A volte la complessità delle realtà, le differenze territoriali, le diverse contingenze sociali ci fanno accontentare di singole risposte a singole domande, singoli percorsi per singole esperienze giovanili...
Le fatiche delle nostre comunità cristiane ad essere luoghi desiderabili e abitati dai giovani possono certo derivare dalle stanchezze pastorali, dalle forze ecclesiali ridotte, dalle complessità delle situazioni di vita che bussano quotidianamente alle porte delle canoniche e degli oratori, ma forse, ancor di più, da una certa dis-abitudine, che è andata via via crescendo, a un “ascolto nella fede” del nostro tempo (e quindi dei nostri giovani). A volte è come se dentro le nostre comunità, i nostri gruppi, le nostre associazioni ci fossimo stancati, dopo fasi alternanti di interesse su dati e statistiche, di ricevere notizie, spesso desolanti e disorientanti, e avessimo deciso di non ascoltarle, dando per presupposto che ormai queste nuove generazioni le abbiamo più o meno inquadrate. Pur crescendo le ricerche e gli studi sui giovani e sulla religiosità, è come se la sensazione fosse quella di una non reale incidenza sull’interesse degli operatori pastorali: questa persistente tentazione al non ascolto, all’andiamo avanti comunque, è forse il freno-a-mano (che tiriamo noi) che riduce la pur insistente spinta sull’acceleratore dell’annuncio e della testimonianza delle nostre comunità: da una parte spingiamo, consumando un’enormità di carburante, dall’altra freniamo.
Senza un ascolto vero, competente, fecondo, capace cioè di suscitare fermento e creatività pastorale, del mondo e delle società che abitiamo, del mondo giovanile in primis, la direzione per quanto ben orientata della nostra cura educativa rimane indicativa ma non attuabile. L’allenamento dello sguardo e della riflessione sui giovani, e soprattutto con i giovani, è un esercizio che deve diventare permanente, costitutivo e comunitario: non può essere messo a tema solo periodicamente (quest’anno pastorale lo dedichiamo ai giovani!…) senza una tensione continua di attenzione e discernimento; non può essere tra gli obiettivi secondi di una comunità; non può essere esercizio solo di alcuni (gli animatori…). Ed è forse proprio su quest’ultima questione che si pongono le sfide e le urgenze della pastorale giovanile, proprio qui ci viene chiesto di crescere, sull’allenamento comunitario a uno sguardo sui giovani e con i giovani, a provare a vedere con i loro occhi, a farsi stupire con la loro, e non solo la nostra, sensibilità.
Diventa praticabile allora qualsiasi direzione (educativa) se sa stare dentro questa visione, questo scrutare l’orizzonte dal di dentro della realtà giovanile. Il rischio chiaramente è quello del giovanilismo, del perdere la consistenza dell’essere educatori: per questo l’accompagnamento deve assumere la forma del cammino, del prendere una direzione, dello stare dentro un itinerario. L’ulteriore sfida è quella del navigare insieme, dello stare sulla stessa barca, sì, ma non accontentarsi di un dolce naufragare insieme, piuttosto di “rischiare” una rotta: la tensione educativa, il desiderio di accompagnamento possono e devono concretizzarsi in una direzione che sa andare anche controvento o dentro un mare molto mosso.
A volte la complessità delle realtà, le differenze territoriali, le diverse contingenze sociali ci fanno accontentare di singole risposte a singole domande, singoli percorsi per singole esperienze giovanili: è la tentazione della frammentarietà, mascherata da varietà di doni e di carismi. La varietà è dentro un unico corpo, dentro un’organicità, non dobbiamo mai dimenticarlo: per questo lo sforzo (a volte veramente grande) di pensare insieme la pastorale, di esprimere delle realtà di coordinamento reale, di mettere in atto una comunione evangelica anche nelle cosiddette strutture: non può essere solo l’incarico di qualche delegato o l’esperienza di qualche evento diocesano o nazionale comune, deve essere lo stile che ciascuna realtà, grande e piccola, assume come propria. Da qui allora potranno scaturire itinerari concreti, questi sì pluriformi e differenziati, che partono però da un’abitudine a pensare insieme e che possono anche avere un termine, nel momento in cui le condizioni e il contesto chiede di “cambiare strada”, ma possono allora cambiare perché dentro una comunione in atto.
Ciò che conta infatti non è il come evangelizziamo ma perché lo facciamo. Il rischio è quello di spostare il problema della pastorale giovanile sui giovani: il problema sta sul fronte del soggetto.
Chi è che non trova il “perché” della fatica, del disorientamento, della incomprensibilità del mondo giovanile? Non è forse il soggetto comunitario? Siamo noi operatori a dover sempre riconsiderare il perché siamo qui ad annunciare Cristo ai giovani, a riposizionarci, e in questo senso allora a contribuire in modo nuovo all’opera di evangelizzazione. La tentazione del convertire senza convertirsi ci riguarda come comunità cristiane oltre che sul piano personale anche su quello educativo. Il mio essere di Cristo oggi è messo in discussione, dal mio tempo, dalla società, dalla politica, dalla cultura, e mi chiede di partire dal nucleo della vita, della gioia, che l’incontro con Lui genera: è a questa fonte che devo attingere nella cura educativa e nell’annuncio più schietto che quotidianamente si scontra e si incontra con il mondo dei giovani. Ma è anche una conversione nel rapporto educativo; educare dentro il mondo giovanile è stare dentro un margine estremo e ampio, dentro un confine largo, un territorio di dogana profondo: c’è un protagonismo, una soggettività ecclesiale dei giovani, che dobbiamo re-imparare; non possiamo riduttivamente pensarli come una fase di vita da accompagnare. La dilatazione della fascia giovanile chiede anche all’interno delle nostre comunità uno spazio diverso, di protagonismo, da riposizionare; la pastorale giovanile non può essere semplicemente una azione di accompagnamento, una iniziazione o, al meglio, una mistagogia da prorogare all’infinito, è piuttosto un lavoro di ridefinizione catastale: le nostre comunità possono convertirsi sdoganando alcuni loro feudi alla novità giovanile, la nuova evangelizzazione parte forse proprio da questo lavoro all’interno delle nostre realtà. Dentro queste dinamiche nuove, che partono dall’interrogativo del perché evangelizziamo e non dal come lo facciamo, e che per questo possono aiutarci veramente a cambiare, dentro queste dinamiche, allora l’uscire fuori diventa un movimento naturale, quasi automatico. Perché sappiamo mostrare, a livello comunitario, la convenienza della fede e perché le nostre comunità diventano luoghi di giovani vivi, non rifugi di ex-giovani, che gioiscono e fanno gioire; per questo allora possiamo pensare di poter stare in quelle periferie esistenziali a cui ci richiama il papa, anzi questo abitarle diventa lo stile della comunità, che non vuole essere un’isola che non c’è, ma una casa tra le case degli uomini.
Stare dentro questo continuo ritracciare direzioni e confini di costa, dentro mappature sempre emendate, sembra essere a volte snervante e frustrante, ma è l’unico modo per appassionarci al rischio del viaggio.
Renato Mazzuia
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