In queste ore in cui si parla tanto degli sbarchi... una testimonianza da Istanbul sulla violenza contro gli immigrati ma anche sul coraggio di guardare avanti.
del 18 febbraio 2011
 
 
          Quanto sta accadendo sull'altra sponda del Mediterraneo ha riportato in primo piano in Italia la questione degli sbarchi degli immigrati africani. Ma il rischio è sempre quello di chiudere l'orizzonte della riflessione in spazi troppo ristretti.
           Ci aiuta allora ad allargare lo sguardo questa testimonianza che ci ha inviato da Istanbul padre Claudio Monge, della comunità domenicana di Istanbul, che i lettori di Mondo e Missione conoscono bene per la rubrica con cui ci ha accompagnato l'anno scorso durante il Sinodo per il Medio Oriente.
           Il colpo di telefono arriva a metà mattinata. È Emeline, giovane volontaria della cooperazione cattolica francese che mi chiede se posso trovare un maglione ed un paio di pantaloni per Alphonse: è al suo capezzale, nel vicino ospedale di S Giorgio gestito dalle suore autriache vincenziane, nel quartiere di Karaköy, cuore storico della Istanbul europea. «L'hanno massacrato di botte e i suoi abiti sono sporchi ed inzuppati di sangue», è il laconico messaggio di Emeline che mi fa sussultare sulla sedia. Rimedio in tutta fretta qualche abito per correre di persona all'ospedale mentre rovisto nella mia mente alla ricerca del volto di Alphonse: uno tra i tanti volti di giovani rifugiati africani che approdano sulle rive del Bosforo nella speranza di trovare quel futuro brutalmente precluso nei loro paesi d'origine. In una piccola stanza al primo piano del nosocomio, Emeline mi attende con Marta, giurista italiana che lavora per l'associazione HCA (Helsinki Citizens' Assembly) per i diritti umani; poco più tardi ci raggiungerà anche Hermine, altra volontaria francese.
           Alphonse sta dormendo un sonno molto agitato e rischia continuamente di strappare l'ago della flebo al suo braccio sinistro. Il giovane ivoriano non è molto alto di statura, capelli rasta e fisico muscoloso del calciatore provetto. Il suo corpo accovacciato in posizione quasi fetale, come se continuasse a cercare istintivamente della protezione, è una macchia nera perduta in un mare bianco: bianche le lenzuola che lo avvolgono, bianche le garze che ricoprono parte del suo volto devastato dalle botte e dai colpi di bastone. Si sveglia per qualche istante e vedendomi ha come un sussulto, un moto di paura, forse causato dalla mia barba che ricorda quella di uno dei suoi aggressori: non mi ha riconosciuto ma si calma dopo che mi presento tranquillizzandolo e in pochi istanti si riaddormenta.
          Ne approfittiamo per organizzarci per il prosieguo della giornata. Io cerco l'ortopedico e i responsabili dell'ospedale per accertarmi sulle reali condizioni del paziente e tentare di assicurargli almeno una notte di ricovero sotto osservazione: non sarebbe il buon momento, per Alphonse, di tornare immediatamente a dividere con sei compagni la sua camera, nel quartiere a rischio di Tarlabaşı! Emeline accoglie e dirada le visite degli amici di Alphonse (il tam tam telefonico ha diffuso in breve tempo la notizia dell'aggressione); Marta, dal canto suo, è in attesa della probabile visita della polizia turca e pronta a tutelare la vittima in caso di interrogatorio.
           Nelle ore che seguono la situazione si normalizza lentamente. Alphonse passa la notte all'ospedale e, malgrado il dolore fisico, si siede ormai sul letto e riprende a mangiare. Iniziano anche le indagini e la raccolta di prove a carico degli aggressori, soprattutto per l'interessamento degli avvocati dell'HCA: sarà un percorso ad ostacoli, perché se per uno straniero in genere è difficile difendere i propri diritti, quando lo straniero è un diciannovenne africano, la sfida è già quella far accettare che abbia dei diritti! Alphonse, ha paura e ci vogliono alcuni giorni prima che inizi a raccontare ciò che è successo con dovizia di particolari sempre più dettagliati. È la storia sordida di un'aggressione tra le tante, originata da futili motivi, ispirata da un forte razzismo e favorita anche da qualche ingenuità della vittima. Un rifugiato che vive in appartamenti di fortuna e in quartieri ad alto tasso di criminalità, porta sempre con sé i pochi averi e, magari, paga un pacchetto di sigarette con l'unico grande biglietto a disposizione. Manco a dirlo, dopo essere già stato insultato ripetutamente, Alphonse viene aggredito selvaggiamente al momento di reclamare il resto del pagamento per il suo piccolo acquisto.
           E' doloroso scavare in questi ricordi ma, più il tempo passa e più il suo racconto si fa pacato: « Io sono abituato a guardare al futuro, a non fermarmi sul passato...», ricorda con insistenza. Di quel passato, che è necessario ricostruire per l'inchiesta, accanto a particolari sconcertanti (anche alcuni poliziotti, ai quali si era rivolto il ragazzo in cerca d'aiuto, rispondono con botte!) oltre che drammatici, emergono poco a poco 'squarci d'umanità', che si riflettono nel ricordo lucido di Alphonse. C'è l'autista del taxi, comparso dal nulla, che accosta con l'auto al marciapiede dove Alphonse sta scappando in una maschera di sangue, per farlo salire in tutta fretta e strapparlo alle mani dei suoi carnefici; non richiederà il minimo compenso al termine della drammatica corsa. Ci sono due donne turche velate, che incrociando Alphonse mentre si dirige barcollante al pronto soccorso, si fermano per detergergli il volto e offrirgli un po' d'acqua, nuove Veroniche sulle vie crucis di questa umanità.
          Forse sono proprio questi incontri che partoriscono il futuro al quale Alphonse si aggrappa, questi 'squarci d'umanità' come richiami di un Dio che sembra non essersi ancora stufato delle sue creature. Un ragazzino ivoriano, dai documenti d'identità sgualciti, sale in cattedra per ricordarcelo, aprendo i nostri occhi talvolta velati e i nostri cuori appesantiti dall'indignazione.
 
 
Claudio Monge
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