È l’estate del 1953, fuori fa caldo, e nell’Upper East Side di Manhattan il fotografo Elliott Erwitt ci regala una scena di calore e intimità. Luce e ombra sono separate dal bordo del letto che accompagna l’attenzione verso il centro della scena, mentre la traiettoria della luce dipinge il corpo della donna disegnando una linea che incrocia il buio.
Elliott Erwitt, Lucienne and Ellen, New York, 1953
Arte & Avvento - Terza Settimana
di Suor Giada Gazziola
«Starò davanti a te a faccia a faccia.»
Tagore R.
Tre figure e un gioco di sguardi.
La luce sfumata accarezza i soggetti dando volume alla scena, e il bianco e nero riduce all’essenziale ma dona profondità di senso.
È l’estate del 1953, fuori fa caldo, e nell’Upper East Side di Manhattan il fotografo Elliott Erwitt ci regala una scena di calore e intimità. Luce e ombra sono separate dal bordo del letto che accompagna l’attenzione verso il centro della scena, mentre la traiettoria della luce dipinge il corpo della donna disegnando una linea che incrocia il buio.
All’intersezione delle due diagonali siamo catturati dallo sguardo tra la donna e la bambina. Uno sguardo di un’intensità paradossale se pensiamo che il volto della piccola non si vede e che nessuno dei due soggetti accenna gesti che possano manifestare il desiderio di toccarsi o di accorciare la distanza, inusuale per un ritratto madre-figlio. La donna è tutta raccolta nello sguardo la cui dolcezza dell’espressione è amplificata dalle linee del braccio e dalla posizione della mano; la bambina tiene le mani rannicchiate sotto al petto e non cogliamo vezzi, ma i piedi ci dicono che è sveglia e non abbiamo quindi dubbi sulla serenità del suo sguardo.
Null’altro ci disturba: un letto semplice, un panno pulito, e un muro screpolato non degno di interesse. Persino il gatto, immobile e felpato come solo i gatti sanno essere, è divenuto un tutt’uno con l’ombra e nel suo retrovia sfocato amplifica esponenzialmente il gioco di sguardi: la donna guarda la bambina, la bambina guarda la donna, il gatto guarda la bambina che guarda la donna e noi guardiamo il gatto e i due che si guardano.
Una foto che ci fa stare in silenzio, quasi a non voler disturbare, ma allo stesso tempo ci fa scoprire incapaci di togliere lo sguardo dalla bellezza che scorgiamo e che non sappiamo dire se sia nell’espressione del dolce sorriso della donna, nella completa vulnerabilità esposta della bambina o nell’energia che passa tra quegli sguardi che pure non vediamo. Ci sentiamo inaspettatamente vicini, accolti in una scena privata nella quale però siamo estranei: come il gatto, anche noi possiamo solo contemplare dall’esterno il mistero della reciprocità dello sguardo che è protagonista assoluto della scena.
Ecco il segreto di questa fotografia: il gusto dolceamaro di una forte nostalgia che ci abita e che ci fa desiderare di prendere parte a quello scambio di sguardi. Il risvegliarsi in noi del desiderio di essere guardati senza motivo altro che per la gioia di farlo, nella silenziosa contemplazione di due misteri che si incontrano, poiché non si dà il guardare senza l’essere guardati o l’essere guardati senza il guardare.
Anche nel nostro cammino di fede ritroviamo il desiderio e la promessa, la ricerca e l’attesa di vedere il volto di Dio. Natale è allora il compiersi di questa nostalgia in un Dio che si fa bambino per lasciarsi guardare dagli occhi di una madre. Attesa che si rinnova ogni giorno nel nostro aspettare di vederlo davvero, alla fine dei tempi, «faccia a faccia» (1 Cor 13,12) per poter dire: «io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5).
Chi sei Tu
che noi chiamiamo
nei nostri muti dolori
nelle parole grevi
che muoiono nel petto.
Dammi un nome
a questo grido
e un volto
a questa nostalgia.
Fa’ che vediamo
il tuo sguardo che ci guarda.
«Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).
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