Sarebbe opportuno, ogni tanto, poter riflettere sulla nostra opera educativa e pastorale
Domande sul significato dell’educare e sull’evangelizzare in questo momento culturale e storico sono più difficili (che poi sembrano grandi domande, ma investono la realtà di tutti i giorni: il grande numero di ragazzi che vivono situazioni familiari e personali disagiate, l’avanzare di ragazzi di etnia e cultura d’origine diversa, un nord-est ricco e affannato sul lavoro, ecc.).
So long.
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Ci è mai capitato di prendere in mano un volantino di una nostra scuola oppure di “guardare” una nostra celebrazione penitenziale? Lo dico dal punto di vista “esterno”, come se capitassimo lì quasi per caso, senza avere nessun tipo di responsabilità diretta… e magari con la mente sgombra riuscire a riflettere sulle parole che normalmente noi rivolgiamo ai ragazzi o ai giovani. Quale il quadro che ne emerge?
Mi sembra che la nostra insistenza vada soprattutto sulla “costruzione di sé”, sul fatto che dobbiamo, non solo riflettere bene sul futuro, ma anche agire bene affinché uno, dopo qualche anno, non si ritrovi con il fiato corto, magari “dipendente” da tante cose a cui non ha saputo opporsi precedentemente. Morale: la nostra “autorealizzazione” va a farsi benedire… Spesso, mi sembra, passiamo ai ragazzi una idea di uomo che ha, indubbiamente, un compito da svolgere (la propria realizzazione, il progetto di vita), ma che procedendo sul sentiero del tempo può inciampare sfasando o perdendo di vista l’obiettivo.
Semplificando e forse anche banalizzando un po’ verrebbe poi da chiedersi quale il posto del buon Dio in tutto questo. Essendo anche polemici si potrebbe porre la domanda: se al posto dei 4/5 sacerdoti per le confessioni ci fossero altrettanti psicologi, cambierebbe qualcosa? Non tanto dal nostro punto di vista (sappiamo già che siamo inorriditi al solo pensiero), ma da quello dei ragazzi: per loro cambierebbe qualcosa?
Non è che, per caso, nella nostra opera educativa la fede abbia assunto il significato di una realtà che non ha molto da aggiungere, molto da dire alla vita che uno sta portando avanti? E questo, ammesso che la lettura sia legittima, non affonda le proprie radici in una antropologia (e di conseguenza in una pastorale) molto positiva sui punti di partenza? Una antropologia debitrice soprattutto al buon Rousseau (giusto per fare un nome importante) e di quella scuola psicologica che passa attraverso il nome di “psicologia umanistica” (cfr. Allport, Nuttin, Ma slow, Rogers, ecc.); antropologia che ci consegna un uomo fondamentalmente positivo, che guarda con fiducia alla vita e al futuro, insomma un uomo buono, creativo, aperto1.
Basti pensare all’enfasi data all’etimologia del verbo “educare” (ma sulla linea si colloca anche la grande sottolineatura del verbo e della categoria “animare”): e-ducere cioè tirar fuori; dove il tirar fuori (e qui sta il passaggio fondamentale) viene a significare che il ragazzo ha già tutto dentro di se e l’opera educativa si configura, quindi, soprattutto come opera di ostetrico, di chi aiuta a spingere o consiglia cosa fare durante le inevitabili contorsioni del parto di se.
Verrebbe da chiedersi: ma se uno ha già tutto, perché ha bisogno di un ostetrico che lo aiuti a partorire? E sembrerebbe, così su due piedi, una bella domanda.
Insomma siamo debitori, fortemente, di un’antropologia dove Dio mi ha già “servito di barba e capelli” (i “famosi” talenti) e al massimo ho bisogno del famoso ostetrico che mi dia una mano in questo processo di realizzazione.
Un modello quantomeno interessante e suggestivo che ha segnato e ispirato molta della nostra pastorale, della nostra predicazione, della nostra opera evangelizzatrice, ma votato a lasciare, ultimamente, la persona in una profonda solitudine… un modello che rischia di dimenticare o di lasciare in ombra le contraddizioni, il lato oscuro dell’umanità.
Sappiamo, e questo depone a favore di un sano istinto cristiano, che non mancano gli aggiustamenti: l’apertura all’altro viene posta come “fondamentale” per la realizzazione; un po’ più arduo l’aggiustamento con il buon Dio, che dopo aver depositato i talenti, fatica a trovare un proprio spazio e una propria funzione. Ne risulta una fede giustapposta, un po’ appiccicata: Cristo trova significato soprattutto come modello a cui ispirarsi. Di conseguenza si fa non poco problematico il problema della vita sacramentale, e qui basti pensare alla confessione.
A questo si aggiunga una mentalità, in questo momento, incapace di consapevolizzare il proprio male e quindi di dare una risposta vagamente esauriente al sangue che, purtroppo, sembra scorrere con rara velocità. Si passa dalla propria autogiustificazione (in fondo che male c’è?) all’invocare la pazzia, lì dove il male si manifesta nella sua crudele e profonda realtà.
Potremmo sognare per un attimo? Mandare in vacanza per un attimo Rousseau e gli amici psicologi umanisti, per recuperare un’antropologia senz’altro più “drammatica” e un po’ meno ingenuamente positiva. In questo potrebbero aiutarci, oltre alla nostra fede in Cristo, scuole di pensiero normalmente guardate con sospetto perché accusate di sospetto (cfr. la psicanalisi) e le correnti filosofiche odierne che con sempre maggiore interesse recuperano tematiche legate alla debolezza, al corpo, al sentimento, al desiderio, alla legge, alla colpa.
Probabilmente ne uscirebbe un uomo un po’ diverso: non così padrone della vita e del destino proprio, ma costretto a fare i conti con le cicatrici subite o autoprovocate nel corso della propria storia e che non cessano di accompagnare profondamente le scelte di oggi; un uomo che comunemente fa i conti con la fatica di uno sfociamento tra quello che vorrebbe fare e quello che di fatto riesce a fare. Un uomo che costruisce la propria vita, non tanto gestendo (magari moralisticamente) il proprio corpo, gli affetti, ecc., ma la costruisce dentro queste realtà che sono sentite, amate, odiate, sofferte, vissute (istintivamente il pensiero va all’anoressia e alla bulimia). Un uomo desiderante (anche se spesso non riesce a sapere fino in fondo cosa desidera – e qui interviene tutta la tematica di un “potere” che da sempre, oggi come ieri, ha cercato di fornire risposte “preconfezionate” e “tranquillizzanti” al desiderio dell’uomo) che è spinto all’in-contro con la realtà, con l’altro (anche se è possibile e normale vivere la tentazione di fuggire di fronte all’altro e alla realtà!)… una realtà che ultimamente (e qui sta la drammaticità e la tragicità della condizione umana) non dà ragione di quel desiderio o se lo fa lo fa fugacemente, temporaneamente. Un desiderio allora che risignifica profondamente anche l’attesa (non c’è desiderio senza attesa – che torna ad essere componente fondamentale della vita); un desiderio che dice responsabilità ed educazione degli affetti, dei sentimenti, delle scelte; un desiderio che dice possibilità e certezza del male (purtroppo!) che possiamo commettere e quindi del nostro peccato; desiderio che dice nostalgia di una “salvezza” e tensione verso un Altro (Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te o Signore… la lezione di Agostino).
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1 Giusto per non parlare a vanvera stralciamo alcuni capoversi dal Dizionario di Pastorale Giovanile (prodotto dalla Università Pontificia di Roma) alla voce “Animazione” a cura di Mario Pollo (le sottolineature sono nostre).
L’uomo come sistema non determinato ed aperto
L’uomo è quell’essere vivente il cui futuro non è determinato né dal suo patrimonio genetico ereditario, né dai condizionamenti dell’ambiente naturale e sociale in cui ha la ventura di vivere. Ereditarietà, in maggior misura, e ambiente sono le due costrizioni che determinano, invece, il comportamento delle specie animali. L’uomo nasce con un compito prioritario: quello della propria costruzione. Una costruzione che nella prima fase della sua vita lo vede protagonista passivo di un progetto elaborato dalla famiglia e dal gruppo sociale in cui vive, ma che man mano che passa il tempo lo vede appropriarsi di un protagonismo sempre più attivo e cosciente. L’educazione che la famiglia e il gruppo sociale gli offrono è il percorso attraverso cui realizza il passaggio dalla dipendenza all’autonomia. Questa progressiva partecipazione dell’uomo al suo processo di costruzione è ciò che gli consente di non essere né il riflesso dell’educazione che ha ricevuto e delle storia personale e sociale che ha vissuto, né il prodotto psichico della particolarità del suo organismo. Questo gli consente, almeno parzialmente, di progettare e di vivere la propria storia in modo originale. L’uomo per sopravvivere e realizzare in modo soddisfacente le potenzialità di cui è portatore deve partecipare attivamente alla propria costruzione, attraverso un progetto responsabile e consapevole. La vecchia favola della cicala e della formica illustra questa realtà della condizione umana ai ragazzi. Infatti, l’uomo per le sue caratteristiche strutturali se vuole sopravvivere, sia fisicamente sia psichicamente, deve elaborare dei progetti esistenziali a medio periodo. Per potersi nutrire oggi ha compiuto delle scelte e delle azioni molto tempo fa. Nelle società industriali, dove l’uomo ha scarse possibilità di raccogliere o di cacciare ciò che gli serve per nutrirsi e proteggersi dai disagi dell’ambiente naturale, la sopravvivenza richiede una strategia complessa che ha tempi di realizzazione quasi mai immediati. Per non parlare della possibilità di realizzazione delle aspirazioni immateriali. L’uomo non può abbandonarsi all’istinto ed al giorno per giorno per sopravvivere e realizzarsi, ma deve elaborare un preciso progetto di sé e della propria vita.
Ai predicatori di morale
Non voglio fare della morale, ma, per coloro che la fanno, ecco il mio consiglio: se volete infine privare di tutta la loro dignità e valore le cose e le condizioni migliori, continuate pure ad avere sempre queste parole sulla lingua, come avete fatto fino ad oggi! Mettetele sulla punta della vostra morale e discorrete da mane a sera sulla felicità della virtù, sulla pace dell’anima, sulla giustizia e sulla ricompensa immanente: grazie a come le trattate, tutte queste buone cose finiranno per guadagnarsi popolarità e garranza di strada; ma allora tutto l’oro che hanno dentro si sarà trasformato in piombo. Per la verità è un’arte di alchimia alla rovescia quella di cui voi v’intendete: la svalorizzazione, cioè, di quel che ha più valore! Provate a por mano a un’altra ricetta per non raggiungere, come è accaduto fino a oggi, il contrario di ciò che cercate: negate quelle buone cose, togliete loro il plauso della plebe e la facile circolazione, trasformatele di nuovo in celati pudori di anime solitarie, dite: la morale è qualcosa di proibito! Forse, così, guadagnerete a queste cose quella specie di uomini, la quale sola ha una qualche importanza, voglio dire gli eroici. Ma allora dovrebbe esserci in esse qualcosa di terribile e non, come è avvenuto fino a oggi, di nauseante! Non verrebbe voglia di dire, oggi, riguardo alla morale, come Meister Eckhart: «Prego Dio che mi liberi d’Iddio!»
F. Nietzsche, La Gaia Scienza, Aforisma 292
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