Il relativismo nel tritacarne di Gibson. L'uscita anche in Italia del film Apocalypto di Mel Gibson ha scatenato anche da noi orde di antropologi relativisti interessati a riaffermare, dopo gli attacchi di Benedetto XVI, il principio del relativismo culturale... Esiste, invece, una legge naturale, una «grammatica scritta nel cuore dell'uomo», che vale per tutte le culture e sulla cui base le culture possono essere giudicate, contro ogni relativismo.
del 08 gennaio 2007
L’uscita anche in Italia del film Apocalypto di Mel Gibson ha scatenato anche da noi orde di antropologi relativisti, di cui Gibson non è il vero obiettivo. Una certa corrente antropologica è soprattutto interessata a riaffermare, dopo gli attacchi di Benedetto XVI, il principio del relativismo culturale, secondo cui non esistono valori e giudizi universali, validi per tutte le culture, ma ogni azione, ogni gesto, ogni dottrina può essere giudicata soltanto all’interno della cultura in cui è nata, e solo un razzista considera una cultura come inferiore a un’altra.
 
Apocalypto non è un documentario, e ci si può divertire a trovare il pelo nell’uovo, ma la rappresentazione della cultura maya come fondata sul sacrificio umano - ritenuto necessario ad assicurare il potere dello Stato e la fertilità delle donne - è coerente con la ricerca storica più recente. Nel 2003 David Stuart, uno storico e antropologo dell’Università di Harvard, ha pubblicato sulla rivista Arqueología Mexicana un articolo su L'ideologia del sacrificio tra i Maya che ha fatto molto rumore. Riassumendo le ricerche di decine di antropologi forensi, Stuart mostra come la collaborazione fra le moderne tecniche di analisi dei siti archeologici e la storia smentisce definitivamente ogni teoria secondo cui i maya sarebbero stati più «pacifici» degli aztechi e il sacrificio umano tra di loro relativamente raro. Soprattutto, Stuart - che è co-autore di quattro fondamentali volumi sui maya - relega fra le anticaglie l’argomento, che sentiamo ripetere fino alla nausea in questi giorni in Italia, che vuole i «codici» spagnoli impegnati a diffamare i maya per giustificare le azioni dei conquistadores. Al contrario, al di là di qualche possibile esagerazione sul numero dei sacrificati - che gli spagnoli non potevano certo quantificare con gli argomenti della ricerca moderna -, le descrizioni di corpi sventrati, cuori estratti, bambini offerti in sacrificio agli dei e massacri di massa, che Gibson riprende, sono sostanzialmente fedeli. Un’altra sciocchezza, spiega Stuart, è che i maya si cibassero della carne umana dei sacrifici per rimediare a un deficit di proteine. No: quella del sacrificio umano per i maya era un’ideologia, ed era al centro di tutta la loro cultura.
 
Ma proprio qui sta il problema. Secondo il relativismo antropologico, ogni giudizio è chiuso nel cerchio della cultura di chi lo emette. Chi siamo noi per giudicare i maya? Né esistono valori universali in base ai quali si potrebbe sostenere che una cultura fondata sul sacrificio umano è - da questo punto di vista - inferiore, per esempio, a una cultura cristiana fondata sul perdono e la compassione. Ma, una volta accettato il presupposto, non ci si ferma ai maya. Così, diventa comprensibile (forse) escludere la poligamia nella nostra cultura, che da oltre duemila anni non la pratica. Ma sarebbe una forma di «imperialismo culturale» impedire di praticarla ai musulmani, anche quando vengono da noi. E così via.
 
Benedetto XVI ha invece ricordato nel suo messaggio per la Giornata della pace 2007 che esiste una legge naturale, una «grammatica scritta nel cuore dell’uomo», che vale per tutte le culture e sulla cui base le culture possono essere giudicate, contro ogni relativismo. Apocalypto e Mel Gibson possono anche non piacere, ma la vera posta in gioco della discussione è questa.
Massimo Introvigne
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