Maturità è la capacità di vivere "in crisi", cioè nel momento del giudicare cosa è vero e cosa è falso...
del 22 giugno 2016
‚ÄãÈ il momento del giudizio di maturità. E quindi della crisi, necessaria e feconda, perché crisi è parola che in greco indicava il "giudicare" operato nei campi dai contadini, quando dovevano vagliare il grano e distinguerlo dalla pula (l’involucro del chicco) o dal loglio (la zizzania che imita in tutto e per tutto il grano, ma è velenosa), per conservare il primo ed eliminare i secondi. Il primo avrebbe dato farina e pane, il secondo un po’ di fuoco. Per un attimo potremmo provare a pensare a questa maturità non come una prestazione ansiogena, ma come momento del raccolto, sì faticoso ma gioioso, per il pane buono che verrà messo in tavola. Da insegnante mi chiedo se, dopo 13 anni di percorso scolastico, quel ragazzo, quella ragazza sapranno affrontare questa crisi, cioè questo giudizio, con la capacità di distinguere il grano, ciò che vale da ciò che è effimero o addirittura nocivo. Maturità è la capacità di vivere "in crisi", cioè nel momento del giudicare cosa è vero e cosa è falso, cosa è bello e cosa è brutto, cosa è buono e cosa è cattivo, e di tutte queste cose le loro gradazioni, per poter impegnare la mia libertà ad affermare nello spazio e nel tempo il valore che ho saputo identificare. Solo questo dà felicità, cioè fecondità, a una vita. Vedo molti ragazzi confusi, annoiati, spaesati proprio dalla difficoltà di vivere le crisi, forse perché noi adulti cerchiamo soluzioni facili e non vogliamo che si faccia tutta questa fatica a "giudicare", forse perché il nostro pensiero troppo debole e liquido non sa più dire (da dicere latino che significava indicare) che cosa è vero, bello, buono. Il relativismo assoluto, teorico o pratico che sia, impedisce il momento della crisi, perché non sa cosa raccogliere, il grano vale quanto la pula, non lo si distingue dalla zizzania, perché non c’è un ordine reale entro cui il mio agire libero si muova, c’è la mia libertà come a priori, non il campo in cui raccolgo. A farne le spese sono proprio i ragazzi, nella vita di tutti i giorni. Molti di loro non riescono a giudicare se frequentare o no l’università, e che facoltà scegliere nel primo caso, perché non sanno che talenti hanno, in 13 anni non hanno fatto del loro logos (parola, ragione, verbo) uno sguardo sul mondo capace di raccogliere (anche logos viene da un verbo che originariamente significava raccogliere i frutti, al tempo opportuno, senza logos il momento della crisi, cioè del giudizio, è assurdo). Spesso oggi non c’è maturità perché non c’è logos, e non c’è logos perché non c’è dialogo (dia-logos: un logos che viaggia da me a te e viceversa, e che supera e trascende, in cerca della verità, della bellezza, del bene). Si parla moltissimo, ma non si ha dialogo vero, perché non c’è nulla da cercare, nessuna verità, nessun frutto da raccogliere. Si parla moltissimo perché il vuoto deve essere riempito di parole e di procedure da compiere alla perfezione (molta della didattica si riduce a prestazioni ripetute, come addestramento per animali) e il logos viene rimpiazzato da un sistema di doveri, perché non c’è più alcun amore alla vita (logos abbraccia amore e conoscenza in un’unica parola dopo l’audacissimo primo verso del Vangelo di Giovanni). Questo accade nelle coppie: si parla moltissimo e si pensa di amare l’altro con il compimento dei doveri (io lavoro, faccio la spesa, io vado ai colloqui dei figli, io cucino...), ma manca amore tra i due. Questo accade nei rapporti docenti-alunni: si parla moltissimo e poi si riduce tutto a prestazioni doveristiche, non a una maturazione della vita sia del docente sia dell’allievo, in una comune ricerca della verità nel campo della materia e della vita che si condivide per varie ore a settimana. Siamo entrati un un vicolo cieco del logos, sostituito dall’informazione, in cui nulla è più distinguibile, perché non si deve più giudicare nulla, ma solo moltiplicare i dati e le procedure con cui riempire il vuoto delle differenze (la differenziazione è confusa con la discriminazione). Lo raccontò Borges con un fulminante apologo, in cui un imperatore megalomane pretendeva dai suoi cartografi una mappa del suo immenso impero sempre più precisa, pena la vita degli stessi cartografi. La sua mania di vedere il suo regno lo portò a chiedere la mappa apparentemente "perfetta", in scala uno a uno. I cartografi pur di non perdere la testa si impegnarono nell’impresa, ma poi divennero inservibili sia la mappa sia il regno coperto dalla mappa. Così l’impero andò in rovina. Il nostro delirio di informazione ha esiliato la sapienza, la nostra capacità di "raccolta", di logos, è resa impossibile dalla autoreferenziale scala uno a uno. La quantità di dati ha sostituito la ricerca del vero, del bello, del buono, la crisi non è più momento di giudizio, ma fallimento da rimuovere. In questo campo del mondo è molto difficile diventare maturi, perché nessuno sa più dire che cosa è maturo, quando e perché (la tecnologia ha sostituito l’ecologia). O torniamo al logos e alla crisis dei contadini o continueremo a illuderci che le procedure, burocratiche o prestazionali, ci renderanno migliori. Ma noi di tutti questi dati, di tutte queste informazioni, di tutte queste procedure, non sappiamo più che farcene, perché non ci servono a vivere meglio. Invece del pane ci ritroviamo in mano un pugno di mosche, e per di più siamo stanchi. Li vedo questi diciottenni con il loro bel voto da 60 a 100, con la loro bella mappa in scala uno a uno in versione smartphone(che gli abbiamo messo in tasca quando avevano solo 10 anni), che si guardano intorno, spaesati, sperando che qualche forma umana dica loro la direzione per tornare a casa, per sentirsi a casa.
Alessandro D'Avenia
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