Architetti, costruite la pace a Gaza

Parla il progettista israeliano Eyal Weizman: «Il nostro ruolo è pianificare la decolonizzazione dei Territori, creando luoghi d'incontro». «L'architettura trasforma in spazi costruiti le relazioni di potere esistenti: è sempre stato così. Ma i progetti, i modelli accendono le menti e fanno pensare: possono cambiare quindi le relazioni di potere o le abitudini inveterate.

Architetti, costruite la pace a Gaza

da Attualità

del 23 aprile 2009

 Un’occupazione postmoderna: così Eyal Weizman, ieri a Milano per presentare il suo nuovo volume, Architettura dell’occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele  (Bruno Mondadori), definisce la situazione nei territori che Israele occupò nel 1967. «Rispetto a tutte le altre occupazioni e colonizzazioni che la storia ha conosciuto – spiega Weizman – quella israeliana si presenta con un volto più democratico. Infatti la sistemazione del territorio è il risultato di una complessa serie di interazioni tra israeliani, palestinesi, organismi umanitari, pressioni di carattere internazionale. Gli stessi palestinesi sono coinvolti nella riprogettazione delle zone dove sono confinati, così come sono stati coinvolti nel progetto del Muro che taglia i territori. La logica che si segue nell’accettare questo stato di cose è quella del male minore. C’è meno brutalità: ma, allo stesso tempo, questo approccio relativamente umanitario diventa una trappola. E i contributi che gli europei danno per l’assistenza ai palestinesi diventano un contributo al perpetuarsi dell’occupazione, come se fossero dati agli israeliani, poiché contribuiscono a mantenere lo status quo».

 

 Ma se è così non c’è via di uscita…

 «Bisogna abbandonare la logica del male minore e dei compromessi cui questa porta. Dare un chiaro e netto taglio: metter fine all’occupazione ».

 

 I bombardamenti a Gaza degli ultimi mesi rappresentano qualcosa di nuovo?

 «No, sono anzi l’espressione di una vecchia paura che attanaglia e con­diziona non solo gli israeliani: è difficile trattare con i rifugiati, perché questi hanno il diritto di ritornare alle loro terre e la loro presenza è destabilizzante al massimo grado.

  Di qui la violenza degli attacchi. Tre giorni dopo l’inizio dei bombardamenti già il governo aveva pronti i piani per la ricostruzione: distruggendo le loro case e ricostruendole si ottiene il controllo sul loro ambiente di vita, si interrompono le loro consuetudini, si cambia il volto della loro normalità».

 

 Come architetto in che modo si pone di fronte al problema?

 «Nel nostro ufficio a Beit-Sahour, a sudest di Betlemme, con Sandi Hilal e Alessandro Petti abbiamo prima studiato le logica dell’occupazione, fondata sul posizionamento di insediamenti sui rilievi, l’uso delle abitazioni dei privati come avamposti collocati strategicamente per esercitare dominio e sorveglianza. Poi abbiamo elaborato progetti per la decolonizzazione».

 

 Qualcosa di utopico?

 «Forse in parte: certo il conflitto sembra una condizione permanente. Il punto è come far sì che si possano sviluppare strategie e piattaforme di intesa, elementi sui quali stabilire forme di collaborazione».

 

 Esempi?

 «Oush Grab, un insediamento in posizione strategica su un alto colle non lontano da Betlemme. Abbandonato nel 2006, è stato ripreso dai palestinesi, poi riconquistato da israeliani nel 2008: ma i coloni sono stati affrontati dagli attivisti per la pace e ne è nato un tira-e-molla estenuante. Abbiamo sviluppato un progetto: quelle che erano case coloniche e strutture di difesa possono essere trasformate in luoghi di incontro. Lo stesso per P’sagot, vicino a Ramallah: ci sono duemila coloni circa. Stiamo proponendo di svuotarlo; certo ci vuole comprensione per i coloni: i loro figli sono nati qui, hanno lavorato la terra, lo sentono come casa loro. È quindi giusto che rimanga come luogo pubblico, che una volta decolonizzato vi si aprano scuole, ospedali, sedi di organismi non governativi.

  Le singole case, espressione di possesso, possono essere in certi casi unite per formare ambienti di dimensioni maggiori».

 

 L’architettura ha il potere di cambiare qualcosa?

 «L’architettura trasforma in spazi costruiti le relazioni di potere esistenti: è sempre stato così. Ma i progetti, i modelli – l’abbiamo osservato nel corso di centinaia di incontri – accendono le menti e fanno pensare: possono cambiare quindi le relazioni di potere o le abitudini inveterate.

  Ci si siede attorno ai modellini e si osserva come l’insediamento potrebbe diventare un luogo di incontro: questo introduce qualcosa di radicalmente diverso, e nascono nuove potenzialità. I modelli sono come giocattoli, ma rendono vivide le idee di un cambiamento possibile. Fanno capire che forse esiste da qualche parte un destino differente da quello cui siamo abituati».

 

 E le rovine, le macerie dei bombardamenti?

 «In parte dovranno restare come archeologia del conflitto: a futura memoria. In parte andranno recuperate. Importante è togliere loro il significato di strumenti di forza e di imposizione, e farne luoghi la cui finalità sia discussa e concordata».

 

Leonardo Servadio

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