Da grande malato, Zatti era diventato il grande curatore. La richiesta fatta alla Madonna, all'inizio della sua malattia, era stata esaudita. Abbracciando il dolore e la miseria altrui, era diventato lui stesso una medicina. Piangeva solo quando non poteva essere d'aiuto al suo prossimo.
del 10 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 Dal Po a Bahia Blanca
          Da Albina Vecchi e da Luigi Zatti, nacque il 12 ottobre 1880 Artemide, che entrò a far parte di una delle tante numerose famiglie di Boretto, dedite all’agricoltura e al duro lavoro dei campi.
           Luigi Zatti lavorava dall’alba al tramonto in un fondo di via Goleto con l’aiuto della moglie. Nel frattempo, del piccolo Artemide si prendeva cura la sorellina. All’età di quattro anni era già in campagna a lavorare. Le entrate erano poche e le bocche da sfamare tante. Frequentò qualche anno di scuola elementare, poi, all’età di nove anni andò “sotto padrone”, come si diceva quando si andava a lavorare alle dipendenze di altri. Si alzava alle tre del mattino, mangiava in fretta una fetta di polenta con un po’ di latte e partiva per i campi. La paga era di 25 lire all’anno, ma alla fine di ogni settimana, quando tornava a casa, portava qualche dolce che la padrona preparava per lui per il servizio prestato. Li donava ai suoi sette fratelli ed era per lui gioia immensa vederli divorare tutto in un batter d’occhio. Così, fino a sedici anni. Poi arrivò una delle tante crisi economiche. In agricoltura andava sempre peggio: mancavano le macchine, i braccianti erano disoccupati e denutriti, le malattie aumentavano. La “pellagra” dominava la valle padana. L’Europa intera era sotto l’incubo della depressione. Il fascino dell’America si faceva irresistibile. Gli Zatti avevano uno zio in Argentina che faceva il caposquadra degli operai municipali di Bahia Blanca. Nel 1897 la famiglia lo raggiungerà. Bahia Blanca è una delle grandi città argentine situate più a sud della favolosa Patagonia.
          A Bahia Blanca il padre mise su una bancarella al mercato. Artemide lavorò prima in un albergo, poi preferì una fabbrica di mattoni e piastrelle. Vicino al luogo dove lavorava c’era una chiesa tenuta dai salesiani di Don Bosco, giunti in missione nel 1875, tutti di origine italiana. Artemide nel tempo libero aiutava il parroco e leggeva i libri della biblioteca. Era particolarmente attratto dalla vita di Don Bosco: cominciava a nascere in lui la vocazione al sacerdozio. Padre Carlo Cavalli ne parlò al papà che, da buon fedele praticante, permise al diciannovenne Zatti di entrare nell’aspirantato salesiano di Bernal, vicino a Buenos Aires. Era il più grande d’età fra tutti gli aspiranti al sacerdozio. Trovava qualche difficoltà negli studi; dovette cimentarsi con il latino, lui, che parlava un po’ di spagnolo e un po’ d’italiano, ma soprattutto il dialetto. Incaricato di assistere un sacerdote malato di tisi ne venne contagiato e il giorno in cui i compagni ricevettero l’abito talare, lui era a letto con tosse e febbre. Il medico consigliò l’allontanamento da quella zona umida e venne trasferito in capo al mondo. La volontà divina era diversa da quella di Zatti. Artemide imparò il valore supremo della ubbidienza, in nome di Dio. “Andrò a Viedma, pensava Artemide, a morire se Dio vorrà”. A quei tempi, la tubercolosi, il “mal sottile“, non perdonava e mieteva vittime.
          Viedma, sulla riva sinistra del Rio Negro, è toccata dalla ferrovia che da Bahia Blanca giunge sulle rive del lago Nahnel-Huapi. Allo sbocco del Rio Negro sull’Oceano Atlantico, oltre all’aria buona, c’era una farmacia e un ospedale nella casa salesiana. Era un avamposto missionario popolato da operai abbandonati a se stessi, e da soldati avventurieri: gli indigeni morivano per mancanza della più comune assistenza medica. Un ospedale ricavato da una stalla e un unico medico: padre Garrone. Questi promise ad Artemide la guarigione. E Artemide promise alla Madonna di dedicare la vita intera a curare i poveri.
Farmacista e infermiere fuorilegge
          Non sarebbe mai diventato sacerdote. Ormai era indispensabile nella farmacia. Era un infermiere così bravo che l’ospedale non poteva fare a meno di lui.Alla morte di padre Garrone, cadde tutto sulle sue spalle, sia l’ospedale “San Giuseppe” che la farmacia “S. Francesco”. Oltre tutto bisognava fare i conti con la legge. Lo Stato non era in grado di provvedere alle esigenze sanitarie di Viedma, ma doveva far rispettare la legge ed era costretto ad intralciare chi tentava di fare qualche cosa per i malati poveri del S. Giuseppe. Padre Garrone aveva fatto una gran praticaccia come infermiere nell’Esercito italiano: tutti si rivolgevano a lui e lo chiamavano dottore.I superiori salesiani assunsero un medico vero per rientrare nella legalità e assicurare l’avvenire dell’istituzione. Ma il responsabile rimaneva Zatti con tutti i grattacapi connessi. Dirigeva l’ospedale, sorvegliava e lavorava provvedendo personalmente anche alle pulizie. Gli ammalati aumentavano; pochi erano coloro che pagavano, e le spese crescevano. In bicicletta girava in lungo e in largo per racimolare fondi; tutti lo conoscevano e lo distinguevano da lontano con la sua lunga pedalata e col camice bianco indosso, perché andava a curare i malati casa per casa. Quando lo vedevano con il cappellone in testa, sapevano che doveva far visita alle banche o a qualche ricco caritatevole.
Il diploma di farmacista
          Nel 1914 (a 17 anni da quando aveva lasciato l’Italia), ottenne la cittadinanza argentina e ne fu felice perché amava il Rio Negro non meno del Po, il suo primo fiume.All’ospedale San Giuseppe mandavano anche i galeotti del carcere di Viedma, perché l’infermeria delle prigioni di Stato era insufficiente e fu a causa di ciò che Zatti conobbe egli stesso il carcere sotto l’accusa di “infedeltà nella custodia dei prigionieri”. Infatti un prigioniero era evaso durante la notte. Alla gente incredula si presentò la scena di Artemide condotto in prigione. I confratelli, gli infermieri, i ragazzi del collegio, i convalescenti e tutti i beneficati lo seguirono con la banda in testa. In tribunale era sereno, sorridente e pregava. Dopo cinque giorni lo rilasciarono e il suo ritorno fu trionfale. Il suo solo commento: “Avevo bisogno di un po’ di riposo”.Era il 1915, in Europa infuriava la guerra, quando nelle vicinanze venne aperta una vera farmacia con farmacista regolarmente abilitato, per cui non restava che chiudere la “Farmacia San Francesco”. “Ma allora i poveri dove troveranno i medicinali gratuiti o a poco prezzo?”, pensava Artemide. Mancavano i titoli legali per gestirla e nonostante la lotta ingaggiata, fra minacce e multe pagate, giunse il momento del rispetto della legge e della chiusura definitiva.
          Ma Zatti non si diede per vinto, ritornò a La Plata, sostenne gli esami e si presentò con un ineccepibile diploma di “idoneo in farmacia”. Si alzava ogni mattina alle 4,30; accendeva il fuoco e si recava in Chiesa ove si prostrava a terra con la fronte sul pavimento a pregare. Partecipava alla Messa, poi andava dai suoi ammalati dove tutti lo salutavano “don Zatti”. In refettorio prendeva il caffelatte in fretta e subito dopo inforcava la bicicletta con il suo lungo piedone e con le sue mani, più simili a due badili, piuttosto inadatte a manovrare siringhe per fare iniezioni agli ammalati sparsi in tutta la città...A mezzogiorno era pronto a suonare la campana e con la comunità recitava l’Angelus. Dopo pranzo insieme agli ammalati giocava a bocce con entusiasmo. Alle due era di nuovo in bicicletta e riprendeva le visite ai malati. Prima di cena, sbrigava la corrispondenza, contattava il personale dell’ospedale, distribuiva consigli, dava disposizioni con garbo, tanto che i suoi stessi collaboratori si trasformavano e maturavano nella carità cristiana. Consumava la sua cena con la comunità, un’ultima occhiata ai degenti e, se non aveva impegni fuori, si dava alla lettura di testi religiosi e di libri di medicina; così, fino alle dieci o undici di sera. Spesso veniva chiamato al capezzale di un ammalato in piena notte e a chi si scusava per il disturbo diceva: “Vostro dovere è chiamarmi, mio dovere è venire”.
La gioia del bene
           Da grande malato, Zatti era diventato il grande curatore. La richiesta fatta alla Madonna, all’inizio della sua malattia, era stata esaudita. Abbracciando il dolore e la miseria altrui, era diventato lui stesso una medicina. Bastava la sua presenza per sollevare dalle sofferenze; curava gli ammalati canticchiando, li distraeva dal dolore con mille trovate e con battute di spirito: era la gioia che provava a fare del bene. Le malattie più pericolose e più ripugnanti le voleva per sé, le piaghe più virulente voleva medicarle lui. Quando visitava i malati più poveri gratuitamente, lasciava loro anche qualche spicciolo. Quando l’ospedale era pieno zeppo, sistemava gli ammalati nella sua camera da letto o nel suo stesso letto. Lui dormiva sulla sedia. Quando si trattava di un malato che russava e non lasciava dormire, era ugualmente felice. A ogni russatina, pensava: “Deo gratias, è ancora vivo...”. Piangeva solo quando non poteva essere d’aiuto al suo prossimo.
          Chi moriva fra le mani di Artemide lo faceva con un sorriso sulle labbra. Era sempre sorridente, con la battuta scherzosa, anche con i malati più gravi.Zatti era intellettualmente ben dotato e se avesse potuto studiare sarebbe diventato un grande medico, ma i medici del suo ospedale lo ritenevano tale anche senza titolo. Lo stimavano e avvertivano l’ascendente che aveva su di loro. Durante una medicazione particolarmente dolorosa, una povera paziente sbottò: “Perdio, Don Zatti”. Rispose sereno: “Io faccio sempre e tutto per Dio”. Anche i suoi medici, a volte impazienti, si lasciavano scappare qualche imprecazione e Zatti con il solito sorriso: “Dottore, Dio non l’ascolta, sa, quando bestemmia”.Un medico, completamente ateo ebbe a dire: “Davanti a Zatti la mia incredulità vacilla. Se mai ci sono dei Santi sulla terra, questo è uno. Quando mi trovo con il bisturi in mano, guardando lui, lo vedo con il rosario in mano, e sento che la sala si riempie di qualcosa di soprannaturale”.Un giorno qualcuno lo vide piangere e corse dal Vescovo di Viedma ad avvertirlo che Zatti stava nei pasticci. Doveva pagare una grossa cambiale e nessuno aveva voluto aiutarlo. Era appoggiato allo sportello della banca, piangeva e pregava. “Questa volta è il fallimento e la prigione”, dissero al Vescovo. Monsignore brontolò: “Sempre lo stesso, questo Zatti!”. Chiese al Vicario quanto denaro stesse in cassa e lo inviò velocemente a quel povero uomo. Dieci minuti dopo piangeva ancora, ma di gioia.
          I suoi superiori s’inquietavano spesso con lui a causa del suo modo di gestire i soldi e gli diedero dei suggerimenti sulla partita doppia e gli misero a fianco un contabile tedesco tutto preciso, tanto che non resistette un anno. Altri tentativi non ebbero miglior fortuna. Per Zatti la partita doppia erano due tasche: una dove metteva il denaro che riceveva, l’altra dove metteva i debiti da pagare. Manovrava migliaia di pesos ed era povero e vestiva da povero. Dal 1907 portava lo stesso cappellaccio a larga tesa che gli faceva da parasole e da parapioggia. La bicicletta era il suo unico mezzo di trasporto; più volte gli venne offerto un mezzo più veloce: un motorino, un’automobile “topolino”, ma rifiutò sempre. Avrebbe avuto l’impressione di essere ricco e in quelle vesti non ci si vedeva, non si sarebbe trovato a suo agio. Soleva dire: “Il denaro, se non serve a fare del bene, non serve a niente”.
Un Ges√π di dieci anni
          Nel 1894, prima che Zatti arrivasse a Viedma, padre Bonacina aveva condotto in ospedale una donna muta, che aveva trovato abbandonata nelle campagne; camminava a quattro zampe come le pecore che seguiva e di umano in lei era rimasto ben poco. Nata in una famiglia disastrata, nessuno la voleva. Un giorno cadde in un pozzo: lo spavento la rese muta. La rieducazione fu lunga, e Don Zatti vi contribuì; ma anche dopo fu un piccolo flagello, perché ne combinava di tutti i colori. Tutti pretendevano che la sgridasse o addirittura che la picchiasse, ma lui no, diceva che delle disgrazie ne aveva già tante per conto suo e non era giusto che chi aveva l’uso della ragione aumentasse le sue pene. Ella visse in quell’ospedale 48 anni, esprimendosi a grugniti.Oltre alla muta, tenne per molti anni un povero ragazzo macrocefalo. Le disgrazie peggiori trovavano in Zatti l’accoglienza migliore; nelle miserie più nere vedeva la presenza di Dio. Come un giorno quando si presentò un povero indio sciancato, un ragazzino venuto da chissà dove, coperto di stracci: “Veda un po’ sorella”, disse rivolto alla suora, “se c’è un vestito per un Gesù di 10 anni”. Per Zatti, il peggio era il meglio. Era il peggio che, secondo lui, attirava la benedizione di Dio. Applicava il Vangelo alla lettera. “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”. I suoi debiti erano proverbiali in tutta la zona, ma più essi aumentavano, più aumentava la fiducia nella Provvidenza. Diceva: “Io non chiedo a Dio di mandarmi il denaro, gli chiedo solo di farmi sapere dove ce n’è”. Zatti era un uomo felice; non rimproverava mai nessuno né parlava male di alcuno e neppure voleva sentire parlare male degli altri perché la sua gioia interiore era troppo grande per poter muovere qualche rimprovero.
Il trasloco
          Nel 1934 Viedma diventò sede vescovile e nel luogo dove c’era l’ospedale di Zatti avrebbe dovuto sorgere la nuova sede del vescovado; quindi fu deciso lo sfratto e la demolizione del fabbricato. Il dispiacere di Artemide fu inenarrabile. I salesiani misero a disposizione una tenuta agricola fuori città. Ebbe inizio la demolizione dei vecchi muri innalzati nel lontano 1913, delle sale aggiunte nel 1933, della bella sala operatoria, frutto di tanti sacrifici.Organizzò il trasloco con una piega amara sulla bocca ma riuscendo a sorridere. Giunto sul posto, il sorriso diventò più aperto e vero. C’era tutto da rifare per i suoi “parenti più poveri” ma ne valeva la pena. Rimboccatesi le maniche e inforcata la bicicletta, riprese l’attività.Piano piano, le cose si sistemarono, la gente gli volle più bene di prima e gli portarono i bambini per una benedizione. Nel vederlo circondato da tanta simpatia, un giorno un pezzo grosso esclamò: “Volesse il cielo che anche noi politici avessimo tanta influenza!”.Un giorno, nel fare una riparazione ad un tetto mentre pioveva, scivolò dalla scala e fece una brutta caduta. Un mese dopo questo incidente, riprese nuovamente a usare la bicicletta, ma si cominciò a notare sul suo volto una strana colorazione verdognola e glielo fecero notare. Lui ci scherzava e diceva di “voler cambiare colore come il limone che non serve finché da verde non è diventato giallo”, e sorrideva. Una battuta che era anche una diagnosi: tumore al pancreas. Gli rimanevano cinque mesi di vita. “Cinquant’anni fa sono venuto qui per morire e ora, che è arrivato il momento, che cosa voglio di più? È tutta la vita che mi sto preparando!...”. Quando il medico gli chiedeva: “Come va?” lui rispondeva: “All’insù, dottore, all’insù...”, e alzava gli occhi al cielo. Dei suoi ultimi cinque mesi esiste una ricca aneddotica; ricordiamo solo che rimproverava coloro che piangevano per lui e li rimandava consolati come se gli ammalati fossero loro. L’otto marzo scrisse su un foglio le cure che dovevano impartirgli nei sette giorni successivi. Fu la sua ultima ricetta e, come sempre, la sottopose al medico perché l’approvasse. L’ultima cura che prescrisse a se stesso fu del 14 marzo: morì il mattino seguente. Il medico accorse e trovò il certificato di avvenuto decesso, già compilato dallo stesso Zatti con lo spazio per aggiungere il giorno e l’ora.La camera ardente si riempì di fiori, non di belle ghirlande con nastri e scritte dorate, ma fiori di campo raccolti dai suoi poveri.Per i funerali, il 16 marzo 1951, le autorità disposero la chiusura degli edifici pubblici; i negozi chiusero i battenti in segno di lutto, le fabbriche concessero ai dipendenti di partecipare ai funerali. In tutta la città di Viedma, accompagnavano il suono delle campane, le parole di Zatti: “Il dolore ci viene dato in sovrappiù; perciò non possiamo lamentarcene”. Solo i suoi malati si lamentavano, perché ora non c’era più chi li teneva allegri.
Galliano Cagnolati
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