteriore è il corpo” (Etimologie o origini, XI, 1, 6).


È interessante notare che, all’interno di questi 50 anni, proprio il corpo è stato uno dei riferimenti su cui si è maggiormente tornati e uno dei riferimenti che sono stati più messi in discussione in ordine anche all'educazione cattolica tradizione. La mia impressione è questa: che, al di là delle intenzioni, l'errore in cui siamo caduti è che noi abbiamo tendenzialmente obiettivato il corpo, cioè l’abbiamo fatto diventare un oggetto, qualcosa di cui servirsi, ma questo significa tradire l'essere umano, perché l'essere umano non va mai trattato come in oggetto in quanto è libero ed, essendo libero, ha una dignità –  avendo una dignità vale perché esiste e ciò è tipico non dell'oggetto, perché l'oggetto vale soltanto per l'uso che ne possiamo fare. Al contrario, l’essere umano vale perché esiste.


Tanti problemi legati all'affettività e all'educazione sono dovuti al fatto che ci siamo abituati a trattare il corpo come una cosa e quindi, a questo punto, il corpo viene declassato a realtà animale. L’umanità presenta bisogni come ogni altro vivente, ma l'essere umano non è riducibile all'animale, per una ragione molto semplice: perché anche la nostra componente apparentemente animale (mi riferisco alla dimensione pulsionale, alla componente dei bisogni) è suscettibile di una lettura simbolica – pensate solamente al Cantico dei Cantici dove, tra tutte le immagini che l’autore sacro poteva scegliere per alludere al rapporto tra il Creatore e la creatura, quella che viene offerta è il rapporto (sensuale ed erotico) tra marito e moglie. Vuol dire che nemmeno la nostra pulsionalità, che pure ci rende così apparentemente simili all'animale, è in realtà animale. Noi non siamo animali, per la semplice ragione che siamo impregnati di libertà e il fatto che abbiamo la libertà come tratto distintivo investe tutto quello che siamo: anima e corpo, idee, emozioni, sentimenti, addirittura anche le pulsioni. A questo punto si tratta di assumere un approccio specifico per l’affettività e la sessualità umane e, più in generale, per la vita umana. Ritengo che la chiave migliore ci venga offerta dal richiamo alla vocazione. Gli animali la vocazione non ce l'hanno; la vocazione ce l'ha solo l'essere umano, è perché solo lui? Perché la vocazione allude all'incontro/scontro tra libertà (divina e umana), quindi c'è vocazione soltanto perché c'è libertà e questo è il tratto tipico dell'essere umano.


L'affettività senza dubbio allude a qualcosa che ha un profilo intuitivamente passivo: del resto, il termine deriva da affectum, participio passato del verbo afficere, “colpire”. L’affettività è collegata al fatto che veniamo sensorialmente colpiti da qualcosa o da qualcuno. Dove sta allora l’originalità umana? Nel fatto che questa passività non è puramente tale, ma è “potenza attiva” ossia una condizione che esiste per suscitare in noi il passaggio dalla passività all’assertività. Per questa ragione, rispetto all’affettività/sessualità e rispetto all’umanità in generale, è sbagliato praticare l’educazione come assecondamento. Lo ricorda spesso Papa Francesco: educare non significa assecondare, ma affrancare[1]


L’educatore non è un “facilitatore”, ma una guida. Negli anni Settanta/Ottanta avvenne l’equivoco, conseguente al trasferimento in ambito pedagogico della prassi psicanalitica, e questo ha comportato, anche dentro l'educazione cristiana, la diffusione di atteggiamenti e comportamenti sbagliati di assecondamento. L’educazione ha a che fare con l’affrancamento, quindi non con l’assecondamento. Si tratta di parole e azioni che devono stimolare il cambiamento e non l’adeguamento. Insomma, basta che pensiamo alla conclusione dell’incontro tra Cristo e l’adultera quando Gesù le dice: “Va e non peccare più” (Gv 8,11). Non le dice: Va e fa’ come ti pare oppure Va e rimani quello che sei. Le dice: Va e non peccare più prospettandole un cambiamento che è coerente con la sua libertà e dignità. Dietro a tanto pseudo-pietismo, che rinuncia a prospettare il mutamento, c’è semplicemente la pigrizia di chi punta al basso mentre l’essere umano, essendo chiamato a riconoscere la propria dignità di figlio di Dio, deve puntare sempre al meglio, verso l’alto. “Essendo chiamato”… questo vuol dire vocazione.  


L’affettività, quindi, prende forma nella passività, ma è “potenza attiva”, quindi va spronata a trasformarsi in comportamento assertivo, volto a scegliere solo quello che è all’altezza della dignità personale. La vocazione allude a questo dinamismo rigenerativo alla cui manifestazione deve essere finalizzata la pratica educativa.


Provate a pensare alla nostra vita: nasce all'insegna della totale passività, tant’è vero che sia in latino che in greco il verbo “nascere” non è attivo (ghígnomai in greco, nascor in latino), ovviamente perché nessuno di noi ha voluto venire al mondo. Noi tutti siamo qui perché qualcun altro ci ha chiamato alla vita e questo è chiaro. Ma l’iniziale passività, in realtà, ci introduce nella evidente assertività conseguente al fatto che siamo liberi. L’affettività umana restituisce la stessa dinamica: una passività che veicola la chiamata ad essere attivi nel senso di oblativi. Da qui prende forma l'idea di responsabilità, perché essere responsabili vuol dire corrispondere, attraverso quello che facciamo, a quello che siamo. E noi siamo “bene”, perché la vita umana vale di per sé – per questo va trattata come fine e non come mezzo. Abbiamo quindi una bussola, nel senso che il nostro agire, l’agire conseguente al fatto che siamo stati chiamati alla vita, è – a sua volta – chiamato a corrispondere al bene originario che è la vita umana. Si tratta peraltro di una delle prime conseguenze della rivoluzione culturale cristiana, ben espressa da Clemente Alessandrino quando afferma che l’essere umano “è cosa desiderabile per sé stessa” (Il Pedagogo, I, 8.1). 


In tal senso, l'educazione è l'intervento attraverso il quale noi guidiamo qualcuno a diventare cosciente del suo valore, cioè guidiamo qualcuno ad essere cosciente di essere un bene, e contemporaneamente guidiamo questa persona ad agire coerentemente con il fatto che è un bene e qui viene in campo la parola virtù, che dobbiamo assolutamente rivisitare, perché questa parola allude al comportamento buono: se non c'è comportamento buono, non c'è neanche educazione. L'educazione non può risolversi in chiave cognitiva (con il richiamo dei valori) perché noi non siamo pure teste, noi siamo teste incarnate, noi siamo cuore e testa. Questa cosa non è banale, perché ho l'impressione che siamo scivolati dentro un formidabile miraggio, in base a cui trattiamo l'essere umano come se fosse pura intelligenza. Dobbiamo innanzitutto aver chiaro questo elemento: se vogliamo in effetti incrociare l'umanità per quello che è, non possiamo intellettualizzarla, perché l'essere umano è intelligenza incarnata.


Abbiamo contratto l'approccio conoscitivo sulla pura descrizione, ma, se l'essere umano è sapiens sapiens, allora vuol dire che noi conosciamo anche attraverso l'elemento percettivo sensoriale, perché il verbo sapio vuol dire anche “aver sapore” oltre che “sapere”, e il sapore noi lo percepiamo, non lo immaginiamo con la testa. Come dicevo prima, richiamando Papa Benedetto, dobbiamo allargare la razionalità, riappropriarci di una razionalità che non sia contratta sulla pura descrizione e qui, ancora una volta, mi rifaccio al trinomio donboschiano: ragione, religione e amorevolezza. Don Bosco aveva perfettamente chiaro che la ragione deve incontrarsi con l'amorevolezza. Quando dice che “l'educazione è cosa del cuore” non vuole dire che è sentimentalismo; vuole dire che è qualcosa, la cui conoscibilità va oltre la descrizione obiettiva perché abbraccia la persona nella sua interezza. D’altronde, sappiamo che non possiamo educare nessuno se non gli vogliamo bene. Ma qui sta il punto: l’amore educativo deve essere educativo e non seduttivo. Sedurre significa attrarre a sé ed è l’esatto contrario dell’educazione che invece consiste nell’affrancare, quindi nel consegnare alla responsabilità di ciascuno. La relazione educativa non deve essere mai seduttiva perché, essendo asimmetrica (nel senso che educatore ed educando hanno stessa dignità, ma diversa identità), se viene praticata seduttivamente, implica l’assoggettamento dell’educando all’educatore.


Questa riflessione merita un approfondimento. Bisogna infatti avere ben chiaro che, trovandoci noi oggi in una società fortemente erotizzata, il richiamo seduttivo è molto forte. Perché la società odierna è erotizzata? Perché è finalizzata al consumo, quindi, essendo la dinamica di “eros” correlata alla mancanza che spinge all’appropriazione, l’erotizzazione sociale è funzionale a renderci consumatori. Non dobbiamo stupirci della fragilità affettiva odierna, è coerente con l’erotizzazione che spinge a cercare sempre e soltanto la soddisfazione dei bisogni: la qual cosa non ci lascia indifferenti, anzi ci attira molto, ma non alimenta la nostra autostima. Infatti, l’erotizzazione nasce da una radice passiva, quindi è frustrante rispetto alla istanza di assertività che anima la libertà umana.


A questo punto, mi preme fare una precisazione. La seduzione va esclusa dal rapporto educativo perché è asimmetrico, mentre va benissimo nel rapporto di coppia in quanto è simmetrico, quindi avviene una seduzione reciproca tra i due partner che sono pari anche nella maturità oltre che nella dignità. Questa dinamica simmetrica – nelle coppie che sono autenticamente tali (dove cioè non accade che l’uno sia assoggettato dall’altro) – è positiva perché allude al comune assoggettamento, quello a cui si riferisce la letteratura paolina quando parla dell’uomo e della donna come sottomessi a Cristo (Ef 5,21; Col 3,23-24). “Eros” quindi è negativo solo quando, trattandosi di relazione asimmetrica, comporta assoggettamento e non affrancamento; l’affettività educativa deve essere agapicacioè deve scaturire dalla maturità affettiva che volge a donare l’amore che si ha, compiendo – in questo modo – un’opera di affrancamento. L’immagine scritturale che ci può corrispondere è quella del Battista il quale, riferendosi al Cristo, dice: “Egli deve crescere, io invece diminuire” (Gv 3,30).  


La cultura pedagogica degli ultimi decenni è andata sempre più arricchendosi di conoscenze tratte alle scienze umane. Ora, le scienze umane, con cui tutti noi abbiamo dimestichezza, hanno un punto di forza che però è anche il loro punto di debolezza: sono descrittive, perché questo è il tratto tipico della conoscenza come l'ha codificata la modernità e le scienze umane sono il tentativo di avvicinare l'essere umano con la stessa capacità conoscitiva che la modernità ha espresso nei confronti della natura. Però il dispositivo delle scienze umane è descrittivo; il problema è questo: la descrizione è impersonale. L'approccio descrittivo è incapace, per definizione, di riconoscere la libertà, perché la libertà non è impersonale, anzi è ciò che permette di riconoscere l'originalità, la singolarità, l’irrepetibilità di ciascuno. Questo vuol dire che, se io nella pratica educativa mi faccio guidare solamente dalle scienze umane, avvicinerò la pratica educativa in generale e nello specifico l'educazione all'affettività attraverso un dispositivo che certamente può dirmi tante cose, ma tutte le cose che mi dice me le dice nella forma del dato. Se io ho a che fare con la libertà, però, vuol dire che il dato va sempre assunto come mandato, cioè che l'essere umano non è mai sequestrato in quello che posso dirne descrittivamente, perché l'essere umano è libero. Il fatto che sia tale significa che va sempre oltre ciò che posso dirne in chiave descrittiva. Le scienze umane, a questo punto, se vogliono veramente corrispondere all'essere umano come soggetto libero, devono concorrere a guidare la pratica educativa sotto la direzione dei due saperi che da sempre praticano un dispositivo conoscitivo in chiave non descrittiva, ma argomentativa: la filosofia e la teologia. Non sono descrittivi, pur avvalendosi anche di descrizioni, perché fanno leva sul fatto che l'essere umano è capace di trovare risposte alle domande che si pone facendo leva sulla sua razionalità. 


In ambito pedagogico un’esperienza, a mio avviso, rilevante è aver incontrato un educatore illetterato, perché questo fa capire che tutto ciò che noi possiamo apprendere in chiave descrittiva certamente ci torna utile, ma non rappresenta l'essenziale. L'essenziale è costituito dal riconoscimento dei fini e, per riconoscerli, è sufficiente essere uomini e donne maturi. Ritengo che al cuore della problematicità educativa odierna ci sia questo: noi facciamo fatica a riconoscere i fini perché siamo ingombrati dai mezzi, sempre più sofisticati, sempre più invasivi e pervasivi – ma se non ho chiari i fini che cosa me ne faccio? Lo aveva capito bene Maritain quando, negli anni Quaranta, ha denunciato – ne L’educazione al bivio – l’interferenza dei mezzi sui fini in una incipiente società tecnologica che oggi sta ampiamente debordando. 


Le scienze umane sono la punta avanzata della rivoluzione conoscitiva moderna che è avvenuta facendo cadere una delle quattro cause aristoteliche. La causa materiale (di che cosa è fatto qualcosa), la causa formale (che cosa rende riconoscibile qualcosa per ciò che è) e la causa motrice o d'agente (da dove proviene ciò che esiste) sono state mantenute, mentre è caduta la causa finale (il fine di ciò che esiste), perché, abbracciando una conoscenza di tipo descrittivo, la modernità non ha avuto dubbi sulla finalità, che ha contratto sulla funzionalità. In questo modo tuttavia ha misconosciuto l’originalità del profilo umano.


Un ambito nel quale l’equivoco è evidente è proprio quello dell’affettività o, meglio, della sessualità. Negli ultimi anni si è diffusa la prassi di inondare le scuole di profilattici per fare educazione sessuale. Ora, ammesso (e non concesso) che il profilattico costituisca uno strumento adatto a fare profilassi, va rilevato un errore concettuale che giustifica il fallimento della strategia. Si ragiona infatti come se l’agire umano, relativo a ciò che impegna la libertà (come la pratica sessuale), avvenisse in termini causa/effettuali, dimenticando che invece opera in senso principalmente motivazionale. La motivazione non si riesce a causarla (infatti, quando uno non vuole studiare, minacciarlo o blandirlo non serve a nulla) perché prende forma da un moto interno (imprevedibile) che però può essere reso più o meno probabile dal far riconoscere il significato di quello che c’è in gioco. Così, nell’esempio precedente, posso (e devo) rendere più probabile la motivazione allo studio richiamando il significato e il valore della scuola piuttosto che promettendo punizioni o premi. L’approccio puramente descrittivo all’educazione sessuale è insufficiente perché la tratta come una dinamica animale, senza mettere in conto che l’agire umano, anche in questo caso, prende le mosse dalla motivazione ispirata dal riconoscimento del significato di quello che si fa.

Se si vuole effettivamente fare educazione sessuale, bisogna partire dal riconoscimento della libertà come “motore” dell’azione, quindi dare corso alla messa a fuoco di quello che la sessualità umana significa con lo scopo di far maturare la consapevolezza della custodia della persona, rispetto alla quale ognuno si regola secondo quelle che sono le sue convinzioni etiche. Ridurre questa dinamica all’idea che indossare il profilattico significhi adottare un comportamento responsabile, significa ragionare in termini (presunti) di causa/effetto che non corrispondono a quanto effettivamente accade nella pratica dove è il fattore motivazionale a prevalere.

Il risultato di questo modo di praticare l’“educazione” sessuale sembra piuttosto essere la promiscuità dei comportamenti: del resto, in Europa le malattie sessualmente trasmesse mostrano un preoccupante incremento che deve far riflettere. L'affettività e la sessualità non vanno fatte scivolare in un approccio conoscitivo di tipo puramente descrittivo, ma devono essere ricondotte ad una concezione antropologica facente perno sui fini e non sui mezzi.


continua...

[1] Rimando a G. Mari, Educazione e famiglia nel magistero di Papa Francesco, in G. Crepaldi-G. Mari, Papa Francesco e la famiglia, Brescia, ELS-La Scuola, 2017; G. Mari, Papa Francesco e la scuola, in E. Diaco (a cura di), L’educazione secondo Papa Francesco, Bologna, Dehoniane, 2018, pp. 73-97.

 

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