Una gara serrata a chi si esponeva meglio e di più. Non era tanto (e solo) questione di essere profondamente ridicole, quanto il messaggio che quelle mise lanciavano.
del 15 aprile 2010
 
          Pur consapevoli di vivere ormai in un`idolatrica cultura dell’esposizione del corpo, non possiamo che continuare a sbigottirci per il serrato dialogo tra pubblicità e pubblico.
  
          Da un lato, in particolare, quella pubblicità che, a prescindere dall’oggetto presentato, stuzzica e insiste sempre e comunque sullo stesso messaggio a suon di bellissime, ammiccanti e discinte modelle. Dall’altro, un pubblico sempre più fitto che passa estasiato sotto quei cartelloni pubblicitari e che siede dinanzi allo schermo televisivo, un pubblico che recepisce acriticamente la volgarità e la vuotezza di quelle immagini. E le fa proprie.
          Da sempre divertita dall’andare ogni tanto a ballare, sabato scorso mi sono ritratta quasi inorridita dinanzi alla fila di persone che assiepavano l’ingresso di un locale romano attualmente molto in voga. La mercanzia femminile in mostra superava decisamente il buon gusto, in una gara serrata a chi si esponeva meglio e di più. Non era tanto (e solo) questione di essere profondamente ridicole, quanto il messaggio che quelle mise lanciavano.
          Poniamo anche che ai ragazzi e agli uomini piaccia vedersi contornati da una fiera di tal sorta (speriamo che non sia così…), ma possibile che le ragazze e le donne non si sentano profondamente umiliate ad uscire di casa bardate così? Umiliate innanzitutto da se stesse, infliggendosi di catapultarsi nella fiera dei quarti più appetitosi.
          Amareggiata, mi sono messa a pensare alla Scrittura, a quei passi da cui emerge, inequivocabile, il ruolo centrale che il corpo assume, sia come luogo della costruzione dell’identità soggettiva, sia come principio di socializzazione e di scambio. E con i miei amici, siamo andati a prenderci un gelato.
Giulia Galeotti
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